< Le confessioni di un ottuagenario
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Cap. V Cap. VII

CAPITOLO SESTO.


Nel quale si legge un parallelo fra la Rivoluzione Francese e la tranquillità patriarcale della giurisdizione di Fratta. — Gli eccellentissimi Frumier si ricoverano a Portogruaro. — Crescono la mia importanza, la mia gelosia, la mia sapienza di latino, sicchè mi mettono per graffiacarte in Cancelleria. — Ma la comparsa a Portogruaro del dotto Padre Pendola, e del brillante Raimondo di Venchieredo mi mette in maggior pensiero.


Gli anni che al castello di Fratta giungevano e passavano l’uno uguale all’altro, modesti e senza rinomanza come umili campagnuoli, portavano invece a Venezia e nel resto del mondo nomi famosi e terribili. Si chiamavano 1786, 1787, 1788; tre cifre che fanno numero al pari delle altre, e che pure nella cronologia dell’umanità resteranno come i segni d’uno de’ suoi principali rivolgimenti. Nessuno crede ora che la rivoluzione francese sia stata la pazzia d’un sol popolo. La Musa imperiale della storia ci ha svelato le larghe e nascoste radici di quel delirio di libertà, che dopo avere lungamente covato negli spiriti, irruppe negli ordini sociali, cieco sublime inesorabile. Dove tuona un fatto, siatene certi, ha lampeggiato un’idea. Soltanto la nazione francese, spensierata e impetuosa, precipita prima delle altre dalla dottrina all’esperimento: fu essa chiamata il capo dell’umanità, e non ne è che la mano; mano ardita, distruggitrice, che sovente distrusse l’opera propria, mentre nella mente universale dei popoli se ne maturava più saldo il disegno. A Venezia, come in ogni altro stato d’Europa, cominciavano le opinioni a sgusciare dalle nicchie famigliari per aggirarsi nella cerchia più vasta dei negozii civili; gli uomini si sentivano cittadini, e come tali interessati al buon governo della patria; sudditi e governanti, i primi si vantavano capaci di diritti, i secondi s’accorgevano del legame dei doveri. Era un guardarsi in cagnesco, un atteggiarsi a battaglia di due forze fino allora concordi; una nuova baldanza da un lato, una sospettosa paura dall’altro. Ma a Venezia meno che altrove gli animi erano disposti a sorpassare la misura delle leggi: la Signoria fidava giustamente nel contento sonnecchiare dei popoli; e non a torto un principe del Nord, capitatovi in quel torno, ebbe a dire d’averci trovato non uno stato ma una famiglia. Tuttavia quello che è provvida e naturale necessità in una famiglia, può essere tirannia in una repubblica: le differenze di età e d’esperienza che inducono l’obbedienza della prole e la tutela paterna non si riscontrano sempre nelle condizioni varie dei governati e delle autorità. Il buon senso si matura nel popolo, mentre la giustizia d’altri tempi gli rimane dinanzi come un ostacolo. Per continuar la metafora, giunge il momento che i figlioli cresciuti di forza, di ragione e d’età hanno diritto d’uscir di tutela: quella famiglia, nella quale il diritto di pensare, concesso ad un ottuagenario, lo si negasse ad un uomo di matura virilità, non sarebbe certamente disposta secondo i desiderii della natura, anzi soffocherebbe essa il più santo dei diritti umani, la libertà.

Venezia era una famiglia cosiffatta. L’aristocrazia dominante decrepita; il popolo snervato nell’ozio ma che pur ringiovaniva nella coscienza di sè al soffio creativo della filosofia; un cadavere che non voleva risuscitare, una stirpe di viventi costretta da lunga servilità ad abitar con esso il sepolcro. Ma chi non conosce queste isole fortunate, a cui il cielo sorride, e che il mare accarezza, dove perfino la morte sveste le sue nere gramaglie, e i fantasmi danzerebbero sull’acqua cantando le amorose ottave del Tasso? Venezia era il sepolcro ove Giulietta si addormenta sognando gli abbracciamenti di Romeo; morire colla felicità della speranza e le rosee illusioni della gioia parrà sempre il punto più delizioso della vita. Così nessuno si accorgeva che i lunghi e chiassosi carnovali altro non erano che le pompe funebri della regina del mare. Al 18 febbraio 1788 moriva il doge Paolo Renier; ma la sua morte non si pubblicò fino al dì secondo di marzo, perchè il pubblico lutto non interrompesse i tripudii della settimana grassa. Vergognosa frivolezza dinotante che nessun amore, nessuna fede congiungevano i sudditi al principe, i figliuoli al padre. Viva e muoia a suo grado purchè non turbi l’allegria delle mascherate, e i divertimenti del Ridotto; cotali erano i sentimenti del popolo, e della nobiltà che si rifaceva popolo solo per godere con minori spese, e con più sicurezza. Con l’uguale indifferenza fu eletto doge ai nove di marzo Lodovico Manin: si affrettarono forse, perchè le feste della elezione rompessero le melanconie della quaresima. L’ultimo doge salì il soglio di Dandolo e di Foscari nei giorni del digiuno; ma Venezia ignorava allora qual penitenza le fosse preparata.

Fra tanta spensieratezza, in mezzo ad una sì marcia inettitudine, non avea mancato chi, prevedendo confusamente le necessità dei tempi, richiamasse la mente della Signoria agli opportuni rimedii. Fors’anco i rimedi proposti non furono nè opportuni nè pari al bisogno; ma dovea bastare lo aver fatto palpare la piaga perchè altri pensasse a farmaci migliori. Invece la Signoria torse gli occhi dal male; negò la necessità d’una cura dove la quiete e la contentezza indicavano non l’infermità ma la salute; non conobbe che appunto quelle sono le infermità più pericolose dove manca perfin la vita del dolore. Non molti anni prima l’Avogadore di Comune, Angelo Querini, avea sofferto due volte la prigionia d’ordine del Consiglio dei Dieci per aver osato propalarne gli abusi e le arti illegali, con cui si accaparravano e si fingevano le maggioranze nel Maggior Consiglio. La seconda volta, dopo aver promesso di discorrere questa materia, fu carcerato anche prima che la promessa potesse aver effetto. Tale era l’indipendenza di una autorità semi-tribunizia, e tanto il valore e l’affetto consentitole; nessuno s’accorse o tutti finsero non s’accorgere della carcerazione di Angelo Querini, perchè nessuno si sentiva voglioso di imitarlo. Ma quello era il tempo che le riforme avanzavano per forza. Nel 1779 a tanto era scaduta l’amministrazione della giustizia e la fortuna pubblica che anche il pazientissimo e giocondissimo fra i popoli se ne risentiva. Primo Carlo Contarini propose nel Maggior Consiglio la correzione degli abusi con opportuni cambiamenti nelle forme costituzionali; e la sua arringa fu così stringente insieme e moderata, che con maravigliosa unanimità fu presa parte di comandare alla Signoria la pronta proposta dei necessarii cambiamenti. Si nota in quelle discussioni che quello che ora si direbbe il partito liberale tendeva a ripristinare tutto il patriziato nell’ampio esercizio della sua autorità, sciogliendo quel potere oligarchico che s’era concentrato nella Signoria e nel Consiglio dei Dieci per una lunga e illegale consuetudine. Miravano apparentemente a riforme di poco conto; in sostanza si cercava di allargare il diritto della sovranità, riducendolo almeno alle sue proporzioni primitive, e insistendo sempre sulla massima da gran tempo dimenticata, che al Maggior Consiglio si stava il comandare e alla Signoria l’eseguire: in ogni occasione si ricordava non aver questa che un’autorità demandata.

I partigiani dell’oligarchia sbuffavano di dover sopportare simili discorsi; ma la confusione e la moltiplicità delle leggi porgeva loro mille sotterfugi per tirar la cosa in lungo. La Signoria fingeva di piegarsi all’obbedienza richiesta; indi proponeva rimedii insufficienti e ridicoli. Dopo un anno di continue dispute, nelle quali il Maggior Consiglio appoggiò sempre indarno il voto dei riformatori, si trasse in mezzo il serenissimo Doge. La sua proposta fu di delegare l’esame dei difetti accusati negli ordini repubblicani a un magistrato di cinque correttori; e la convenienza di un tal partito, che si riduceva a nulla, fu da lui appoggiata alle ragioni stesse, con cui un accorto politico avrebbe provato la necessità di riformar tutto e subito. Il Doge parlò a lungo delle monarchie d’Europa fatte potenti a scapito delle poche repubbliche; da ciò dedusse il bisogno della concordia e della stabilità. « Io stesso » aggiungeva egli nel suo patriarcale veneziano,« io stesso essendo a Vienna durante i torbidi della Polonia udii più volte ripetere: Questi signori Polacchi non vogliono aver giudizio; li aggiusteremo noi. — Se v’ha Stato che abbisogni di concordia, gli è il nostro. Noi non abbiamo forze; non terrestri, non marittime, non alleanze. Viviamo a sorte, per accidente, e viviamo colla sola idea della prudenza del governo.» Il Doge parlando a questo modo mostrava a mio credere più cinismo che coraggio; massime che per solo riparo a tanta rovina non sapea proporre altro che l’inerzia, e il silenzio. Gli era un dire: “Se smoviamo un sasso, la casa crolla! non fiatate non tossite per paura che ci caschi addosso”. Ma il confessarlo in pieno Consiglio, lui, il primo magistrato della Repubblica, era tale vergogna che doveva fargli gettare come un’ignominia il corno ducale. Almeno il procurator Giorgio Pisani avea gridato che si avvisasse ai cambiamenti necessari negli ordini repubblicani, e che se fossero giudicati impossibili ad effettuarsi, se ne consegnasse in pubblico atto la memoria, perchè i posteri compiangessero l’impotente sapienza degli avi, ma non ne maledicessero la sprovvedutezza, non ne sperdessero al vento le ceneri. Il Maggior Consiglio accettò invece il parere del doge; e i cinque correttori furono eletti, fra cui lo stesso Giorgio Pisani. Quando poi sopito quel momentaneo fermento, gli Inquisitori di Stato vennero alle vendette, e senza alcun rispetto ai decreti sovrani confinarono per dieci anni il Pisani nel castello di Verona, mandarono il Contarini a morire esule alle Bocche di Cattaro, e altri molti proscrissero e condannarono, non fu udita voce di biasimo o di pietà. Fu veduto, esempio unico nella storia, un magistrato di giustizia condannar per delitto quello che il Supremo Consiglio della Repubblica avea giudicato utile, opportuno, decoroso. E questo sopportare, senza risentirsi, lo sfacciato insulto; e lasciar languenti nell’esilio e nelle carceri coloro ai quali avea commesso l’esecuzione dei proprii decreti, era, come si direbbe, un segno dei tempi. Cotale era l’ordinamento politico, tale la pazienza del popolo veneziano. In verità, piuttostochè vivere a questo modo, o per accidente, come diceva il serenissimo doge, sarebbe stata opera più civile, prudente insieme e generosa, l’arrischiar di morire in qualunque altra maniera. Di questo passo si toccò finalmente il giorno, nel quale la minaccia di novità suonò con ben altro frastuono che colla debole voce di alcuni oratori casalinghi. Il dì medesimo che fu decretata a Parigi la convocazione degli Stati generali, il 14 luglio 1788, l’ambasciatore Antonio Cappello ne significò al doge la notizia: aggiungendo considerazioni assai gravi sopra le strettezze nelle quali la Repubblica poteva incorrere, e i modi più opportuni da governarla. Ma gli eccellentissimi Savii gettarono il dispaccio nella filza delle comunicazioni non lette; nè il Senato ne ebbe contezza. Bensì gl'inquisitori di Stato raddoppiarono di vigilanza; e cominciò allora un tormento continuo di carceramenti, di spionaggi, di minaccie, di vessazioni, di bandi, che senza diminuire il pericolo ne faceva accorgere l’imminenza, e manteneva insieme negli animi una diffidenza mista di paura e di odio. Il Conte Rocco Sanfermo esponeva intanto da Torino i disordini di Francia, e le segrete trame delle Corti d’Europa; Antonio Cappello, reduce da Parigi, instava a viva voce per una pronta deliberazione. Il pericolo ingrandiva a segno tale, che non era fattibile sorpassarlo senza dividerlo con alcuno dei contendenti. Ma la Signoria non era avvezza a guardare oltre l’Adda e l’Isonzo: non capiva come in tanta sua quiete potessero importarle i tumulti e le smanie degli altri; credeva solo utile e salutare la neutralità non prevedendo che sarebbe stata impossibile. Crescevano i fracassi di fuori; le mormorazioni, i timori, le angherie di dentro. Il contegno del Governo sembrava appoggiarsi ad una calma fiducia in se stesso; ed uno per uno tutti i governanti avevano in cuore l’indifferenza della disperazione. In tali condizioni molti vi furono che più accorti degli altri si cavarono d’impiccio, partendo da Venezia. E così rimasero al timone della cosa pubblica i molti vanagloriosi, i pochissimi studiosi del pubblico bene, e la moltitudine degli inetti, degli spensierati e dei pezzenti.

L’Eccellentissimo Almorò Frumier, cognato del conte di Fratta, possedeva moltissime terre, e una casa magnifica a Portogruaro. Egli era fra quelli che senza vederci chiaro in quel subbuglio ne fiutavano da lontano il cattivo odore, e avevano pochissima volontà di scottarsene le mani. Perciò d’accordo con la moglie, che non rivedeva malvolentieri i paesi dove la sua famiglia godeva privilegii quasi sovrani, si trapiantò egli a Portogruaro nell’autunno del 1788. La salute della gentildonna che per ristabilirsi avea bisogno dell’aria nativa servì di pretesto all’andata; giunti una volta s’erano ben proposti di non rimetter piede a Venezia finchè l’ultima nuvoletta del temporale non fosse svanita. Due figliuoli che il nobiluomo aveva, tutelavano abbondevolmente in Venezia gl'interessi e il decoro della casa; quanto a lui, l’ossequio degli illustrissimi provinciali e di tutta una città lo compensava ad usura del pericoloso onore di perorare in Senato. Con gran corredo di casse, di cassoni, di poltrone e di suppellettili, i due maturi sposini s’erano imbarcati in una corriera; e sofferto angosciosamente il lungo martirio della noia e delle zanzare, in cinquanta ore di tragitto per paludi e canali, erano sbarcati sul Lemene alla loro villeggiatura. Così i Veneziani costumavano chiamare ogni lor casa di terraferma, fosse a Milano o a Parigi, nonchè a Portogruaro. Il fiume bagnava appunto il margine del loro giardino; e colà appena giunti, ebbero la consolazione di trovar raccolto quanto di meglio aveva la città in ogni ordine di persone. Il vescovo, monsignore di Sant’Andrea, e molti altri canonici, e preti e professori del seminario, il vice-capitano con sua moglie, e altri dignitari del Governo, il podestà e tutti i magistrati del Comune, il soprintendente dei dazi e il custode della Dogana colle loro rispettive consorti, sorelle e cognate; da ultimo la nobiltà in frotta; e in cinquemila abitanti che sommava la terra, ve n’era tanta da potersene fornire tutte le città della Svizzera che per disgrazia ne mancano. Da Fratta era venuto il conte con la signora contessa e le figlie, il fratello monsignore e l’indivisibile cancelliere. Io poi, che nel frattempo avea dato di me grandi speranze con grandissimi progressi nel latino, aveva ottenuto la grazia segnalata di potermi arrampicare in coda alla carrozza; e così da un cantone inosservato mi fu concesso di godere lo spettacolo di quel solenne ricevimento.

Il nobile patrizio si diportò colla proverbiale affabilità dei Veneziani. Dal vescovo all’ortolano nessuno fu fraudato del favore d’un suo sorriso; al primo baciò l’anello, al secondo diede uno scappellotto coll’uguale modestia. Si volse poi per raccomandare i barcaiuoli, che nello scaricare la mobilia si usassero particolari riguardi alla sua poltrona; ed entrò in casa dando il braccio alla cognata, mentre sua moglie lo seguiva accompagnata dal fratello. Serviti i rinfreschi nella gran sala di cui il vecchio patrizio lamentò i terrazzi troppo freschi, si venne ai soliti riconoscimenti, ai soliti dialoghi. Belle e ben cresciute le figliuole, la cognata ringiovanita, il cognato fresco come una rosa, il viaggio lungo, caldo, fastidioso, la città più fiorente che mai, carissima, degnissima la società, gentile l’accoglimento; a queste cerimonie bisognò una buona ora. Dopo la quale le visite si accomiatarono; e rimasero in famiglia a dir molto bene di sè, e qualche piccolo male di coloro che erano partiti. Anche in questo per altro si adoperavano l’innocenza e la discrezione veneziana, che s’accontenta di tagliare i panni senza radere le carni fino all’osso. Verso l’Avemaria quelli di Fratta tolsero congedo; ben intesi che le visite si sarebbero replicate molto sovente. Il nobiluomo Frumier aveva estremo bisogno di compagnia, e diciamolo, anche l’illustrissimo conte di Fratta non era poco superbo di esser parente e mostrarsi famigliare ed intrinseco d’un senatore. Le due cognate si baciarono colla punta delle labbra; i cognati si strinsero la mano; le donzelle fecero due belle reverenze, e monsignore e il cancelliere si scappellarono fino alla predella della carrozza. Essi vi furono insaccati dentro alla bell’e meglio; io mi nicchiai al mio solito posto; e poi quattro cavalli di schiena ebbero un bel che fare a trascinare sul ciottolato il pesante convoglio. L’eccellentissimo senatore rientrò in sala, abbastanza soddisfatto del suo primo ingresso nella villeggiatura.

Portogruaro non era l’ultima fra quelle piccole città di terraferma, nelle quali il tipo della serenissima dominante era copiato e ricalcato con ogni possibile fedeltà. Le case, grandi, spaziose, col triplice finestrone nel mezzo, s’allineavano ai due lati delle contrade, in maniera che soltanto l’acqua mancava per completare la somiglianza con Venezia. Un caffè ogni due usci, davanti a questo la solita tenda, e sotto, dintorno a molti tavolini un discreto numero d’oziosi; leoni alati a bizzeffe sopra tutti gli edifici pubblici; donnicciuole e barcaiuoli in perpetuo cicaleccio per le calli e presso ai fruttivendoli; belle fanciulle al balcone dietro a gabbie di canarini o vasi di garofani e di basilico; su e giù per la podesteria e per la piazza toghe nere d’avvocati, lunghe code di notari, e riveritissime zimarre di patrizii; quattro schiavoni in mostra dinanzi le carceri; nel canale del Lemene puzzo d’acqua salsa, bestemmiar di paroni, e continuo rimescolarsi di burchii, d’ancore e di gomene; scampanio perpetuo dalle chiese, e gran pompa di funzioni e di salmodie; madonnine di stucco con fiori, festoni e festoncini ad ogni cantone; mamme bigotte inginocchiate col rosario; bionde figliuole occupate cogli amorosi dietro le porte; abati cogli occhi nelle fibbie delle scarpe, e il tabarrino raccolto pudicamente sul ventre; nulla, nulla insomma mancava a render somigliante al quadro la miniatura. Perfino i tre stendardi di San Marco avevano colà nella piazza il loro riscontro; un’antenna tinta di rosso, dalla quale sventolava nei giorni solenni il vessillo della Repubblica. Ne volete di più?.... I Veneziani di Portogruaro erano riesciti collo studio di molti secoli a disimparare il barbaro e bastardo friulano che si usa tutto all’intorno, e ormai parlavano il veneziano con maggior caricatura dei Veneziani stessi. Niente anzi li crucciava più della dipendenza da Udine, che durava a testificare l’antica loro parentela col Friuli. Erano come il cialtrone nobilitato, che abborre lo spago e la lesina perchè gli ricordano il padre calzolaio. Ma pur troppo la storia fu scritta una volta, e non si può cancellarla. I cittadini di Portogruaro se ne vendicavano col prepararne una ben diversa pel futuro, e nel loro frasario di nuovo conio l’epiteto di friulano equivaleva a quello di rozzo, villano, spilorcio e pidocchioso. Una volta usciti dalle porte della città (le aveano costruite strette strette come se stessero in aspettativa delle gondole, e non delle carrozze e dei carri di fieno) essi somigliavano pesci fuori d’acqua, e Veneziani fuori di Venezia. Fingevano di non conoscere il frumento dal grano turco, benchè tutti i giorni di mercato avessero piene di mostre le saccoccie; si fermavano a guardar gli alberi come i cani novelli, e si maravigliavano della polvere delle strade, quantunque sovente le loro scarpe accusassero una diuturna dimestichezza con quella. Parlando coi campagnuoli per poco non dicevano: voi altri di terraferma! — Infatti Portogruaro era nella loro immaginativa una specie di isola ipotetica, costruita ad immagine della serenissima dominante, non già in grembo al mare, ma in mezzo a quattro striscie d’acqua verdastra e fangosa. Che non fosse poi terraferma lo significavano alla lor maniera le molte muraglie, e i campanili e le facciate delle case che pencolavano. Credo che per ciò appunto ponessero cura a piantarle sopra deboli fondamenti.

Ma quelle che erano proprio veneziane di tre cotte erano le signore. Le mode della capitale venivano imitate ed esagerate con la massima ricercatezza. Se a san Marco i toupè si alzavano di due oncie, a Portogruaro crescevano un paio di piani; i guardinfanti vi si gonfiavano tanto, che un crocchio di dame diventava un vero allagamento di merletti di seta e di guarnizioni. Le collane, i braccialetti, gli spilloni, le catenelle, inondavano tutta la persona; non voglio guarentire che le gemme venissero nè da Golconda nè dal Perù, ma cavavano gli occhi, e bastava. Del resto quelle signore si alzavano a mezzodì, impiegavano quattro ore alla toelette, e nel dopopranzo si facevano delle visite. Siccome a Venezia le grandi conversazioni erano di teatri, d’opere buffe e di tenori, esse si tenevano obbligate a discorrere di questi stessi argomenti, e così il teatro di Portogruaro, che stava aperto un mese ogni due anni, godeva il raro privilegio di far parlare di sè un centinaio di bocche gentili per tutti i ventitrè mesi intermedii. Esaurita questa materia, si calunniavano a vicenda con una ostinazione veramente eroica. Ognuna, ci s’intende, aveva il suo cicisbeo, e cercava di rubarlo alle altre. Taluna portava questa moda tant’oltre che ne aveva due e perfino tre; con diritti variamente distribuiti. Chi porgeva la ventola, chi l’occhialetto, il fazzoletto, o la scatola; uno aveva la felicità di scortare la dama alla messa, l’altro di condurla al passeggio. Ma di quest’ultimo divertimento erano di stile molto parche. Non potendo godere le divine mollezze della gondola, e facendole raccapricciare la sola vista del barbaro movimento della carrozza, si vedevano costrette di uscire a piedi, fatica insopportabile a piedini veneziani. Qualche villanzone del contado, qualche zotico castellano del Friuli osava dire, che l’era un’ultima edizione della favola della volpe e dell’uva non matura, e che già di carrozza, anche a volerla con tutte le forze dell’anima, non ne avrebbero potuto beccare. Io non saprei a chi dar ragione; ma la gran ragione del sesso mi decide a favore di quelle signore. Infatti ora vi sono a Portogruaro molte carrozze; e sì che gli scrigni nostri non godono una gran fama appetto a quelli dei nostri bisnonni. Gli è vero che a quei tempi una carrozza era cosa proprio da re; quando capitava quella dei conti di Fratta era un carnovale per tutta la ragazzaglia della città. La sera, quando non s’andava a teatro, il gioco produceva la veglia ad ora tardissima; anche in ciò si correva dietro alla moda di Venezia: e se questa passione non distruggeva le casate come nella capitale, il merito apparteneva alla prudente liberalità dei mariti. Sui tappeti verdi, invece dei zecchini correvano i soldi; ma questo era un segreto municipale; e nessuno lo avrebbe tradito per tutto l’oro al mondo, e i forestieri, all’udir ricordare le vicende, i batticuori, e i trionfi della sera prima, potevano benissimo credere che si avesse giuocato la fortuna d’una famiglia per ogni partita, e non già un pezzo da venti soldi. Soltanto presso la moglie del correggitore si passava questo limite, per giungere fino al mezzo ducato; ma l’invidia si vendicava di questa fortuna coll’accusar quella dama di avidità e perfino di trufferia. Alcune veneziane maritate a Portogruaro, o accasatevi cogli sposi per ragioni d’uffizio, facevano causa comune colle signore del luogo contro il primato della signora correggitrice. Ma costei aveva la fortuna di esser bella, di saper muovere la lingua da vera veneziana, e di dardeggiare le occhiate più lusinghiere che potessero desiderarsi. I giovani le si affollavano intorno in chiesa, al caffè, in conversazione; ed io non saprei dire se gli omaggi di questi le fossero più graditi dell’invidia delle rivali. La moglie del podestà, che gesticolava sempre colle sue manine bianche e profilate, pretendeva che le mani di lei fossero proprio da guattera; la sorella del soprintendente asseriva che l’aveva un occhio più alto dell’altro; e ciò dicendo allargava certi occhioni celesti che volevano essere i più belli della città, e non rimanevano che i più grandi. Ognuno notava nell’emula comune brutte e difettose quelle parti, che in sè credeva perfette: ma la bella calunniata, quando la cameriera le riportava queste gelose mormorazioni, si sorrideva nello specchio. Aveva due labbra così rosee, trentadue denti così piccioletti, candidi e bene aggiustati, due guancie così rotonde e vezzeggiate da due fossettine tanto amorose, che solo col sorriso pigliava la rivincita di quelle accuse.

Potete figurarvi che la nobildonna Frumier, appena arrivata, ebbe subito intorno una gran ressa di queste leziose. Come donna, era essa in vero d’età più che matura; come veneziana aveva dimenticato la fede di nascita, e nelle maniere, nelle occhiate, nell’acconciatura, ostentava la perpetua gioventù che è il singolar privilegio delle sue concittadine. Di veneziane, come dissi, ne viveva a Portogruaro un buon numero; ma tutte appartenenti o al ceto mezzano o alla minuta nobiltà. Una gran dama, una gentildonna di gran levatura esercitata in tutti gli usi, in tutti i raffinamenti della conversazione, mancava in fino allora. Perciò furono beate di possederne alla fine un esemplare; di poterlo contemplare, idoleggiare, e copiare a loro grado; di poter dire infine: Guardate! io parlo, io rido, io vesto, io cammino come la senatoressa Frumier. Costei, furba come il diavolo, si prese grande spasso da tali disposizioni. Una sera chiacchierava più d’una gazza; e il giorno dopo aveva il divertimento di veder quelle signore giuocare tra loro a chi dicesse più parole in un minuto. Ogni crocchio si cambiava in un vero passeraio. Un’altra volta faceva la languida, la patita: non parlava che a voce sommessa e a singulti; tosto le ciarliere diventavano mutole; e pigliavano il contegno d’altrettante puerpere. Un giorno ella scommise con un gentiluomo venuto da Venezia di far mettere in capo alle principali di quelle dame penne di cappone. Infatti ella si mostrò in pubblico con questo bizzarro adornamento sul toupè, e il giorno stesso la podestaressa spiumò tutto un pollaio, per ornarsi la testa a quel modo. Però fu essa tanto clemente verso i capponi della città da non insistere in quella moda; altrimenti in capo a tre giorni non ve ne sarebbe rimasto uno col vestimento che mamma natura gli diede. La conversazione della gentildonna Frumier eclissò di colpo, e attirò a sè tutte le altre. Queste non restarono che premesse o corollarii di quella. Vi si preparavano i bei motti, le occhiatine ed i gesti per la gran comparsa; o vi si ripeteva quello che la sera prima avevano detto e fatto in casa Frumier. Aggiungiamo che in questa casa il caffè vi si sorseggiava assai migliore che nelle altre, e che di tanto in tanto qualche bottiglia di maraschino, e qualche torta delle monache di san Vito, variavano i divertimenti della brigata.

Anche il nobiluomo, dal canto suo, avea trovato pane per i suoi denti. Senza mostrarsi in pratica diverso da’suoi nonni, era egli intinto accademicamente della filosofia moderna: e sapeva citare all’uopo col suo largo accento veneziano qualche frase di Voltaire e di Diderot. Tra i curiali, e nel clero della città, non mancavano spiriti curiosi ed educati come il suo, che dividevano scrupolosamente la dottrina dalla realtà, e così conversando non temevano di porre in questione, ed anco di negare, quello che, se occorreva poi per ragion di mestiere, avrebbero professato certo e indubitabile. Si sa come erano larghe le consuetudini del secolo scorso su questo capitolo; a Venezia erano più larghe che altrove; a Portogruaro larghissime fuori d’ogni misura, perchè anche gli uomini come le donne non si accontentavano di seguire soltanto l’esempio della capitale, ma andavano oltre coraggiosamente. Per citarne uno, monsignore di sant’Andrea, il più sillogistico teologo del capitolo, una volta uscito dalla Curia e seduto a ragionare in confidenza coi pari suoi, non si vergognava di ritorcer la punta a molti dei proprii sillogismi. E fra gli abatini più giovani ve n’avea taluno, che in fatto di opinioni si lasciava forse addietro tutti i medici della città. I medici, fra parentesi, non erano nemmeno allora in gran voce di spiritualisti.

Peraltro, fra i lavoranti della vigna del Signore, v’era un partito rozzo, incorruttibile, tradizionale, che si opponeva colla pesante forza dell’inerzia all’invasione di questo scetticismo elegante, ciarliero e un po’ anche scapestrato. Infatti se qualche vecchio sacerdote, di manica larga per gli altri, serbava nella propria vita la semplicità e l’integrezza dei costumi sacerdotali, era proprio un caso raro; in generale, vecchi o giovani, chi sdrucciolava nell’anarchia filosofica non dava grandi esempi nè di pietà, nè di castità, nè delle altre virtù comandate specialmente al clero. Un cotale rilassamento delle discipline canoniche, e l’indifferenza dogmatica che lo cagionava, non potevano garbare ai veri preti; dico a coloro che avevano studiato con cieca fiducia la Somma di san Tommaso, ed erano usciti di seminario colla ferma persuasione della verità immutabile della fede, e della santità del proprio ministero. Costoro, meno proprii per la loro rigidezza di coscienza e per l’austerità delle maniere al consorzio della gente signorile, e ai destreggiamenti morali della città, si adattavano mirabilmente al patriarcale governo delle cure campagnuole. La montagna è il solito semenzajo del clero forense, e questo partito ch’io chiamerei tradizionale si afforzava e si rinnovava, massimamente nelle frequenti vocazioni della gioventù di Clausedo, che è un grosso paese alpestre della diocesi. I secolareschi invece (così dagli avversari venivano designati quelli che per opinioni e costumi si accostavano alla sbrigliatezza secolare) uscivano dalle comode famiglie della città e della pianura. Nei primi la gravità, il riserbo, la credenza, se non l’entusiasmo e l’abnegazione sacerdotale, si perpetuavano da zio in nipote, da piovano in cappellano; nei secondi la coltura classica, la libertà filosofica, l’eleganza dei modi, e la tolleranza religiosa erano instillate dai liberi colloquii dei crocchi famigliari; si facevano preti o spensieratamente per ubbidienza, o per golaggini d’una vita comoda e tranquilla. Si i primi che i secondi avevano i loro rappresentanti, i loro difensori nel seminario, nella curia e nel capitolo; a volte quelli, a volte questi aveano soverchiato; ed ogni vescovo che si succedeva nella diocesi, era accusato di favorire o i secolareschi o i clausetani. Clausetani e secolareschi si osteggiavano a vicenda; gli uni accusati d’ignoranza, di tirannia, di nepotismo, di taccagneria; gli altri di scostumatezza, di miscredenza, di cattivo esempio, di mondanità. La città parteggiava in genere per questi, il contado per quelli; ma i clausetani, per indole propria e delle massime che difendevano, erano più concordi fra loro e meglio regolati. Mentre invece nei loro antagonisti la petulanza e la leggerezza individuale escludevano qualunque ordine, qualunque metodo di condotta. Ciò non toglie peraltro che le dissensioni del clero non alimentassero più del bisogno il pettegolezzo delle conversazioni; e i vivaci abatini di bella vita, se non si compensavano, si vendicavano almeno colle impertinenze e colle mordacità della maggiore influenza che gli avversarii s’avevano acquistate con secoli e secoli d’austerità, e di perseveranza. Le giovani signore erano disposte a favorire la loro parte; soltanto qualche vecchia paralitica teneva pei rigoristi; effetto d’invidia più che di persuasione.

Insomma voleva dire che il nobile senatore trovò anche nel clero un crocchio sceltissimo di conversatori, i quali tagliati sul suo stampo, avvezzi al suo stesso modo di vedere, e uguali a lui di studii e di coltura, potevano fargli passare delle ore molto piacevoli. Gli piaceva conversare, ragionare, discutere alla libera, raccontare e udir raccontare novelle e burlette piuttosto leste, e infiorare il discorso di balzellette e di proverbii senzachè qualche schizzinosa torcesse il naso. Lì trovò gente a suo modo. Neppure le pallottole di mercurio si corrono dietro e si fondono con tanta pertinacia, come i simili consenzienti in una società. Perciò nella conversazione del senatore un crocchio si formò a poco a poco, si divise dagli altri e prese posto intorno al padrone di casa. Tutti, è vero, avrebbero avuto voglia di entrarvi; ma non tutti hanno il coraggio di assistere ad una disputa senza intenderla, di ridere quando gli altri ridono, senza capire il perchè, di pigliare un pestone sui piedi seguitando a mostrare il viso allegro, e di restar in mezzo ad un numero di brave persone senza essere interrogato nè arrischiare una parola. Gli ignoranti adunque, gli sciocchi, gli ipocriti, i costumati se ne ritrassero bentosto; e rimase l’oro purissimo della classe raffinata, dotta, motteggiatrice. Rimasero il canonico di Sant’Andrea, l’avvocato Santelli, altri due o tre curiali, il dottorino Giulio Del Ponte, il professor Dessalli, e qualche altro professore di belle lettere, un certo don Marco Chierini, riputato il tipo più perfetto dell’abate elegante, e tre o quattro conti e marchesi che aveano saputo unire l’amore dei libri a quello delle donne, e lo studio dell’antichità colle costumanze moderne. Anzi giacchè vi son cascato gioverà notare che non si poteva allora esser educati e compiti senza aver su per le dita le costituzioni di Sparta e d’Atene. Le parlate di Licurgo, di Socrate, di Solone e di Leonida erano i temi consueti delle esercitazioni ginnasiali; curiosissima contraddizione in tanta servilità e cecità d’obbedienza, in tanta noncuranza di virtù e di libertà.

Il fatto sta che, mentre le dame ed il resto della comitiva trinciavano mazzi di carte ai tavolini del tresette e del quintiglio, la piccola accademia del senatore si raccoglieva in un angolo del salone a cianciar di politica, e a motteggiare sulle novelle più scandalose della città. Era una musica la più variata, una vera opera semiseria, piena di motivi ridicoli e sublimi, buffi, serii, allegri e maligni; un intralciarsi di contese, di frizzi, di reticenze e di racconti che somigliava un mosaico di parole; vero capo d’opera dell’ingegno veneziano che coll’arte di Benvenuto Cellini sa farsi ammirare perfino nelle minuzie. Si parlava delle cose di Germania e di Francia nella maniera più liberale; si commentavano i viaggi di Pio VI, le mire di Giuseppe II, le intenzioni della Russia, e i movimenti del Turco. Si portavano in mezzo le autorità più disparate di Macchiavelli, di Sallustio, di Cicerone e dell’Aretino; si raffrontavano le vicende d’allora coi capitoli di Tito Livio; e a così gravi ragionamenti non si cessava dall’alternare lo scherzo, e la risata. Ogni appiglio per burlare era buono. Chi ha cercato in Inghilterra i creatori dell’umorismo non visse mai certamente a Venezia, nè mai passò per Portogruaro. Vi avrebbe trovato, frutto di lunghi ozii secolari, di ottimi stomachi e d’ingegni pronti allegri, svegliati, quell’umorismo meridionale che tanto si distingue dal settentrionale, quanto la nebbia notturna del palude dall’orizzonte lucente e vaporoso d’un bel tramonto d’estate. La vita e le cose che sono in essa, disprezzate ugualmente; ecco la parentela; ma perciò appunto volte tutte alla spensieratezza, alla gioia; ecco la diversità. In Inghilterra invece danno in melanconie, si rodono, si appassionano, si ammazzano. Sono due immoralità, o due pazzie diverse; ma non voglio decidermi per nessuna delle due. Il cervello forse correrebbe da un parte e il cuore dall’altra secondochè s’apprezza meglio o la dignità o la felicità umana.

Intanto io vi assicuro che per quei capi ameni il saltare dagli scandali di Caterina II alle avventure della tal dama, e del tal cavaliere era uno scambietto da nulla. Il nome d’una persona ne tirava in ballo altre due; e queste quattro e così innanzi sempre. Non si rispettavano nè i lontani nè i presenti; e questi avevano il buon gusto di sopportare lo scherzo e di non ricattarsene tosto ma di aspettare il momento opportuno che già arrivava o presto o tardi. Molta cultura, piuttosto superficiale se volete, ma vasta e niente affatto pedantesca, moltissimo brio, grande snellezza di dialogo e soprattutto un’infinita dose di tolleranza componevano la conversazione di quel piccolo areopago di buontemponi, come io ho voluto descriverla. Badate che adopero la parola buontemponi non sapendo come tradurre meglio quella francese di viveurs che prima m’avea balenato in mente. Avendo vissuto assai con francesi questo incommodo mi disturba sovente; e non ho sempre tanta conoscenza della mia lingua da disimpacciarmene bene. Qui per esempio scrissi buontemponi, per significar coloro che fanno lor pro della vita come la porta il caso; pigliando così da essa come dalla filosofia la parte allegra e godibile. Del resto se per buontempone s’intende un ozioso, un gaudente materiale, nessuno di quei signori era tale. Tutti avevano le loro occupazioni, tutti davano all’anima la sua parte di piaceri; soltanto li pigliavano per piaceri, non per obblighi e vantaggi morali. D’accordo sempre che spiritoso e spirituale sono epiteti più contrari che sinonimi.

I signori di Fratta, liberati finalmente da quello spauracchio del Venchieredo, s’erano rimessi alla solita vita. Il cappellano avea serbato la sua cura, e non cessava dall’accogliere in casa almeno una volta al mese il suo vecchio amico e penitente, lo Spaccafumo. Il conte e il cancelliere chiudevano un occhio; il Piovano di Teglio gliene faceva qualche ramanzina. Ma lo sparuto pretucolo, che non poteva balbettar risposta alle intemerate d’un superiore, sapeva imbeversene ottimamente e seguitar a suo modo non appena il superiore avesse voltato le spalle. Intanto per ragioni d’ufficio e di vicinanza il dottor Natalino di Venchieredo s’era accostato al conte ed al cancelliere di Fratta. Il signor Lucilio, amicissimo di Leopardo Provedoni, avea fatto conoscenza con sua moglie; e così un passo dopo l’altro anche la vispa Doretta comparve qualche volta alle veglie del castello. Ma oggimai due sere per settimana c’era ben altro che veglia! Si doveva andarne a passar la sera a Portogruaro nella conversazione di sua eccellenza Frumier. Impresa pericolosissima con quelle strade che c’erano allora; ma pur la contessa ci teneva tanto di non mostrarsi dammeno della cognata, che trovò coraggio di tentarla. Una delle figliuole era già da marito, l’altra cresceva su come la mala erba; la prima intinta appena, la seconda vergine affatto di qualunque educazione, bisognava condurle nel mondo perchè pigliassero qualche disinvoltura. E poi bisognava farsi avanti, perchè gli sposatori ragionavano anzi tutto cogli occhi, e quelle due pettegole non ci perdevano nulla ad esser guardate. Questi furono gli argomenti messi in campo dalla signora, per persuadere il marito ad avventurarsi colla carrozza due volte per settimana sulla strada di Portogruaro. Prima per altro il prudentissimo conte mandò una dozzina di lavoratori, che riattassero la strada nei passaggi più scabrosi e nelle buche più profonde; e volle che il cocchiere guidasse i cavalli di passo, e che due lacchè coi lampioni precedessero il legno. I due lacchè furono Menichetto, figliuolo di Fulgenzio, e Sandro del Mulino, ai quali si buttò addosso per pompa una veste scarlatta, ritagliata da due vecchie gualdrappe di gala. Io montava sulla predella di dietro e per tutta la strada, che era di tre buone miglia, mi divertiva a guardar la Pisana pel finestrino del mantice. Per che cosa poi dovessi accompagnarli anch’io in quelle visite, durante le quali io restava a dormicchiare nella cucina del Frumier, ve lo spiegherò ora. Come il conte si tirava dietro il cancelliere, così il cancelliere si tirava dietro me. Io era, in poche parole, l’ombra dell’ombra; ma in questo caso il farla da ombra non mi spiaceva gran fatto, poichè mi porgeva il pretesto di seguitar la Pisana, fra la quale e me gli amori continuavano di gran cuore, interrotti e variati dalle solite gelosie, rannodati sempre dalla necessità e dall’abitudine.

Fra un giovinetto di tredici anni e una fanciulla di undici, cotali intrighetti non sono più cose da prendersi a gabbo. Ma io ci pigliava gusto, ella del pari in difetto di meglio, i suoi genitori non si davano fastidio di nulla, e le cameriere e le fantesche, dopo le mie gesta memorabili e il mio tramutamento in alunno di cancelliere, aveano preso a riverirmi come un piccolo signore, e a lasciarmi fare il piacer mio in ogni cosa. I giuochetti continuavano dunque facendosi seri sempre più: ed io andava già architettando certi romanzi, che se li volessi contare ora, queste mie confessioni andrebbero all’infinito. Comunque sia, anche ne’ miei sentimenti qualche cambiamento era succeduto; chè mentre una volta le carezze della Pisana mi sembravano tutta bontà sua, allora invece, sentendomi cresciuto d’importanza, ne dava la loro parte anche ai miei meriti. Capperi! Dal piccolo Carletto dello spiedo, vestito coi rifiuti della servitù e coi cenci di monsignore, allo scolare di latino ben pettinato, con un bel codino nero sulle spalle, ben calzato con due piccole fibbie di ottone, e ben vestito con una giubberella di velluto turchino e le brache color granata, ci correva la gran differenza! — Così pure la mia pelle, non rimanendo più esposta al sole e alle intemperie s’era di molto incivilita. Scopersi che la era perfino bianca, e che i miei grandi occhi castani valevano quanto quelli di qualunque altro; la corporatura mi cresceva alta e svelta ogni giorno più; aveva una bocca non disaggradevole, e dentro una bella fila di denti, che se non stavano troppo vicino per non darsi noja, splendevano tuttavia come l’avorio. Soltanto quelle maledette orecchie, colpa le tirate del Piovano, prendevano troppo spazio nella mia fisonomia; ma tentava di correggere il difetto dormendo una notte su un fianco e una notte sull’altro, per dar loro una piega più estetica. Basta! me le palpo ora, e m’accorgo di esservi riescito mediocremente. Martino peraltro non si stancava dall’ammirarmi dicendomi: «È proprio vero che la bellezza per isbocciare vuol essere strapazzata. Va’ là, che tu sei il più bel Carlino di tutti i dintorni, e sì che sei nato dalle ceneri del focolare, e la più parte del latte te l’ho data io.» Il pover’uomo diventava gobbo mano a mano che io mi ingrandiva; oramai le forze gli mancavano; grattava il formaggio stando seduto, e non ci udiva più a fargli attorno qualunque rumore. Niente importava; io e lui seguitavamo a intendersela a cenni, e credo che il restar solo al mondo e il viverci senza di me sarebbe stata per lui uguale disgrazia. Quanto alla padrona vecchia, egli saliva sì a tenerle compagnia durante le assenze della Clara, ma la diversità di abitudini, la lontananza in cui vivevano, negavano loro lo aver comuni quei segni d’intelligenza, con cui si arriva a farsi capire dai sordi.

Intanto la comparsa dei nobili signori di Fratta, e massime della contessina Clara nella conversazione di casa Frumier, aveva introdotto in questa il nuovo elemento dei castellani e dei signorotti campagnuoli. Non mancò di accorrere prima il Partistagno, il quale dopo il soccorso portato al castello contro l’assalto del Venchieredo, era divenuto per la famiglia una specie di angelo custode. Egli poi, convien dirlo, portava abbastanza superbamente l’aureola di questa gloria; ma i fatti stavano per lui, e si poteva riderne non negargliene il diritto. Lucilio ci pativa molto di questo altiero contegno del giovine cavaliere, ma i suoi patimenti erano più d’invidia che di gelosia. Gli doleva piucchè altro che il servizio prestato dal Partistagno ai conti di Fratta non lo si dovesse invece a lui. Del resto viveva sicuro della Clara: ogni occhiata di lei lo confortava di nuove speranze; perfino la serenità, colla quale essa accettava le cortesie del Partistagno, gli era caparra che giammai un pericolo lo avrebbe minacciato da quella parte. Come non affidarsi interamente a quel cuore così puro, a quella coscienza così retta e tranquilla? Molte volte egli le aveva parlato da solo a sola o nel tinello o nelle passeggiate dopo la prima dichiarazione del loro amore; quasi tutti i giorni aveva passato un’ora con lei nella camera della nonna, e sempre più si era invaghito di quella bellezza innocente ed angelica, di quel cuore verginale e fervoroso nella sua muta tranquillità. Quell’indole focosa e tirannica avea bisogno d’un’anima, ove riposarsi colla quieta sicurezza d’un affetto. L’aveva trovata, l’aveva amata, come il cappuccino morente ama la sua parte di cielo; e col cuore e coll’ingegno e colle mille arti d’uno spirito immaginoso e d’una volontà onnipotente, s’adoperava di legare a sè con nodi sempre nuovi quell’altra parte necessaria di se stesso che viveva in Clara. Costei cedeva deliziosamente a tanta forza d’amore; amava la giovinetta, con quanta forza aveva nell’anima; e non pensava più in là, perchè Dio proteggeva la sua innocenza, la sua felicità, ed ella era abbastanza felice di non temer nulla, di non dovere arrossire di nulla. Quella massima tetra e bugiarda che vieta alle zittelle l’amore, come una perversità ed una colpa, non era mai entrata negli articoli della sua religione. Amare anzi era la sua legge; e le aveva ubbidito e le ubbidiva santamente.

Così non si dava ella nessuna cura di nascondere quel dolce sentimento che Lucilio le aveva inspirato; e se il conte e la contessa non se n’accorsero, fu forse solamente perchè la cosa, secondo loro, era tanto fuori d’ogni verisimiglianza da non consentire nemmeno il sospetto. D’altra parte alle zittelle d’allora non era assolutamente proibito d’innamorarsi di chicchessia: bastava che la passione non andasse oltre. La gente di casa bisbigliava già, che quando la contessina sarebbe maritata il dottor Lucilio sarebbe stato il suo cavalier servente. Ma un giorno che la Rosa disse al giovine qualche scherzo sopra questo soggetto, mi ricordo averlo veduto impallidire, e mordersi i mustacchi colla peggior bile del mondo. Anche la vecchia contessa, a mio credere, aveva scoperto il mistero della Clara; ma la era essa troppo incapricciata del giovine, per torselo dattorno a vantaggio della nipote. Forse anche l’immaginazione sua, ancella inconsapevole dell’interesse, la facea trovare mille argomenti per escludere quelle paure. Al postutto Lucilio, pensava ella, mostravasi tanto guardingo, che la Clara si sarebbe calmata. Conosceva ella, o credeva conoscere la buona vecchia, quelle belle nuvole dorate che attraversano la fantasia della ragazza. — Ma son nuvole — diceva ella — nuvole che passano al primo soffio di vento! — Il soffio di vento sarebbe stata l’offerta d’un buon partito, e il comando dei parenti. Ma quanto ella conoscesse l’indole della Clara, e la somiglianza di questa colla propria, lo vedremo in seguito. Certo peraltro il riservato contegno di Lucilio giovò ad addormentarla nella sua comoda sicurezza; e se le si fosse lasciato veder ben a fondo nelle cose, forse che ella non avrebbe creduto così facilmente alla docile fuggevolezza di quelle nuvole, e sarebbe giunta a privarsi delle ultime delizie che le rimanevano, per togliere nei due giovani i primi fondamenti a quei castelli in aria affatto impossibili. Ma restando le cose come erano, ella godeva di potersi fidare nella discrezione e nel queto temperamento di Clara, e di dire anco fra sè, quando costei usciva dalla stanza per far lume a Lucilio: — Oh il giovane prudente e dabbene! Non si direbbe che egli ha paura di alzar gli occhi perchè non si creda che gli stia a cuore mia nipote? Se li alza gli è solamente per guardar me, e alla sua età!! Basta! è veramente miracoloso! —

Ma Lucilio aveva altri momenti, per lasciar l’anima sua spiccare il volo a sua posta; e in quei momenti, bisogna confessarlo, quei suoi occhi così discreti e dabbene commettevano non pochi peccati di infedeltà a danno della nonna. In tinello, quando tutti giocavano ed egli sembrava attentissimo a sorvegliare il tresette di monsignore, o intento ad accarezzare Marocco, il cane del capitano, tra lui e la Clara era un dialogo continuo d’occhiate, che faceva l’effetto d’una voce angelica la quale cantasse nel cuore, mentre ci ferisce l’orecchio un tumulto di campane rotte. Oh cari e sempre cari quei divini concenti che beatificano le anime, senza incomodare il rozzo tamburo dei timpani! La religione delle cose insensibili e quella delle eterne si sposano nella mente, come il calore e la luce nel raggio del sole. Il sentimento nel pensiero è il più bel trionfo sulla sensazione nel corpo; esso prova che l’anima vive fuori di sè, anche senza il ministero delle cose materiali. L’amore che principia nello spirito non può finir colla carne; esso vince la prova della fragilità umana, per tornare puro ed eterno nell’immenso amore del Dio universale. E Lucilio sentiva la divina magia di questi pensieri; senza farsene ragione nel suo criterio di medico. Gli parevano fenomeni fuori di natura; e tornava a rivolgerli e a studiarli senza guadagnarne altro che un nuovo fervore e una più ostinata tenacia di passione.

Quando la Clara fu condotta da’ suoi alla conversazione della zia, il dottorino di Fossalta trovò assai facilmente il modo di penetrare colà. Il galateo veneziano non fu mai così ingiusto, da vietare l’ingresso delle aule patrizie alla buona educazione, al giocondo brio ed al vero merito, se anche uno stemma inquartato non dava risalto a queste buone qualità. Lucilio era molto stimato a Portogruaro, e godeva il favore e l’intrinsichezza di alcuni giovani professori del Seminario. Fu dunque da loro presentato all’illustre senatore; e questi in breve ebbe campo a ringraziarli di ciò come d’un segnalato favore. Egli conosceva del resto da molti e molti anni il dottor Sperandio, che ricorreva a lui in ogni cosa che gli abbisognasse a Venezia. Si lamentò adunque garbatamente col figlio del suo vecchio amico, perchè avesse creduto necessaria la malleveria di terze persone a potersi presentare in sua casa. Nel dargli commiato la prima sera, si congratulò che il bene dettogli di lui fosse un nulla, in confronto a quello ch’egli stesso ne avrebbe dovuto dire in seguito. Il giovane s’inchinò modestamente, fingendo di non trovar parole per rispondere a tanta gentilezza. La conversazione di Lucilio era per verità così vivace, così amabile e variata, che pochi davano piacere quanto lui soltanto ad udirli parlare; il solo professor Dessalli lo vinceva d’erudizione, e fra esso e Giulio Del-Ponte si poteva stare in sospeso per la palma del brio e dell’arguzia. Se quest’ultimo lo sorpassava talvolta in prontezza e in abbondanza, Lucilio prendeva tosto la rivincita colla profondità e l’ironia. Egli piaceva agli uomini come senno maturo; Giulio aveva la gioventù dello spirito e incantava le simpatie. Ma il far pensare lascia negli animi traccie più profonde che il far ridere; e non v’è simpatia che non si scolori ad un solo raggio d’ammirazione. Questa, anzichè essere come la prima un dono grazioso da eguale ad eguale, è un vero tributo imposto dai grandi ai piccoli, e dai potenti ai deboli. Lucilio sapeva imporlo valorosamente, ed esigerlo con discrezione. Laonde erano costretti a pagarlo di buona moneta, e ad essergli per giunta riconoscenti.

Il crocchio particolare del senatore per la presenza di Lucilio si ravvivò d’una subita fiamma d’entusiasmo. Egli animava, accendeva, trascinava tutti quegli spiriti azzimati, cincischiati, ma tiepidi e cascanti. Al suo contatto quanto v’era di giovane e di vivo in loro fermentò d’un bollore insolito. Si dimenticavano quello ch’erano stati e quello che erano, per torre a prestanza da lui un ultimo sogno di giovinezza. Ridevano, ciarlavano, motteggiavano, disputavano non più come gente intesa ad uccidere il tempo, ma come persone frettolose di indovinarlo, di maturarlo. Pareva che la vita di ciascuno di essi avesse trovato uno scopo. Una bocca sola, nelle cui parole respirava una speranza eccelsa e misteriosa, una sola fronte, sulla quale splendeva la fede di quell’intelligenza che mai non muore, avevano potuto cotanto. Il Senatore rimasto solo, e ricaduto nella solita indifferenza, stupiva a tutto potere di quei caldi intervalli d’entusiasmo, di quel furor battagliero di contese e di alterchi, da cui si sentiva trasportato come uno scolaretto. Accagionava di ciò l’esempio e la vicinanza dei più giovani; era invece la fiamma della vita, che rattizzata in lui da un potente prestigiatore, non potendo scaldargli le fibre già agghiacciate del cuore, gli empiva il capo di fumo e gli infervorava la lingua. — Si crederebbe quasi ch’io prendessi sul serio le sofisticherie che s’impasticciano per passar l’ora; — andava egli pensando mentre aspettava la cena nella classica poltrona. — E sì che da quarant’anni io non ho odorato la polvere venerabile del collegio! Sarà forse vero che gli uomini non sono altro che eterni fanciulli! — Eterni, eterni! — mormorava il vecchio accarezzandosi le guance flosce e grinzose — volesse il Cielo! —

Dopochè Lucilio era sopraggiunto ad attizzare l’entusiasmo dei cortigiani del senatore, coloro che sedevano ai tavolini del gioco, le signore principalmente, soffrivano delle frequenti distrazioni. Quel chiasso continuo di domande, di risposte, di accuse e di difese, di scherzi, di risate, di esclamazioni e di applausi moveva un poco la curiosità, e, diciamolo, anche l’invidia dei giocatori. I divertimenti del quintiglio e le commozioni del tresette erano di gran lunga meno vibrate; quando un cappotto aveva originato le solite ironiche congratulazioni, le solite minaccie di rivincita, tutto finiva lì, e si tornava come rozze di vettura al monotono andare e venire della partita. Invece in quel cantone della sala la conversazione s’avvicendava sempre varia, allegra, generale, animata. Gli orecchi cominciarono a tendersi verso colà, e gli occhi ad invetrarsi sulle carte. — Ma signora, tocca a lei. — Ma dunque non ha capito la sfida! — Scusi, ho un po’ di mal di capo, ovvero: — Non ho badato; aveva la testa via! — Così si bisticciavano da un lato all’altro dei tavolini, e le colpevoli si rimettevano, sospirando a giocare. Lucilio ci entrava non poco in tutti quei sospiri, ed egli lo sapeva. Sapeva l’effetto da lui prodotto sulla conversazione del senatore, e se ne riprometteva di rimbalzo una generosa gratitudine da parte della Clara. L’amore ha un orgoglio tutto suo. Da un lato si cerca d’ingrandire per piacere di più, dall’altro s’insuperbisce di veder piacere a molti quello che piace e si studia solamente di piacere a noi. Giulio Del-Ponte, che forse al pari di Lucilio aveva fra le signore qualche motivo per voler rendersi piacevole, aguzzava il proprio ingegno per tener bordone al compagno. E il resto della compagnia, rimorchiata dai due giovani, gareggiava di prontezza e di brio, nei più gravi ragionamenti che si potessero instituire sopra alcune frasi della Gazzetta di Venezia, la mamma anzi l’Eva di tutti i giornali.

Infatti i Veneziani di quel tempo dovevano inventare e inventarono la gazzetta: essa fu un parto genuino e legittimo della loro immaginazione, e solamente ad essi si stava di aprire la biblioteca delle chiacchiere. Il senatore riceveva ogni settimana la sua gazzetta sulla quale si facevano grandi commenti; ma anche in questo lavorio di finitura e d’intarsio, Lucilio si lasciava indietro tutti gli altri di molto. Nè alcuno sapeva come lui cercar le ragioni all’un capo del mappamondo di ciò che succedeva all’altro capo. — Che colpo d’occhio avete, caro dottore! — gli dicevano maravigliati. — Per voi l’Inghilterra e la China sono a tiro di canocchiale, e ci trovate tra esse tante relazioni quanto fra Venezia e Fusina! — Lucilio rispondeva che la terra è tutta una palla, che la gira e la corre tutta insieme, e che dopo che Colombo, e Vasco de Gama l’avevano rifatta come era stata creata, non si doveva stupirsi che il sangue avesse ripreso la sua vasta circolazione, per tutto quel gran corpo dal polo all’equatore. Quando si navigava per cotali discorsi il senatore chiudeva un occhio, socchiudeva l’altro, e così osservava Lucilio rimuginando certi giorni passati, quando quel giovinastro avea lasciato qualche macchia nera sul libro degli inquisitori di Stato. Forse allo scrupoloso veneziano passavano allora pel capo dei lontani timori; ma d’altra parte era qualche anno che Lucilio non si moveva da Fossalta; la sua vita era quella d’un tranquillo benestante di campagna; gli inquisitori dovevano essersi dimenticati di lui, ed egli di loro e delle ubbie giovanili. Il dottor Sperandio, in visita diplomatica all’eccellentissimo patrono, lo aveva rassicurato confessandogli che egli non erasi mai lusingato, per l’addietro, di trovare nel figliolo la docilità e la calma che dimostrava infatti colla sua vita modesta e laboriosa. — Oh se volesse consentire a laurearsi! — sclamava il vecchio dottore. — Senza fermarsi a Venezia, intendiamoci bene! — soggiungeva con frettoloso pentimento. — Ma, dico io, se giungesse a laurearsi, qual clientela bella e pronta gli avrei preparato! —

— Non mancherà tempo, non mancherà tempo! — rispondeva il senatore. — Ella intanto provveda che suo figlio si assodi bene, che dia un calcio a tutte le bizzarrie, che conservi sì il buon umore e la vivacità, ma non pigli sul serio le fantasie letterarie degli scrittori. La laurea verrà un giorno o l’altro, e di ammalati non ne mancheranno mai ad un dottore che dia ad intendere di saperli guarire.

Morbus omnis, arte ippocratica sanatur aut lavatur — soggiungeva il dottore. — E se la conversazione successe di dopopranzo, aggiunse certamente una mezza dozzina di testi; ma non lo so di sicuro, e voglio sparagnarne l’interpretazione ai lettori.

Lucilio era adunque diventato, come dice la gente bassa, il cucco delle donne. Queste vanerelle, in onta alle capricciose leggi d’amore, si lasciano facilmente accalappiare da chi fa in qualche maniera una prima figura. Nessun piacere sopravanza forse quello di essere da tutti invidiato. Ma Lucilio, un cotal piacere non lo permetteva a nessuna di loro. Era gajo, estroso, brillante nelle sue rade escursioni fra le tavole del giuoco; indi tornava a capitanare la conversazione del senatore, senza aver fatto vedere neppur la punta del fazzoletto ad alcuna di quelle odalische. Soltanto passando o ripassando, trovava modo di inondare tutta la persona di Clara con una di quelle occhiate che sembrano circondarci, come le salamandre, d’un’atmosfera di fuoco. La giovinetta tremava in ogni sua fibra a quell’incendio repentino e soave; ma l’anima serena ed innocente seguitava a parlarle negli occhi col suo sorriso di pace. Pareva che una corrente magnetica lambisse co’ suoi mille pungiglioni invisibili le vene della donzella, senzachè potesse turbare il profondo recesso dello spirito. Più insormontabile d’un abisso, più salda d’una rupe s’interponeva la coscienza. La modestia, più che il luogo inosservato ove costumava sedere, proteggeva la Clara dalle curiose indagini delle altre signore. Sapeva ella farsi dimenticare senza fatica; e nessuno poteva sospettare che il cuore di Lucilio battesse appunto per quella, che meno di tutte si affaccendava per guadagnarselo. La signora correggitrice non usava tanta discrezione. Fino dalle prime sere le sue premure, le sue civetterie, le sue leziosaggini pel desiderato giovine di Fossalta, aveano dato nell’occhio alla podestaressa, e alla sorella del Sopraintendente. Ma queste due alla lor volta si erano fatte notare per la troppa stizza che ne dimostravano: insomma Paride frammezzo alle dee non dovette essere più impacciato che Lucilio fra quelle dame; egli se ne spicciava col non accorgersi di nulla.

V’avea peraltro un’altra signorina che forse più di ogni altra e della correggitrice stessa teneva dietro ai gloriosi trionfi di Lucilio, che non distoglieva mai gli occhi da lui, che arrossiva quand’egli se le avvicinava, e che non aveva riguardo di avvicinarsi a lui essa medesima per toccar il suo braccio, per sfiorare le sue vesti, e contemplarlo meglio negli occhi. Questa sfacciatella era la Pisana. Figuratevi! una civettuola di dodici anni non ancora maturi, un’innamorata non alta da terra quattro spanne! — Ma la era proprio così; e io dovetti persuadermene coll’onniveggenza della gelosia. La terza e la quarta volta che s’andò in casa Frumier io ebbi ad osservare un maggiore studio nella piccina di adornarsi, d’arricciarsi, di cincischiarsi. Nessun abito le pareva bello abbastanza; nessun vezzo soverchio; nessuna diligenza bastevole per la lisciatura dei capelli e delle unghie. Siccome questa smania non l’aveva avuta nè la prima nè la seconda volta, così io m’immaginai subito che non fosse nè per la solita vanità femminile, nè per essere ammirata dalle signore. Qualche altro motivo vi dovea covar sotto, ed io, sciocco allora come sempre in queste faccende, deliberai di chiarirmene tosto. Il martirio della certezza mi parea già fin d’allora meno formidabile dei tormenti del dubbio; poi mano mano che venni acquistando quelle crudeli certezze, mi toccò ogni volta rimpiangere la sdegnata felicità di poter tuttavia dubitare. Il fatto sta che quando i servitori salirono a portare il caffè, io scivolai con essi nella sala, e mezzo nascosto dietro la portiera mi posi alla vedetta di quanto succedeva. Vidi la Pisana fissa sempre cogli occhi a guardare Lucilio, come volesse mangiarlo. La sua testolina girava con lui come quella del girasole: quand’egli parlava con maggior calore, o si volgeva dalla sua banda, vedevo il suo piccolo seno gonfiarsi arrogantemente come quello d’una vera donna. Non parlava, non fiatava, non vedeva altro; non si moveva e non sorrideva che per lui. Tutti i segni dell’amore più intenso e violento erano espressi dal suo contegno; solamente l’età così tenera salvava lei dai commenti e dai sospetti delle signore, come la modestia avea salvato sua sorella. Io tremava tutto, sudava come per febbre, digrignava i denti, e mi aggrappava colle mani alla portiera quasi mi sentissi vicino a morte. Allora mi balenò alla mente il perchè la Pisana mi avesse serbato il broncio in questi ultimi giorni, e perchè la non parlasse e non la ridesse più come il solito, e perchè si mostrasse pensosa e stizzita e amica dei luoghi solitari e della luna.

— Ah traditrice! — gridò con un gemito il mio povero cuore. Sopra un tanto affanno di amore sventurato, sentii crescere e gonfiarsi l’odio come una consolazione. Avrei voluto stringere in mano un fascio di fulmini, per saettarne quella fronte alta e abborrita di Lucilio: avrei voluto che l’anima mia fosse un veleno per penetrare tutti i suoi pori, per dissolvere ogni sua fibra, e tormentare i suoi nervi fino alla morte. Di me non mi importava nè punto nè poco: poichè allora per la prima volta provava l’amarezza della vita; e la odiava quasi al pari di Lucilio, come occasione se non causa ch’essa era d’ogni mio male. Allora mi toccò vedere la vanerella, valendosi dei privilegi dell’età, toglier di mano al servo la tazzina del caffè e presentarla essa stessa al giovine. La fanciulla era rossa come una bragia, aveva gli occhi splendenti più dei rubini, quali io non avea mai veduti; sembrava in quel momento non già una bambina, ma una ragazza piacevole perfetta e quel che peggio innamorata. Quando Lucilio prese la tazza dalla mano di lei, ella traballò sulle ginocchia e si versò sull’abito alcune gocce di caffè; il giovine le sorrise amorevolmente e si abbassò a pulirla col fazzoletto. Oh se l’aveste veduta allora quella fanciulletta appena alta da terra! — Il suo volto aveva l’espressione più voluttuosa che mai scultore greco abbia dato alla statua di Venere o di Leda; una nebbia umida e beata le avvolse le pupille, e la sua personcina s’accasciò con tanta mollezza, che Lucilio dovette circondarla con un braccio per sostenerla. Io mi morsi le mani e le labbra, mi graffiai il petto e le guancie; sentiva nel petto un impeto che mi spingeva a gettarmi rabbiosamente su quello spettacolo odioso, e una forza misteriosa che mi teneva confitti i piedi nel pavimento. Quando Dio volle Lucilio tornò a’ suoi discorsi, e la Pisana a sedere vicino alla mamma. Ma il soave turbamento ch’era rimasto nelle sue sembianze continuò a tormentarmi, finchè i servitori uscirono colle guantiere.

— Olà, Carlino! che ci fai qui? — mi disse uno di costoro. — Fammi largo e torna in cucina, chè non è qua il tuo posto.

Tali parole, che pareva dovessero metter il colmo al mio dolore, furono invece come un veleno provvido e gelato che lo calmarono.

— Sì! — dissi fra me con cupa disperazione. — Questo non è il mio posto! — E tornai in cucina barcollando come un ubriaco; e colà stetti cogli occhi fitti nelle bragie del focolare, finchè mi avvertirono che i cavalli erano attaccati e che si stava per partire. Allora ebbi a vedere un’altra volta, lungo la scala, la Pisana che seguiva ostinatamente Lucilio, come un cagnolino tien dietro al padrone. Indifferente a tutto il resto, montò in carrozza guardando sempre lui; e la vidi sporgersi dallo sportello a guardare il posto ch’egli aveva occupato anche dopo che fu partito. Io intanto stava appeso al mio solito posto da quel povero diseredato che era: e quali furono i miei pensieri per tutta quella buona ora che s’impiegò a tornarsene a casa, Dio solo lo sa!... Pensieri forse non erano; bensì delirii, bestemmie, pianti, maledizioni. Quella sottil parete di cuoio che divideva il mio posto dal suo, io sapeva benissimo che cosa mi presagisse pel futuro. Mille volte avea pensato che giorno verrebbe, quando la maledetta forza delle cose umane me la avrebbe tolta per sempre e datala ad un altro; ma ad un altro non desiderato, non amato, appena forse sofferto. E mi era conforto il figurarmela inondata di pianto e pallida di dolore sotto il bianco velo di sposa, andarne all’altare come una vittima; e poi nelle tenebre del talamo nuziale offrirsi fredda, tremante, avvilita, senza amore e senza desiderii, al padrone cui l’avrebbero venduta. Il suo cuore sarebbe rimasto mio, le anime nostre avrebbero continuato ad amarsi; io sarei stato felicissimo di vederla passare alcuna volta frammezzo a’ suoi bambini: sarebbe stata la mia una beatitudine di impadronirmi d’alcuno fra questi quand’ella non mi avesse osservato, di stringermelo sul cuore, di baciarlo, di adorarlo, di cercare nelle sue fattezze la traccia delle sue; e di illudermi e di pensare che la parte misteriosa del suo spirito, che s’era transfusa in quel bambino, aveva appartenuto anche a me, quando ella amava me solo con tutte le potenze dell’anima. Garzoncello di non ancora quattordici anni, io la sapeva lunga delle cose di questo mondo; lo sbrigliato cicaleccio dei servi e delle cameriere me ne aveva insegnato oltre il bisogno; eppure giungeva a debellare il confuso tumulto dei sensi, a frenare lo slancio d’un’immaginazione innamorata, e a desiderare un’esistenza non d’altro ricca che di soavi dolori, e di gioje melanconiche. Premio de’ miei sforzi, della mia devozione, raccogliere invece la dimenticanza e l’ingratitudine! E neppure si scordava di me per un altro amore; chè allora almeno avrei avuto il conforto della lotta, dell’odio, della vendetta. No, mi gettava via come un arnese disutile, per correr dietro a un vano splendore di superbia, per invaghirsi pazzamente d’un sogno mostruoso e impossibile. L’abborrimento contro Lucilio che in principio avea concepito, era caduto a poco a poco in un rabbioso disprezzo per la Pisana. Lucilio per lei era un vecchio, egli non le era sembrato mai nè bello nè amabile: ci erano voluti gli omaggi delle altre perchè ella apprezzasse i suoi pregi troppo alti e virili al suo criterio ancor fanciullesco. Io mi vedeva sacrificato senza rimorso alla vanità.

— No, ella non ha un briciolo di cuore, nè un barlume di memoria, nè un avanzo di pudore! Sì, la disprezzo come merita; la disprezzerò sempre! — gridava dentro di me.

Povero fanciullo! Io cominciava infin d’allora a disprezzare e ad amare: tormento terribile fra quanti la crudele natura ne ha preparato a’ suoi figliuoli; battaglia e pervertimento d’ogni principio morale; servitù senza compenso e senza speranza nella quale l’anima, che pur vede il bene e lo ama, è costretta a curvarsi, a pregare, a supplicare dinanzi all’idolo del male. Io aveva troppo cuore e troppa memoria. Le rimembranze dei primi affetti infantili mi perseguitavano senza misericordia. Io fuggiva indarno; indarno mi volgeva a combatterle colla ragione: più antiche della ragione esse conoscevano tutte le pieghe, tutti i nascondigli dell’anima mia. Al loro soffio fatale una tempesta si sollevava dentro di me; una tempesta di desiderii, di rabbia, di furori, di lagrime. Oh meditatele bene queste due parole nelle quali si racchiude tutta la storia delle mie sciagure e delle mie colpe! Meditatele bene e poi dite se con tutta l’eloquenza della passione, con tutto il sentimento dei dolori sofferti, con tutta la sincerità del ravvedimento, potrei spiegarne l’orribile significato!... Io disprezzava ed amava!

Riderete forse anco di questi due fanciulli, che nel mio racconto la pretendono ad uomini: ma ve lo giuro una volta per sempre: io non vi ricamo di mio capo un romanzo: vo semplicemente riandando la mia vita. Ricordo a voce alta: e scrivo quello che ricordo. Scommetto anzi che se tutti vorrete tornar daccapo colla memoria agli anni della puerizia, molti fra voi troveranno in essi i germi, e quasi il compendio, delle passioni che poscia inorgoglirono. Credetelo a me: quello che si disse delle bambine che nascono piccole donne, si può dirlo anche degli uomini. La sferza del precettore, e la cerchia obbligata delle occupazioni, li tien domati generalmente fino ad una certa età. Ma lasciateli andare, fare e pensare a lor grado; e tosto vedrete animarsi in essi, come nello spazio ristretto d’uno specchio ottico, tutta la varia movenza delle passioni più mature. Io e la Pisana fummo lasciati crescere come Dio voleva, e come si costumava a que’ tempi, se pur non si ricorreva alla scappatoia del collegio. Da una cotale educazione circondata di esempii tristissimi, si formava quel gregge impecorito di uomini, che senza fede, senza forza, senza illusioni, giungeva semivivo alle soglie della vita; e di colà fino alla morte si trascinava nel fango dei piaceri e dell’obblio. I vermi che li aspettavano nel sepolcro potevano servir loro da compagni anche nel mondo.

Io per mia parte, o per fortuna di temperamento o per merito delle avversità che mi afforzarono l’animo fin dai primi anni, potei rimaner diritto e non insudiciarmi tanto in quel pantano, da esservi invischiato sempre. Ma la Pisana, tanto meglio di me fornita di belle doti e di ottime inclinazioni, andava sprovvista per disgrazia di tutti i ripari che potevano salvarla. Perfino il suo ingegno tanto vivace, pieghevole, svegliato, s’offuscò e s’insterilì in quella smania di piacere che la invase tutta, in quell’incendio dei sensi, nel quale fu lasciata ardere e consumarsi la parte più eletta dell’anima sua. Il coraggio, la pietà, la generosità, l’immaginazione, sanissimi frutti della sua indole, tralignarono in altrettanti strumenti di quelle brame sfrenate; o se risplendevano talora nei momenti di tregua; erano lampi passeggieri, moti bizzarri e subitanei d’istinto, non atti conscii e meritorii di vera virtù. Un guasto sì lagrimevole cominciò nella prima infanzia; nel tempo di cui narro ora l’era già ito tanto innanzi, che sarebbe stato possibile forse l’arrestarlo, non distruggerne gli effetti; quando poscia fui in grado di toccarlo con mano, e di riconoscere in esso la causa per cui la Pisana era venuta sempre peggiorando cogli anni ne’ suoi difetti infantili, allora non v’era più forza alcuna nel mondo che potesse rinnovarla. Oh con quante lagrime di disperazione e di amore non rimpiansi io allora i secoli dei prodigii e delle conversioni miracolose!... Con quanto ardore di speranza non divorai quei libri dove s’insegnava a rigenerare le anime coll’affetto, colla pazienza, coi sacrificii!... Con quanta umiltà, con quanto coraggio non offersi parte a parte tutto me stesso in olocausto, perchè quell’angelo decaduto di cui io aveva contemplato sull’alba della vita gli allegri splendori, riavesse la pompa della sua luce!... — O i libri mentiscono, o la Pisana era fatta omai tale, che potenza d’uomo non bastava a cangiarla. Il cielo s’aperse dinanzi a lei una volta, e io vidi quello che la mia ragione non vuol credere, ma che il cuore ha collocato nel più puro tesoro delle sue gioie. Come mi sembra vicino quest’ultimo giorno di ricompensa e di dolore infinito!... Ma quando viveva al castello di Fratta ne era ben lontano: e la mia mente avrebbe inorridito di credere che l’amor mio riceverebbe il premio più certo dalle mani della morte.

Nei giorni susseguenti a quella sera, che tanto mi avea fatto patire, io parvi a tutti così fiacco e sparuto che si temeva di qualche malattia. Volevano ad ogni costo che mi lasciassi tastare il polso dal signor Lucilio; ma io mi vi rifiutai ostinatamente, e finchè il male non cresceva, mi lasciarono stare persuasi che fosse caponaggine di ragazzo. Vedevano bene le cameriere che gli affetti tra me e la Pisana s’erano raffreddati di molto, ma erano ben lontane dal credere che questa fosse la causa della mia sparutezza. Prima di tutto erano avvezze a questi intervalli di raffreddamento, e poi non davano alla cosa maggior importanza che non meritasse una fanciullaggine. Dopo un pajo di giorni anche la Pisana s’accorse del mio pallore, e delle mie astinenze; sicchè, quasi indovinandone il segreto, si sforzò a raccostarmisi per farmi bene. Io era già passato dal furore della disperazione alla stanchezza del dolore, e la accolsi con aspetto melanconico e quasi pietoso. Quest’ultimo colore della mia fisonomia non le piacque per nulla; finse di credere ch’io le avessi dimostrato che non abbisognavo di lei, e mi piantò lì come un cane. Oh se la mi avesse buttato le braccia al collo! Io sarei stato abbastanza credulo o codardo per stringermela al cuore, e dimenticare i crudeli momenti che la mi aveva fatto passare. Fu forse meglio così; poichè al giorno dopo il dolore mi si sarebbe presentato come nuovo, e m’avrebbe sorpreso più debole di prima. Ad onta della mia inferma salute, tutte le volte che la famiglia andò a Portogruaro io non mancai di accompagnarla; e colà ogni sera io assaporava con amara voluttà la certezza della mia sventura. Mi rinforzava nell’anima; ma il corpo ne soffriva mortalmente, e certo non avrei potuto continuare un pezzo quella vita. Martino mi domandava sempre che cosa avessi da sospirar tanto; il Piovano si maravigliava di non trovare i miei latinetti così corretti come per l’addietro, ma non aveva coraggio di rimproverarmene, tanto la mia sfinitezza lo moveva a compassione; la contessina Clara mi stava sempre dietro con carezze e con premure. Io dimagriva a vista d’occhio, e la Pisana fingeva di non accorgersene, o se lasciava cadere sopra di me uno sguardo pietoso, lo ritirava tosto. Ella intendeva punirmi così della mia superbia. Ma era forse superbia?.....

Io moriva di crepacuore e pur compiangeva lei, cagione della mia morte. La compiangeva e l’amava, mentre avrei dovuto odiarla, disprezzarla, punirla. Dicano tutti se era superbia la mia. In quel torno accadde per fortuna che la signora contessa ammalasse: dico per fortuna, perchè così rimasero interrotte le gite a Portogruaro e questa fu la ragione perchè io non morii. Lucilio seguitava a praticare in castello, ora tanto più che ve lo chiamava il suo ministero di medico; ma la Pisana non era di gran lunga così incantata di lui a Fratta, come a Portogruaro. Una volta o due gli usò una qualche attenzione, poi se ne astenne senza sforzo, e a poco a poco tornò appetto a lui nella solita indifferenza. Mano a mano che Lucilio usciva dal suo cuore vi rientrava io; e non debbo nascondere che la mia gioia di questo pentimento fu così veemente, così piena, come se io fossi tornato alla prima fiducia dei nostri affetti. Io era fanciullo, io le credeva ciecamente. Come ad onta delle sue passeggere civetterie mi fidava di lei un tempo, sicuro che in fondo al cuore non ci stava che io, così allora tornava a persuadermi che i frutti di quel ravvedimento dovessero essere eterni. Giungeva quasi a trovare in quelle apparenti infedeltà, e in quelle pronte pacificazioni, una prova di più ch’ella non poteva amare che me, nè vivere senza di me. Io non le mossi adunque parola delle mie torture, schivai di rispondere alle sue domande, indovinando quasi che la confessione d’una gelosia è il più caldo incentivo di nuove infedeltà. Accusai una bizzarria d’umore, un malessere inesplicabile, e chiusi il varco ad altre inchieste col lasciar libero campo alla mia gioia, e allo sfogo d’un cuore chiuso in se stesso da tanto tempo. La Pisana folleggiava con me da vera pazzerella: pareva che quel suo ghiribizzo momentaneo non avesse lasciato traccia alcuna nè nella memoria nè nella coscienza; io mi consolai di ciò, mentre se fossi stato bene avveduto, avrei dovuto spaventarmene. Mi abbandonai dunque con piena sicurezza a quella corrente di felicità che mi trasportava; tanto più sicuro e beato, che la fanciulla mi sembrò a quei giorni docile, amorosa e fin anco umile e paziente, quale non era mai stata. Era un tacito compenso, offerto senza saperlo, dei torti fattimi? Non lo saprei dire. Forse anche la timorosa adorazione di Lucilio aveva svezzato per poco l’anima sua dai moti violenti e tirannici; a me dunque toccava raccogliere quello che un altro aveva seminato. Ma questo dubbio che adesso mi avvilirebbe, allora non mi passava nemmeno pel capo. Bisogna aver vissuto, e filosofeggiato a lungo per imparare a dovere la scienza di tormentarsi squisitamente.

La contessa benchè lievemente indisposta migliorava assai a rilento. Era così piena di scrupoli e di smorfie, che non bastavano l’eloquenza italiana e latina del dottor Sperandio; la pazienza di Lucilio, i conforti di monsignor di Sant’Andrea, le cure del marito e della Clara, e quattro pozioni al giorno, per calmarla un poco. Soltanto un giorno che le fu annunziata la visita della cognata Frumier, si riebbe subitamente e dimenticò l’infinita caterva de’ suoi mali per pettinarsi, pulirsi, mettersi in capo la più bella e rosea cuffietta della sua guardaroba, e farsi addobbare il letto con cuscini e coperte orlate di merlo. Da quel momento la sua convalescenza fu assicurata, e si potè cantare un Te deum nella cappella per la ricuperata salute dell’eccellentissima padrona. Monsignor Orlando cantò quel Te deum con tutta l’effusione del cuore, perchè non si aveva mangiato mai così male a Fratta, come durante la malattia di sua cognata. Tutti erano occupati a lambiccar decotti, a preparar panatelle, a portar brodi e scodelle, e le pignatte intanto rimanevano vuote, e ad ora di pranzo si doveva accontentarsi di pietanze improvvisate. Per ripristinar la famiglia nei soliti ufficii, e cambiare in ferma salute la lunga convalescenza della contessa, ci vollero non meno di quattro o cinque visite della cognata; in fine delle quali eravamo giunti nel cuor dell’inverno, ma la floridezza di quelle guancie preziose era assicurata per altri trent’anni. Monsignor Orlando rivide con piacere il campo del focolare ripopolarsi a poco a poco dei larghi tegami e delle brontolanti pignatte. Se fosse ancora continuato quel regime di mezza astinenza, egli avrebbe pagato colla propria vita la guarigione della cognata. Io e la Pisana intanto ci eravamo guadagnato alcuni mesi di buon accordo e di pace. Buon accordo lo dico, così per dire, perchè in sostanza si era tornati alla vita di prima; agli amoruzzi cioè, ai dispetti, alle gelosie, ai rappaciamenti d’una volta. Donato, il figliuoletto dello speziale, e Sandro del mulino mi facevano talvolta crepare di bile. Ma l’era una cosa tutta diversa. A questi attucci io era abituato da molto tempo, e d’altra parte la Pisana, se era duretta e caparbia nelle sue tenerezze per me, lo era a tre doppii sopra gli altri fanciulli. Nè vedeva farsi in lei a vantaggio loro quel cambiamento che la rendeva così umile, così tremante, così impensierita al cospetto di Lucilio nella sala della zia. Le angoscie sofferte allora non avevano lasciato per verità traccia alcuna nel mio cuore, ma ne ricordava la causa, e molte volte erami venuto sulla punta della lingua di muoverne cenno alla Pisana, per vedere quanto ne ricordasse ella, ed in che modo. Peraltro titubava sempre e non sarei forse venuto mai ad effettuare un tal desiderio, se ella non me ne porgeva un giorno l’occasione.

Lucilio scendeva le scale dopo aver visitato la contessa già quasi ristabilita e la vecchia Badoer, e s’avviava verso il ponticello della scuderia, riedificato con tutti gli accorgimenti d’una buona difesa, sotto la direzione del capitano Sandracca: la Clara gli veniva del paro per passar nell’orto a cogliervi quattro foglie d’erba luisa e qualche geranio, che lottava ancora contro le punture della brina. Erano corsi parecchi giorni senzachè si potessero vedere, le loro anime tumultuavano, piene di quei sentimenti che di tempo in tempo vogliono essere espressi con ardore, con libertà, per non ritorcersi dentro di noi in alimento velenoso. Aspiravano all’aria libera, alla solitudine, e già, varcato il ponte e sicuri di esser soli, pregustavano la beatitudine di potersi ripetere quelle dolci dimande e quelle eterne risposte dell’amore, che devono bastare ai colloqui di due che si vogliono bene. Parole mille volte ripetute ed udite, sempre con significato e con piacere diverso; le quali basterebbero a provare, che l’anima sola possiede la magica virtù del pensiero, e che il moto delle labbra non è altro che un vano balbettìo di suoni monotoni senza il suo interno concento. Lucilio stava già per aprire il varco a tutto quell’amore che da tanti giorni lo soffocava, quando udì dietro di sè il passo saltellante e la vocina acuta della Pisana che gridava: — Clara, Clara, aspettami dunque, che vengo anch’io a farmi un mazzetto! — Lucilio si morse le labbra e non potè o non credette necessario celare il proprio dispetto; la Clara invece, che si era volta colla solita bontà a guardar la sorella, ebbe bisogno di osservare l’addolorato volto del giovine per rattristarsi anch’essa. — Quanto a sè il contento procurato alla fanciulletta da un mazzo di fiori, l’avrebbe forse pagata delle mancate delizie d’un colloquio tanto sospirato coll’amante. Era buona, buona anzi tutto; e in anime così fatte perfino la violenza delle passioni s’attuta alla considerazione dei piaceri altrui. Ma al giovine non garbava forse questa facile rassegnazione, e il suo dispetto se ne accrebbe dimolto. Si volse egli dunque con viso un po’ arrovesciato alla Pisana, e le domandò se avesse lasciato sola la Nonna.

— Sì, ma ella stessa mi ha permesso di venire a coglier fiori colla Clara; — rispose la Pisana stizzosamente, perchè non consentiva a Lucilio l’autorità di sindacarla a quel modo.

— Quando si ha cuore e gentilezza di animo, bisogna saper non usare di certi permessi; — soggiunse Lucilio — Una vecchia malata e bisognevole di compagnia non va piantata lì senza ragione, per quanto essa sembri permetterci di farlo. —

La Pisana sentì venirsi agli occhi le lacrime dalla rabbia; volse dispettosamente le spalle, e non rispose nemmeno alla Clara che le diceva di fermarsi e di non esser così permalosa. La fanciulletta corse difilato nell’anticamera della Cancelleria dov’io aveva il mio studio, e rossa di sdegno e di vergogna mi saltò colle braccia al collo.

— Cos’è stato? — io sclamai gettando la penna, e alzandomi da sedere.

— Oh, me la pagherà il signor merlo!... sì che me la pagherà! — balbettava fremente la Pisana.

Io mi era svezzato dall’udirla adoperare questo soprannome, e non intendeva di chi la volesse parlare.

— Ma chi è questo signor merlo, cosa ti ha fatto? — le chiesi io.

— Eh!... il signor merlo di Fossalta, che vuole intricarsi de’ fatti miei, e interrogarmi, e correggermi, come se fossi una sua servetta!... E sì ch’io sono una contessa ed egli un cava-sangue, buono al più pei miserabili e pei villani! —

Io sorrisi per molte idee che mi traversarono il capo a quelle parole; e seppi poi più chiaramente la cagione precisa di quella grave ira. Intanto approfittai dell’opportunità per tirar la fanciulla ad altri schiarimenti.

— Sulle prime — le dissi — io non avea capito a chi tu volessi alludere con quel tuo signor merlo!... infatti era un gran pezzo che non chiamavi il signor Lucilio a questo modo.

— Hai ragione; — mi rispose la Pisana — gli era proprio un secolo. E guarda che stupida!... Ci fu anche un tempo ch’egli mi piaceva; e massimamente a Portogruaro, in casa della zia restava incantata a udirlo parlare. Caspita! come stavano mogi e attenti ad ascoltarlo tutti quegli altri signori! Io avrei dato non so che cosa per essere in lui a fare quella gran figura.

— Gli volevi proprio bene; — osservai io con un segreto tremore.

— Cioè..... bene.....! — mormorò la Pisana pensandovi sopra sinceramente — non saprei..... —

A questo punto vidi la bugia montarle a cavallo del naso, e capii che se non prima, almeno certamente allora, essa conosceva di qual indole fosse la sua ammirazione per Lucilio. Ebbe vergogna e rabbia di una tal confessione fatta a se medesima, e rincarò poi sul biasimarlo per vendicarsene — È brutto, è orgoglioso, è cattivo, è vestito come Fulgenzio! — Gli trovò addosso tutte le piaghe, tutti i peccati: e da molto tempo io non avea udito la Pisana parlare così a lungo e con tanta enfasi come in quella sua filippica contro Lucilio. Da questa parte mi tenni dunque sicuro. Ma quella rivalenza stessa, se bene avessi avvisato, mi dava più cagione di timore che di fiducia in un temperamento così bizzarro ed eccessivo come il suo. Infatti, ripresa che si ebbe la usanza delle due gite settimanali a Portogruaro, la Pisana tornò a raffreddarsi verso di me e ad incantarsi nel contemplare e nell’ascoltare Lucilio. Quei discorsi, quelle proteste in odio di lui furono come non fatte; ella tornò ad adorare quello che giorni prima avea calpestato, senza vergognarsene o maravigliarsene. Stavolta il mio dolore fu meno impetuoso ma più profondo: poichè compresi a qual’altalena di speranze e di disinganni avessi affidato la fortuna dell’anima mia.

Cercai dimostrare il mio rincrescimento alla Pisana e farla ripiegare sopra se stessa a pensare che cosa e quanto male faceva; ma non mi die’ retta per nulla. Solamente m’accorsi che nella sua divozione per Lucilio si era anche infiltrata una dose di gelosia. Ella si era avveduta di esser posposta alla Clara, e la ne pativa acerbamente; ma per questo non s’inveleniva nè contro la sorella nè contro Lucilio; pareva che si tenesse contenta di amare o sicura di amar tanto, che un giorno o l’altro avrebbe dovuto avere la preferenza. Tutti questi sentimenti che le leggeva negli occhi erano ben lontani dal consolarmi. Non sapendo con chi prendermela, non con Lucilio, perchè non s’accorgeva di ciò, non colla Pisana, perchè non la mi badava piucchè al muro, finii come l’altra volta col prendermela con me stesso. Ma il dolore, come vi diceva, se più profondo, fu anche più ragionevole; venni a patti con essolui, e lo persuasi che, anzichè cercar fomento nell’ozio e nella noia, più saggio partito era domandar distrazioni al lavoro ed allo studio. Mi misi di tutta schiena sopra Cicerone, sopra Virgilio, sopra Orazio; ne traduceva de’ gran brani, li commentava a mio modo, e scriveva di mio capo sopra temi analoghi. Insomma posso dire, che pe’ miei studii classici quel secondo peccato della Pisana mi fu più che altro giovevole. Il Piovano si diceva contentissimo di me; si congratulava col conte e col cancelliere del mio amore per lo studio, e insomma tutti godevano, tutti, meno io, di quei rapidi progressi. E non crediate mica che la fosse faccenda di ore e di giorni! la fu addirittura di mesi e di anni. Solamente vi si frapponevano i soliti respiri, le solite tregue. Ora la stagione rotta, ora le strade disfatte, ora il soverchio caldo, e la brevità delle sere, ora le gite dei Frumier ad Udine, sospendevano la frequenza dei conti di Fratta a Portogruaro. Allora risorgeva l’amore della Pisana per me, col solito corredo delle lusingherie per Sandro e per Donato: da ultimo ella sembrava accorgersi del mio malumore anche durante la sua fase di furore per Lucilio, e la mi compativa e la mi dava in elemosina qualche occhiata, e perfino anche qualche bacio. Io pigliava quello che mi davano come un vero accattone; e mi avrei lasciato pestare, premere e sputacchiare senza risentirmene. Ciò non toglie che non diventassi ogni giorno più un latinista di vaglia; e sudava e impallidiva tanto sui libri, che Martino alle volte mi diceva, che gli sarebbe quasi piaciuto di più il vedermi girare lo spiedo come agli anni addietro. Non importa. Io aveva scoperto da per me quel grand’ajuto a vivere che si ha nel lavoro, e checchè ne pensasse Martino, credo che sarei stato più misero di gran lunga se avessi svagato i miei dolori nella dissipazione, o accresciutili coll’ozio. Almeno ne guadagnai che di poco oltrepassati i quindici anni io potei sostenere al Seminario di Portogruaro un esame di grammatica, di latino, di composizione, di prosodia, di rettorica e di storia antica; dal quale me la cavai con una gloria immortale. Figuratevi che in tre anni scarsi io aveva imparato quello che gli altri in sei!.... Dopo un sì pieno trionfo fu deciso in famiglia che mi avrebbero mandato a Padova a prendervi i gradi di dottore; ma intanto ebbi un posto fisso come vice-ufficiale in cancelleria, col soldo annuo di sessanta ducati, che equivalevano a 14 soldi il giorno. Poco, pochissimo certo; ma io fui molto contento d’intascare alcune monete dicendo: – queste qui son proprio mie, perchè me le son guadagnate io! La nuova dignità a cui era salito fece anche sì che avessi un posto alla tavola dei padroni, e che potessi entrare nella sala di casa Frumier stando seduto vicino al Cancelliere a guardarlo giocare il tresette. Questa occupazione mi quadrava pochissimo; ma altrettanto mi garbava l’aver sempre sott’occhio la Pisana, e rodermi continuamente degli attucci ch’ella faceva per dimostrare il suo amore a Lucilio. Davvero che a ripensarvi ora, devo riderne a piena gola; ma in quel tempo la cosa era diversa. Me ne piangeva il cuore a lagrime di sangue.

La Pisana intanto era cresciuta anch’essa una vera zitella. La non toccava i quattordici anni, che la parea già perfetta e matura. Non molto grande, no; ma di forme perfettissime, ammirabile soprattutto nelle spalle e nel collo; un vero torso da Giulia, la nipote di Augusto: la testa un po’ grande, ma corretta con un bellissimo ovale; e poi capelli alla dirotta, occhi umidi sempre e languenti come di fuoco nascosto, sopracciglia sottilissime, e un bocchino poi, un bocchino da dipingere o da baciare. Voce rotonda e sonora, di quelle che non tintinnano dal capo, ma prendono i loro suoni dal petto, dove batte il cuore; un andare, ora quieto ed eguale come di persona che discerna poco, ora saltellante e risoluto come d’una scolaretta in vacanza, adesso muta, chiusa, pensierosa, di qui a poco aperta, ridente, se volete anche, ciarliera; ma già le ciarle essa le aveva perdute e ben presto: si vedeva già a quattordici anni che altri pensieri la preoccupavano tanto da farle restar torpida la lingua. Così stava da vera donnetta in conversazione; uscita poi, e sciolta dai rispetti umani, i diritti dell’età si impadronivano di quel corpicciuolo ben tornito, e gli facevano fare le più gran capriole, i più bizzarri contorcimenti del mondo. Allora aveva del ragazzaccio più del bisogno; come invece in sala si atteggiava a donnina languida e leziosa. A questo modo me la ricordo in quegli anni di transizione, ora bambina affatto ed ora donna matura; ma in quanto all’animo, al temperamento, i difetti della bambina si disegnavano così esatti nella donna, che non mi accorsi certamente del punto in cui questi supplirono a quelli. Gli uni forse non furono che la continuazione degli altri, e il loro sviluppo naturale.

Eccomi ora ad un punto, dal quale ebbe a cominciare un mio nuovo tormento, o meglio ad accrescersi uno già incominciato. Circa a quel tempo uscì di collegio il signor Raimondo di Venchieredo, e venne ad abitare nel suo castello vicino a Cordovado; ma siccome non toccava ancora gli anni della maggiore età, così un suo zio materno di Venezia che gli era tutore, lo affidò alla sorveglianza d’un precettore, d’un certo padre Pendola, che venuto a Venezia non si sapeva donde, erasi acquistato una grandissima opinione di erudito. Questo abate misterioso ebbe certo le sue ottime ragioni per accettare l’incarico; e in confidenza io credo, che fosse di soppiatto un Beniamino degli Inquisitori di Stato. Lo si diceva romagnuolo di nascita, ma viaggiava con passaporto russo; si sa che i RR. P. Gesuiti, dopo la soppressione dell’Ordine loro, s’erano ricoverati a Pietroburgo, e che la Repubblica di Venezia non s’era mai professata loro protettrice. Ad ogni modo le massime politiche della Signoria non erano più quelle di Fra Paolo Sarpi, quando il padre Pendola si stabilì col suo alunno a Venchieredo; e tanto egli, come il giovine castellano, fecero grandissimo colpo nella società di Portogruaro che s’era affrettata ad invitarli e a festeggiarli. La Pisana, dopo la prima comparsa di questo giovine nelle sale Frumier, si dimenticava sovente di Lucilio per badare a lui; io poi seduto vicino al cancelliere mi rodeva l’anima, e gettava le mie occhiate al vento.





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