< Le avventure di Pinocchio (1892)
Questo testo è stato riletto e controllato.
Capitolo 14
Capitolo 13 Capitolo 15

XIV.


Pinocchio, per non aver dato retta ai buoni consigli del Grillo-parlante, s’imbatte negli assassini.


— Davvero.... — disse fra sè il burattino rimettendosi in viaggio — come siamo disgraziati noialtri poveri ragazzi! Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci dànno consigli. A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i nostri babbi e i nostri maestri; tutti; anche i Grilli-parlanti. Ecco qui: perchè io non ho voluto dar retta a quell’uggioso di Grillo, chi lo sa quante disgrazie, secondo lui, mi dovrebbero accadere! Dovrei incontrare anche gli assassini! Meno male che agli assassini io non ci credo, nè ci ho creduto mai. Per me gli assassini sono stati inventati apposta dai babbi, per far paura ai ragazzi che vogliono andare fuori la notte. E poi se anche li trovassi qui sulla strada, mi darebbero forse soggezione? Neanche per sogno, anderei loro sul viso, gridando: «Signori assassini, che cosa vogliono da me? Si rammentino che con me non si scherza! Se ne vadano dunque per i fatti loro, e zitti!». A questa parlantina fatta sul serio, quei poveri assassini, mi par di vederli, scapperebbero via come il vento. Caso poi fossero tanto ineducati da non voler scappare, allora scapperei io, e così la farei finita… ―

Ma Pinocchio non potè finire il suo ragionamento, perchè in quel punto gli parve di sentire dietro di sè un leggerissimo fruscìo di foglie.

Si voltò a guardare, e vide nel buio due figuracce nere, tutte imbacuccate in due sacchi da carbone, le quali correvano dietro a lui a salti e in punta di piedi, come se fossero due fantasmi.

— Eccoli davvero! — disse dentro di sè: e non sapendo dove nascondere i quattro zecchini, se li nascose in bocca e precisamente sotto la lingua.

Poi si provò a scappare. Ma non aveva ancor fatto il primo passo, che sentì agguantarsi per le braccia e intese due voci orribili e cavernose che gli dissero:

— O la borsa o la vita! —

Pinocchio non potendo rispondere con le parole, a motivo delle monete che aveva in bocca, fece mille salamelecchi e mille pantomime, per dare ad intendere a quei due incappati, di cui si vedevano soltanto gli occhi attraverso i buchi dei sacchi, che lui era un povero burattino e che non aveva in tasca nemmeno un centesimo falso.

— Via, via! Meno ciarle e fuori i denari — gridarono minacciosamente i due briganti.

E il burattino fece col capo e colle mani un segno, come dire: «Non ne ho».

— Metti fuori i denari o sei morto; — disse l’assassino più alto di statura.

— Morto! — ripetè l’altro.

— E dopo ammazzato te, ammazzeremo anche tuo padre!

— Anche tuo padre!

— No, no, no, il mio povero babbo no! — gridò Pinocchio con accento disperato: ma nel gridare così, gli zecchini gli sonarono in bocca.

— Ah furfante! dunque i denari te li sei nascosti sotto la lingua? Sputali subito! —

E Pinocchio, duro!

— Ah! tu fai il sordo? Aspetta un po’, che penseremo noi a farteli sputare! —

Difatti uno di loro afferrò il burattino per la punta del naso e quell’altro lo prese per la bazza, e lì cominciarono a tirare screanzatamente uno per in qua l’altro per in là, tanto da costringerlo a spalancare la bocca: ma non ci fu verso. La bocca del burattino pareva inchiodata e ribadita.

Allora l’assassino più piccolo di statura, cavato fuori un coltellaccio, provò a conficcarglielo a guisa di leva e di scalpello fra le labbra: ma Pinocchio, lesto come un lampo, gli azzannò la mano coi denti, e dopo avergliela con un morso staccata di netto, la sputò; e figuratevi la sua maraviglia quando, invece di una mano, si accòrse di aver sputato in terra uno zampetto di gatto.

Incoraggito da questa prima vittoria, si liberò a forza dalle unghie degli assassini, e saltata la siepe della strada, cominciò a fuggire per la campagna. E gli assassini a correre dietro a lui, come due cani dietro a una lepre: e quello che aveva perduto uno zampetto correva con una gamba sola, nè si è saputo mai come facesse. Dopo una corsa di quindici chilometri, Pinocchio non ne poteva più. Allora, vistosi perso, si arrampicò su per


il fusto di un altissimo pino e si pose a sedere in vetta ai rami. Gli assassini tentarono di arrampicarsi anche loro, ma giunti a metà del fusto sdrucciolarono e, ricascando a terra, si spellarono le mani e i piedi.

Non per questo si dettero per vinti: che anzi, raccolto un fastello di legna secche a piè del pino, vi appiccarono il fuoco. In men che non si dice, il pino cominciò a bruciare e a divampare come una candela agitata dal vento. Pinocchio, vedendo che le fiamme salivano sempre più e non volendo far la fine del piccione arrosto, spiccò un bel salto di vetta all’albero, e via a correre daccapo attraverso i campi e ai vigneti. E gli assassini dietro, sempre dietro, senza stancarsi mai.

Intanto cominciava a baluginare il giorno e si rincorrevano sempre; quand’ecco che Pinocchio si trovò improvvisamente sbarrato il passo da un fosso largo e profondissimo, tutto pieno di acquaccia sudicia, color del caffè e latte. Che fare? «Una, due, tre!» gridò il burattino, e slanciandosi con una gran rincorsa, saltò dall’altra parte. E gli assassini saltarono anche loro, ma non avendo preso bene la misura, patatunfete!… cascarono giù


nel bel mezzo del fosso. Pinocchio che sentì il tonfo e gli schizzi dell’acqua, urlò ridendo e seguitando a correre:

— Buon bagno, signori assassini. —

E già si figurava che fossero bell’e affogati, quando invece, voltandosi a guardare, si accòrse che gli correvano dietro tutti e due, sempre imbacuccati nei loro sacchi, e grondanti acqua come due panieri sfondati.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.