< Le avventure di Pinocchio (1892)
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IX.


Pinocchio vende l’Abbecedario per andare a vedere il teatrino dei burattini.


Smesso che fu di nevicare, Pinocchio, col suo bravo Abbecedario nuovo sotto il braccio, prese la strada che menava alla scuola: e strada facendo, fantasticava nel suo cervellino mille ragionamenti e mille castelli in aria uno più bello dell’altro.

E discorrendo da sè solo, diceva:

— Oggi, alla scuola, voglio subito imparare a leggere: domani poi imparerò a scrivere, e domani l’altro imparerò a fare i numeri. Poi, colla mia abilità, guadagnerò molti quattrini e coi primi quattrini che mi verranno in tasca, voglio subito fare al mio babbo una bella casacca di panno. Ma che dico di panno? Gliela voglio fare tutta d’argento e d’oro, e coi bottoni di brillanti. E quel pover’uomo se la merita davvero: perchè, insomma, per comprarmi i libri e per farmi istruire, è rimasto in maniche di camicia.... a questi freddi! Non ci sono che i babbi che sieno capaci di certi sacrifizi!...

Mentre tutto commosso diceva così, gli parve di sentire in lontananza una musica di pifferi e di colpi di grancassa: pì-pì-pì, pì-pì-pì, zum, zum, zum, zum.

Si fermò e stette in ascolto. Quei suoni venivano di fondo a una lunghissima strada traversa, che conduceva a un piccolo paesetto fabbricato sulla spiaggia del mare.

— Che cosa sia questa musica? Peccato che io debba andare a scuola, se no.... —

E rimase lì perplesso. A ogni modo, bisognava prendere una risoluzione; o a scuola, o a sentire i pifferi.

— Oggi anderò a sentire i pifferi, e domani a scuola. Per andare a scuola c’è sempre tempo — disse finalmente quel monello, facendo una spallucciata.

Detto fatto, infilò giù per la strada traversa e cominciò a correre a gambe. Più correva e più sentiva distinto il suono dei pifferi e dei tonfi della grancassa: pì-pì-pì, pì-pì-pì, pì-pì-pì, zum, zum, zum, zum.

Quand’ecco che si trovò in mezzo a una piazza tutta piena di gente, la quale si affollava intorno a un gran baraccone di legno e di tela dipinta di mille colori.

— Che cos’è quel baraccone? — domandò Pinocchio, voltandosi a un ragazzetto che era lì del paese.

— Leggi il cartello, che c’è scritto, e lo saprai.

— Lo leggerei volentieri, ma per l’appunto oggi non so leggere.

— Bravo bue! Allora te lo leggerò io. Sappi dunque che in quel cartello a lettere rosse come il fuoco, c’è scritto: Gran Teatro dei Burattini....

— È molto che è incominciata la commedia?

— Comincia ora.

— E quanto si spende per entrare?

— Quattro soldi. —

Pinocchio, che aveva addosso la febbre della curiosità, perse ogni ritegno e disse, senza vergognarsi, al ragazzetto, col quale parlava:

— Mi daresti quattro soldi fino a domani?

— Te li darei volentieri, — gli rispose l’altro canzonandolo — ma oggi per l’appunto non te li posso dare.

— Per quattro soldi, ti vendo la mia giacchetta — gli disse allora il burattino.

— Che vuoi che mi faccia di una giacchetta di carta fiorita? Se ci piove su, non c’è più verso di cavarsela da dosso.

— Vuoi comprare le mie scarpe?

— Sono buone per accendere il fuoco.

— Quanto mi dài del berretto?

— Bell’acquisto davvero! Un berretto di midolla di pane! C’è il caso che i topi me lo vengano a mangiare in capo!—

Pinocchio era sulle spine. Stava lì lì per fare un’ultima offerta: ma non aveva coraggio: esitava, tentennava, pativa. Alla fine disse:

— Vuoi darmi quattro soldi di quest’Abbecedario nuovo?

— Io sono un ragazzo e non compro nulla dai ragazzi — gli rispose il suo piccolo interlocutore, che aveva molto più giudizio di lui.

— Per quattro soldi l’Abbecedario lo prendo io — gridò un rivenditore di panni usati, che s’era trovato presente alla conversazione.

E il libro fu venduto lì sui due piedi. E pensare che quel pover’uomo di Geppetto era rimasto a casa, a tremare dal freddo in maniche di camicia, per comprare l’Abbecedario al figliuolo!


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