< Le confessioni
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Lev Tolstoj - Le confessioni (1879-1881) (1882)
Traduzione dal russo di Anonimo (1913)
IV
III V


IV.


La mia vita s’arrestò. Potevo respirare, mangiare, bere, dormire, giacchè non avrei potuto non respirare, non mangiare e non dormire. Ma non era la vita, poichè non sentivo un desiderio la cui soddisfazione mi paresse ragionevole. Se anche desideravo qualche cosa, sapevo in anticipo che dal mio desiderio, soddisfatto o no, non sarebbe derivato nulla. Se fosse venuta una fata a propormi di soddisfare ogni mio desiderio, non avrei saputo che cosa chiederle. Se, in un momento di ebbrezza ritrovavo, non il desiderio, ma l’abitudine del desiderio, appena ritornato calmo sapevo trattarsi di un inganno: non avevo nulla da desiderare. Non potevo neppure augurarmi di conoscere la verità; poichè indovinavo in che cosa consistesse; secondo la verità, la vita è una pazzia. Avevo creduto di vivere, di andare innanzi, ed ero arrivato all’abisso e vedevo nettamente che davanti a me non v’era nulla, tranne la morte. Eppure non ci si può fermare nè tornare indietro nè chiuder gli occhi per non vedere che non si ha nulla davanti a sè, tranne il dolore e la morte: l’annientamento completo.

Arrivai al punto che, pur essendo sano e felice, sentii che non potevo più vivere. Una forza invincibile mi trascinava a sbarazzarmi della vita in modo qualunque, ma non si può dire che volessi uccidermi: la forza che mi trascinava di là dalla vita era più potente, più completa, più generale del mio desiderio; era una forza simile alla mia antica aspirazione alla vita, ma in senso inverso. Con tutte le mie forze aspiravo a liberarmi dalla vita; l’idea del suicidio mi divenne tanto naturale quanto altra volta l’idea del perfezionamento della vita. Quest’idea era così suggestiva che dovetti usar degli artifizi con me stesso per non metterla in esecuzione troppo in fretta; non volevo affrettarmi unicamente perchè volevo concentrare tutti i miei sforzi a veder chiaro in me; in caso d’insuccesso avrei sempre avuto il tempo di uccidermi. Ed ecco che io, l’uomo felice, per non impiccarmi, nascondevo a me stesso la corda tra gli armadi della mia camera, in cui ogni sera restavo solo a svestirmi; non andavo più a caccia col fucile per non lasciarmi tentare da quel facile mezzo di liberarmi dalla vita. Non sapevo neppur io che cosa desiderassi: avevo paura della vita, aspiravo ad uscirne, eppure speravo ancora qualche cosa da essa.

Ciò accadeva in un momento in cui, sotto tutti i rapporti, avevo ciò che è considerato come la felicità completa. Non avevo ancora cinquant’anni, avevo una moglie amante ed amata, dei bambini buoni, un gran possedimento che, senza alcuna fatica, si allargava e prosperava; ero più che mai rispettato dai miei parenti e dalle mie conoscenze; gli estranei mi colmavano di elogi e, senza falsa vanità, potevo credere che il mio nome fosse celebre. Inoltre non solo non ero nè pazzo nè malato mentalmente, ma possedevo una forza morale e fisica come ho trovato raramente fra i miei compagni. Fisicamente avrei potuto falciare come un contadino, intellettualmente avrei potuto lavorare otto, dieci ore di seguito senza risentirne menomamente.

In tale stato giunsi a non poter più vivere e, avendo paura della morte, dovetti usar degli artifizi verso me stesso per non togliermi la vita. Ecco come si riassumeva per me questo stato d’animo: «La mia vita è uno scherzo stupido e cattivo giuocatomi da qualcuno

Quantunque io non conoscessi affatto questo qualcuno che m’avrebbe creato, l’idea che qualcuno si fosse burlato di me, per cattiveria o per stupidità, mettendomi al mondo, era la forma più ordinaria della rappresentazione del mio stato.

Involontariamente immaginavo che laggiù, in qualche luogo, v’era qualcuno che si fregava le mani al veder come, io, che avevo vissuto trenta, quarant’anni lavorando, svolgendomi, fortificandomi il corpo e lo spirito, giunto ora a quel culmine della vita dal quale la si scopre tutta, restavo là come un imbecille, comprendendo chiaramente che non v’è, che non vi fu nulla nella vita, e che non vi sarà mai nulla. E questo qualcuno ride...

Ma, esista o no questo qualcuno che si burla di me, io non mi sento meglio.

Non potevo dare un senso ragionevole a nessun’azione della mia vita; mi stupivo soltanto di non aver potuto comprenderlo fin dal principio. Tutto ciò è conosciuto universalmente da molto tempo; oggi o domani verranno le malattie, la morte (sono già venute), per delle persone amate, per me, e non rimarrà nulla, null’altro che la putrefazione ed i vermi; le mie opere, quali esse siano, saranno dimenticate, presto o tardi, ed io non sarò più. Allora perchè inquietarmi? Come l’uomo possa non veder questo vivere, è stupefacente. Si può vivere soltanto quando si è ebbri della vita; ma, appena dissipata l’ebbrezza, non si può far a meno di vedere che tutto ciò non è che soperchieria e soperchieria stupida.

Certo, non v’ha nulla di allegro o di spiritoso in questo; è semplicemente crudele e stupido.

È conosciutissima quella fiaba orientale di quel viaggiatore sorpreso nel deserto da un animale feroce. Per sfuggire all’animale, il viaggiatore si precipita in un pozzo profondo; ma in fondo a questo vede un drago con la bocca aperta per divorarlo, e l’infelice, non osando uscire per non esser preda della bestia feroce, non osando scendere in fondo al pozzo per non essere divorato dal drago, si aggrappa ai rami di un cespuglio che esce da una fenditura del pozzo; ma le sue mani stanno per cedere; sente che ben presto dovrà rassegnarsi alla fine certa che l’attende dalle due parti. Pur continua ad aggrapparsi; quando s’accorge che due topi, uno bianco e l’altro nero, rodono il tronco del cespuglio al quale è sospeso; il sostegno sta per cedere... egli cadrà in bocca al drago; lo vede e sa che perirà inevitabilmente; ma mentre è così sospeso, cerca intorno a sè e scopre sulle foglie del cespuglio delle gocce di miele; le raggiunge, con la lingua, e le succhia.

Così io mi aggrappo ai rami della vita, sapendo che il drago della morte, pronto a divorarmi, mi attende inevitabilmente; non posso comprendere perchè mi sia sottomesso a questa tortura e cerco di succhiare quel miele che una volta mi consolava. Ma questo miele non mi contenta più, e i topi, il bianco e il nero, notte e giorno rodono il ramo a cui m’attacco: vedo distintamente il drago, e il miele non mi par più dolce. Non vedo che una cosa: il drago inesorabile ed i sorci, e non posso staccar da essi lo sguardo. E questa non è una favola, ma la verità, vera, indiscutibile, accessibile a tutti.

L’antico inganno dei godimenti della vita, che soffocava l’orrore della visione del drago, non mi prende più. Si ha un bel dirmi: «Tu non puoi comprendere il senso della vita, non riflettere, lascia che tu viva»; non posso far questo, l’ho fatto già troppo. Ora io non posso non vedere il giorno e la notte che corrono e mi conducono alla morte. Non vedo che questo, perchè questo solo è la verità. Tutto il resto è menzogna.

Queste due gocce di miele, le quali, più a lungo di tutto il resto, distolsero i miei occhi dalla verità crudele ― l’amore della famiglia e delle lettere — che chiamavo arte ― non mi son più dolci.

«La famiglia, mi dicevo... La famiglia — mia moglie, i miei figli ― ma sono anch’essi degli esseri umani, che si trovano nelle mie stesse condizioni: devono vivere nella menzogna o guardare in faccia la terribile verità... Perchè devono vivere? Perchè li amerei, li proteggerei, li nutrirei? Perchè abbiano a conoscere la stessa disperazione ch’è in me, o per farne degli esseri stupidi? Amandoli, non posso nasconder loro la verità; ogni passo nella scienza li conduce verso questa verità, e la verità è la morte...»

L’arte, la poesia?.... Per lungo tempo, sotto l’influenza delle lodi unanimi, cercai di convincermi che quello era un lavoro che si poteva fare; nonostante la morte che annienterebbe le mie opere e il loro ricordo. Ma vidi ben presto che anche quello era un inganno. Evidentemente l’arte è un ornamento, un’attrattiva della vita; ma avendo la vita perduto per me ogni attrattiva; in che modo avrei potuto farla amare degli altri? Fin che non avevo vissuto la mia propria vita, ma una vita estranea, con le sue esigenze, fin che avevo creduto che la vita avesse un senso, quantunque non potessi definirlo, i varî riflessi della vita nella poesia e nelle arti mi davano della gioia; mi piaceva guardar la vita nelle specchio dell’arte. Ma quando incominciai a cercare il senso della vita, quando sentii la necessità di vivere me stesso, questo specchio mi divenne inutile, superfluo, ridicolo, insopportabile. Non potevo consolarmi per ciò che vedevo nello specchio: una situazione stupida e disperata. Era giusto che me ne rallegrassi quando, nel fondo della mia anima, credevo che la vita avesse un senso: allora questo gioco di luce della vita ― il comico, il tragico, il commovente, il bello, il terribile ― mi divertiva; ma quando seppi che la vita era insensata e orribile, il giuoco dello specchio non potè più divertirmi; non trovai più nel miele nessuna dolcezza, quando vidi il drago e i due sorci rodenti il mio sostegno.

È ancor poco. Pur avendo compreso che la vita non aveva senso, avrei potuto non soffrirne, rassegnarmi al destino; ma nulla poteva tranquillizzarmi. Se mi fossi trovato nella situazione di un uomo vivente in una foresta senza uscita, avrei potuto vivere; ma ero simile ad un uomo perduto in una foresta, che è preso dall’orrore, perchè s’è perduto, e corre da tutte le parti per uscir sulla strada e non può fermarsi, quantunque sappia che ad ogni passo si smarrisce ancor più.

Ecco ciò che era spaventoso! E per liberarmi da questa tortura volevo uccidermi. Provavo l’orrore di ciò che mi attendeva, sapevo quest’orrore ancor più terribile della situazione stessa, ma non potevo attendere pazientemente la fine. Per convincenti che fossero questi ragionamenti: «qualche vaso sanguigno finirà per rompersi, qualche cosa si spezzerà e tutto sarà terminato», non potevo attendere la fine con pazienza. La paura delle tenebre era troppo grande, io volevo al più presto liberarmene con l’aiuto di una corda o di una palla. E questo sentimento mi trascinava irresistibilmente al suicidio.

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