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CAPITOLO DECIMOTERZO.
Un Iacopo Ortis e un Machiavelli veneziano. — Finalmente imparo a conoscere mia madre vent’anni dopo la sua morte. — Venezia fra due Storie. — Una famiglia greca a San Zaccaria. — Mio padre a Costantinopoli. — Spiro ed Aglaura Apostulos.
In casa non trovai mio padre; e la vecchia fantesca maomettana si espresse con tanti segni e gesti negativi, che io mi persuasi la mi volesse dire che non sapeva nemmeno quando sarebbe tornato. Divisava fra me di aspettarlo, quand’ella mi consegnò un polizzino facendomi motto a cenni che era cosa di gran premura. Credeva quasi che fosse una memorietta di mio padre, ma vidi invece che era scritto da Leopardo. — Non ci sei in casa, — diceva egli — perciò ti lascio queste due righe. Ho bisogno di te tosto tosto, per un servigio che di qui a tre ore non mi potresti più rendere. — E non v’erano altri schiarimenti. Faccio intendere alla meglio alla vecchia mora che sarei di ritorno fra breve, piglio il cappello, e via a precipizio fino al Ponte Storto. Che cosa volete? Quel biglietto non diceva nulla, io avea lasciato la mattina stessa Leopardo grave e taciturno come il solito, ma sano e ragionevole. Pure il cuore mi annunciava disgrazie, e avrei voluto aver l’ali ai piedi per giungere più presto. L’uscio di casa era aperto, un lumicino giaceva per terra a piedi della scala: penetrai nella stanza di Leopardo, e lo trovai seduto in una poltrona colla consueta gravità sul volto, ma suffuso d’una maggior pallidezza. Guardava fiso fiso la lucerna, ma al mio entrare volse gli occhi in me, e senza parlare mosse un gesto di saluto. — Grazie, — pareva dirmi sei venuto ancora a tempo! — Io mi sgomentai di quella attitudine, di quel silenzio, e gli chiesi con premurosa inquietudine che cosa avesse per stare a quel modo, e in qual cosa mai potessi aiutarlo.
— Nulla, — mi rispose egli socchiudendo a stento le labbra, come uno che parla e sta per addormentarsi; — voglio che tu mi faccia compagnia; scusami se non parlerò troppo, ma ho qualche doloruccio di stomaco.
— Mio Dio, chiamiamo dunque un medico! — io sclamai. — Sapeva che Leopardo non soleva lamentarsi per poco, e quella chiamata notturna mi diceva i suoi timori.
— Il medico! — riprese egli con un sorriso mestissimo. — Sappi, Carlino, che un’ora fa mi son preso in corpo due grani di sublimato corrosivo!...
Io misi uno strido di raccapriccio, ma egli si turò le orecchie soggiungendo: — Zitto, zitto, Carlino! mia moglie è di là che dorme nella seconda camera!... sarebbe un peccato incomodarla, tanto più che l’è incinta, e questo suo nuovo stato le mette malumore.
— Ma no, per carità, Leopardo! lasciami andare! (egli mi stringeva il polso con tutta la forza che aveva). Forse siamo ancora in tempo: un buon emetico, un rimedio eroico, che so io... lasciami, lasciami...
— Carlino, tutto è inutile!... Il solo bene che accetterò da te sarà, come dissi, un’ultima ora di compagnia. Rassegnati, giacchè mi vedi più ancora che rassegnato volonteroso di andarmene; l’emetico ed il dottore verrebbero tardi d’una buona mezz’ora; io ho studiato da una settimana quel capitolo di tossicologia che mi abbisognava. Vedi? sono ai secondi sintomi!... Mi sento schizzar gli occhi dalla testa... Purchè questo prete di cui andò in cerca la portinaia capiti presto... Io son cristiano, e voglio morire con tutte le regole.
— Ma no, Leopardo, te ne scongiuro! lasciami tentare se non altro! È impossibile che ti lasci morire a questo modo!...
— Lo voglio, Carlino, lo voglio; se mi sei amico devi contentarmi d’una grazia. Siedi vicino a me, e finiamo conversando come Socrate. —
Io conobbi che non c’era nulla da sperare da una si tremenda tranquillità: sedetti vicino a lui, deplorando quella triste aberrazione che perdeva così miseramente uno degli animi più forti ch’io m’avessi mai conosciuto. Quell’accorgimento di mandare pel prete accusava assoluto disordine di cervello in un suicida; perchè egli non dovea ignorare che l’azione da lui commessa si riguardava dalla religione come un grave e mortale peccato. Sembrò ch’egli indovinasse tali pensieri, perchè si accinse a ribatterli senzachè io mi prendessi la briga di esprimerli.
— N’è vero, Carlino, che ti sorprende questa mia smania di aver un confessore? Cosa vuoi?... Per una fortunata combinazione mi dimenticai da molti mesi che Dio proibisce il suicidio; or ora me ne sovvenne, ed è proprio vero che la vicinanza della morte aiuta mirabilmente la memoria. Ma è troppo tardi per fortuna... È troppo tardi: il Signore mi punirà di questa lunga distrazione, ma spero che non vorrà essere troppo severo verso di me, e che me la caverò con una passata di Purgatorio. Ho sofferto tanto Carlino, ho sofferto tanto in questa vita!...
— Oh maledizione, maledizione sul capo di coloro che ti spinsero ad un passo così sciagurato!... Leopardo, io ti vendicherò: ti giuro che ti vendicherò!
— Zitto, zitto, amico mio; non destare mia moglie che dorme. Io ti esorto intanto a perdonare come perdono io. Ti nomino anzi legatario perpetuo delle mie perdonanze, acciocchè nessuno abbia male dalla mia morte; e ti raccomando di non far sapere ch’io me l’ho procurata. Sarebbe grave scandalo, e altri potrebbero averne dispiacere o rimorso. Dirai che fu un’aneurisma, un colpo fulminante, che so io?.... già me l’intenderò meglio col prete; e così spero di morire in pace lasciando dopo di me la pace.
— Oh Leopardo, Leopardo! un’anima come la tua morire a questo modo! Con tanta bontà, con tanta forza e costanza che avevi!...
— Hai ragione; due anni fa neppur io mi sarei immaginato questa corbelleria. Ma ora l’ho fatta, e non c’è che dire. I dolori, gli avvilimenti, i disinganni si accumulano qui dentro (e si toccava il petto) finchè un bel giorno il vaso trabocca e addio giudizio! Bisogna ch’io m’esprima così per iscusarmi con Dio. —
Io vidi allora, o meglio indovinai le lunghe torture di quel povero cuore tanto onesto e sincero; le angoscie di quell’indole aperta e leale sì indegnamente tradita; la delicatezza di quell’anima eroica deliberata di non veder nulla, e di morire senza lasciare ai suoi assassini neppure la punizione del rimorso. Non mossi parola di ciò rispettando la maravigliosa discretezza del moribondo. Leopardo riprese a parlare con voce più profonda e affaticata: le membra gli si irrigidivano, e le carni prendevano a poco a poco un colore cinereo.
— Vedi, amico? fino a ieri ci pensava, ma mi difendeva valorosamente. Aveva una patria da amare, e sperava quandochessia di servirla e di scordare il resto. Ora anche quell’illusione è svanita... fu proprio il colpo che mi decise!
— Oh no, Leopardo, tutto non è svanito!... Se è così, guarisci, torna a vivere con noi: porteremo la patria nel cuore dovunque andremo: ne insegneremo, ne propagheremo la santa religione. Siamo giovani; tempi migliori ci arrideranno, lasciami... —
Io m’era alzato in piedi, egli mi teneva fermo pel braccio con forza convulsiva, e dovetti sedere ancora. Un sorriso vago e melanconico errava su quel volto già quasi disfatto dalla morte: mai la bellezza dell’anima non ebbe più pieno trionfo su quella del corpo. Questa era sparita affatto, quella spirava ancora con ogni suo splendore da quella faccia incadaverita.
— Rimani, ti dico, — soggiunse egli con uno sforzo compassionevole. — Ad ogni modo sarebbe troppo tardi. Serba, amico mio, la tua candida fede; questo ti raccomando, perch’ella è, se non altro, incentivo potente ad imprese belle ed onorate... Quanto a me, me ne vado senza rincrescimento... Son certo che avrei aspettato indarno. Era stanco, stanco, stanco!...
Ciò dicendo le sue membra si sciolsero, e la testa cadutagli penzolone mi si appoggiò sopra una spalla. Io allora feci per muovermi e per dimandar soccorso, ma egli si riebbe quel tanto da accorgersi delle mie intenzioni, e da proibirmelo.
— Non hai capito?... — mormorò fiocamente. — Voglio te solo... ed il prete!...
Io lo compresi pur troppo, e volsi uno sguardo pieno di odio e di ribrezzo alla porta, dietro la quale la Doretta dormiva placidi i suoi sonni. Indi passai un braccio sotto il collo di Leopardo, e vedendo che in quella posizione sembravano diminuire gli spasimi, mi sforzai di tenerlo sollevato a quel modo. Il peso mi cresceva sulle braccia, e tremava tutto non so bene se di fatica o di dolore, quando rientrò la portinaia col prete. Avendo picchiato indarno alla porta del parroco, essa ne aveva condotto uno nel quale per sorte si era abbattuta. Colui, renitente da principio, si era deciso a seguirla udendo che si trattava d’un colpo fulminante, come appunto Leopardo avea definito alla portinaia il suo male. Ma qual non fu il mio stupore, quando levando gli occhi in quel sacerdote riconobbi il padre Pendola!... Anche lui, il buon padre, diede un guizzo certo non minore del mio, e così rimanemmo un istante, chè la sorpresa ci vietava ogni altro movimento. Leopardo a quel silenzio alzò faticosamente uno sguardo, e appena fissatolo in volto a quel prete, saltò in piedi come morsicato nel cuore da un serpente. Il padre si tirò indietro due passi, e la portinaia per la paura si lasciò cadere il lume di mano.
— Non lo voglio! ch’egli vada via, che se ne vada tosto! — gridava Leopardo dibattendosi fra le mie braccia come un ossesso.
Il reverendo aveva una voglia grandissima di accettare il consiglio; ma lo trattenne la vergogna della portinaia, e volle alla peggio salvare l’onore dell’abito. Questo gli riuscì più facile di quanto temeva, perché Leopardo s’era tosto acchetato da quella furia subitanea, e tornava già quieto come un agnellino. Il buon padre se gli avvicinò delicatamente con un sorriso angelico, e prese a confortargli l’anima, con una vocerellina che partiva proprio dal cuore.
— Padre reverendo, la prego di andar via! — gli bisbigliò nell’orecchio Leopardo con voce cupa e minacciosa.
— Ma figliuolo dilettissimo, pensate all’anima, pensate che avete ancora pochi momenti, e che io, quantunque indegno ministro del Signore, posso...
— Meglio nessuno che lei, padre; — lo interruppe ricisamente Leopardo.
La portinaia, pochissimo contenta di quello spettacolo, era tornata pe’ fatti suoi, onde il prudentissimo padre non giudicò opportuno l’insistere. Ci diede la sua santa benedizione e se n’andò per dove era venuto. Leopardo lo fermò sull’uscio con una chiamata.
— Dal limitare del sepolcro un ultimo ricordo, padre — un ultimo ricordo spirituale a lei che suole raccomandar l’anima agli altri. Ella vede come io muoio; tranquillo, ilare, sereno!... Or bene, per morire così bisogna vivere come ho vissuto io. Ella, vede, bramerà invano una tale fortuna; si ricorderà di me in sul grave punto, e passerà nell’altro mondo tremante, spaventato, come chi si sente nelle polpe le unghiate del diavolo! Buona notte, padre; sull’alba io dormirò più tranquillo di lei!
II padre Pendola se l’era già battuta facendo un gesto di raccapriccio e di compassione; scommetto che giù per la scala aggiunse molti altri gesti di sommo piacere per averla scapolata così a buon mercato. Leopardo non pensò più a lui, e mi pregò immantinente ch’io n’andassi per un altro confessore. Infatti lo affidai per poco alla portinaia, e uscii e scampanellai tanto all’uscio del parroco, che mi venne fatto di staccarlo di letto e di condurlo dal moribondo. Questi, durante la mia assenza, avea peggiorato tanto, che vedendolo in altro luogo avrei stentato a riconoscerlo. Pure l’arrivo del parroco lo confortò alquanto e per poco li lasciai soli; e rientrando lo trovai bensì alle prese coll’ultima stretta dell’agonia, ma ancora più sereno del solito.
— Dunque, figliuolo mio, siete proprio pentito del gravissimo peccato che avete commesso? — gli ripetè il confessore. — Consentite con me che avete disperato della Provvidenza, che avete voluto distruggere a forza l’opera di Dio, che ad una creatura non è concesso l’erigersi a giudice delle disposizioni divine?
— Sì, sì, padre; — rispose Leopardo con un lieve sapore d’ironia ch’egli non potè reprimere, e che io solo forse distinsi, poichè egli stesso, il moribondo, non se ne accorgeva.
— E avete fatto quant’era in poter vostro per impedire gli effetti del vostro delitto? — domandò ancora il parroco.
— Bisogna rassegnarsi, — soggiunse con un filo di voce l’agonizzante; — non era più tempo.... Padre, due grani di sublimato sono uno speditivo troppo potente!...
— Bene, l’assoluzione ch’io v’ho impartito ve la confermi Iddio. — E si diede a recitare le preci degli agonizzanti. Allora le vene del moribondo cominciarono a inturgidire, le sue membra a storcersi, le labbra a disseccarsi, gli occhi gli si stravolgevano orribilmente, e tuttavia lo spirito regnava forte, imperterrito su quella tempesta di morte che gli si agitava sotto. Parevano due esseri diversi l’uno dei quali contemplasse i patimenti dell’altro colla impassibilità d’un inquisitore. Il parroco gli amministrò allora gli ultimi sacramenti, e Leopardo si compose alla aspettazione della morte colla grave pietà d’un vero cristiano. La quiete era tornata in tutta la sua persona; la quiete solenne che precede la morte: io potei ammirare quanto opera di grande la religione in un animo alto e virile, ed ebbi allora invidia per la prima volta di quelle sublimi convinzioni a me vietate per sempre. La morte della vecchia contessa di Fratta me le avea messe in discredito; quella di Leopardo me le rese ancora venerabili e sublimi. Gli è vero che la tempra di questo era tale, da far buona prova di sè colla fede e senza.
Indi a poco egli sofferse un nuovo assalto di dolori acutissimi, ma fu l’ultimo; il respiro divenne sempre più fievole e frequente, gli occhi si socchiusero quasi alla contemplazione d’una visione incantevole, la sua mano si sollevava talvolta come per accarezzare taluno di quegli angeli che venivano incontro all’anima sua. Erano i fantasmi dorati della giovinezza, che gli vagolavano dinanzi nel confuso crepuscolo del delirio; erano le sue speranze più belle, i più splendidi sogni che prendevano forme visibili e sembianza di realtà agli occhi del moribondo; era la ricompensa d’una vita virtuosa ed illibata, o il presentimento del paradiso. A tratti egli s’affissava sorridendo in me, e dava indizio di ravvisarmi; mi prendeva la mano fra le sue per avvicinarsela al cuore; a quel cuore che non battea quasi più, eppure era così riboccante ancora di valore e d’affetto! Vi fu un momento ch’egli fece per alzarsi, e mi sembrò quasi di vederlo sospeso da terra in un atteggiamento mirabile d’ispirazione e di profezia. Egli pronunciò fieramente il nome di Venezia; indi ricadde come stanco per tornare alle sue fantasie.
Quando fu presso al gran punto lo vidi aprire le labbra a un sorriso, quale da un pezzo non brillava più su quel volto robusto e maestoso; si mise la mano in seno, e ne trasse uno scapolare su cui affisse a più riprese le labbra. Ogni bacio era più lento e meno vibrato; se ne staccò sorridente per esalar l’anima a Dio, e il suo ultimo respiro gli uscì così pieno, così sonoro dal petto, che parve significare: eccomi finalmente libero e felice! — Quella reliquia, cui aveva consacrato l’estremo alito di vita, cadde nella mia mano all’allentarsi della sua; io la ricevetti come un pegno, come una sacra eredità, e m’inginocchiai dinanzi a quel morto come al cospetto di Dio. Mai non mi venne veduta poi morte simile a quella; il parroco asperse d’acqua benedetta il cadavere e si partì asciugandosi gli occhi, e assicurandomi che gli verrebbe data sepoltura sacra per quanto forse i canoni lo vietassero. Ma la santità di quel passaggio comandava che non si badasse così strettamente alle regole. Allora, rimasto solo, io diedi uno sfogo al mio dolore: baciai e ribaciai quel santo volto di martire, lo cospersi di pianto, lo contemplai a lungo quasi innamorato della pace sovrumana che spirava. Appresi maggior virtù da un’ora di colloquio con un morto, che da tutta la mia convivenza coi vivi. La lucerna era agli ultimi crepiti; il primo luccichio del giorno traspariva dalle persiane, quando mi venne a mente che si stava a me il dare annunzio alla Doretta della morte del marito. Questo pensiero mi fece rabbrividire. Tuttavia mi accingeva a bussare alla porta, quando udii avvicinarsi dietro ad essa un fruscio di passi; l’uscio s’aperse pian piano, e mi comparve dinanzi la figura un po’ pallida e sospettosa di Raimondo Venchieredo. Diedi un tal grido che destò tutti gli echi della casa, e mi slanciai ad abbracciare Leopardo come per proteggerlo o consolarlo di quel postumo insulto. Raimondo alla prima non ci capì nulla, balbettò non si sa quali parole di gondola e di Fusina, e si affrettava ad andarsene. Seppi in seguito che egli avea mandato Leopardo a Fusina, coll’ordine di fermarvisi tutto il giorno appresso ad aspettare suo padre che doveva arrivare colà, e di consegnargli un piego rilevantissimo. Leopardo era partito infatti sull’Avemaria, ma accortosi a mezzo il viaggio d’aver dimenticato la lettera, era tornato per prenderla verso le tre ore di notte. Allora avea veduto Raimondo entrare furtivo in sua casa e nella stanza della Doretta; il resto ognuno se lo può immaginare. È vero peraltro che il sublimato egli lo avea provveduto presso uno speziale fin dalla mattina, dopo avere assistito all’adunanza dei Municipali, nella quale il Villetard avea pronunciato sentenza di morte contro Venezia. Sembra che l’ultimo vitupero dell’onor suo non abbia fatto che precipitare una deliberazione, già maturata e presa per molti motivi. La lettera indiretta al Venchieredo, e di pugno del padre Pendola, fu trovata nel cassetto della tavola dinanzi a lui.
Tuttociò io non sapeva allora, ma indovinai qualche cosa di simile. Laonde non soffersi che Raimondo si salvasse a quel modo, senza conoscere almeno l’orrenda tragedia di cui egli era la causa. Gli corsi dietro fin sulla soglia, lo abbrancai per le spalle, e lo trassi genuflesso e tremante dinanzi il cadavere di Leopardo.
— Guarda, — gli dissi, — traditore! guarda!... —
Egli guardò spaventato, e s’accorse solamente allora della lividezza mortale che copriva quelle spoglie inanimate. Accorgersene, e mettere un grido più acuto del mio, e cader riverso come colpito dal fulmine, fu tutto ad un punto. Quel secondo grido chiamò nella stanza la portinaja, la Doretta e quanta gente abitava la casa. Raimondo s’era riavuto, ma si reggeva in piedi a stento, la Doretta si strappava i capelli e non so ben dire se strillasse o piangesse; gli altri guardavano spaventati quel lugubre spettacolo, e si chiedevano l’un l’altro sotto voce com’era stato. Mentire toccava a me, e non mi fu grave, perché pensava così di adempiere scrupolosamente il desiderio dell’amico. Ma non potei fare a meno che nell’ascrivere quella morte ad un colpo fulminante la mia voce non parlasse ben altrimenti. Raimondo e la Doretta m’intesero, e sopportarono dinanzi al mio sguardo inesorabile la vergogna dei rei. Io partii da quella casa, ove divisava di tornare il giorno appresso per accompagnare l’amico alla sua ultima dimora; quale fosse l’animo, quali i miei pensieri non voglio confessarlo ora. Guardava talvolta con inesprimibile avidità l’acqua torbida e profonda dei canali; ma mio padre mi aspettava, ed altri martiri mi invitavano per la via di Milano alle dure espiazioni dell’esiglio.
Mio padre m’attendeva infatti da un’ora, e si spazientiva di non vedermi tornare. Mi scusai raccontandogli l’atrocissimo caso, ed egli mi tagliò le parole in bocca sclamando: — « Matto, matto! la vita è un tesoro; bisogna impiegarlo bene sino all’ultimo soldo! » — Rimasi nauseato alquanto di una tale pacatezza, e non ebbi voglia alcuna di farmi incontro ai suoi desiderii, come me ne aveano persuaso la sera prima le monche confidenze di Lucilio. Egli invece, senzaché io m’incomodassi, entrò subito in argomento.
— Carlino, — mi chiese, — dimmi la verità, quanti danari all’anno ti bisognano per vivere?
— Son nato con un buon pajo di braccia; — gli risposi freddamente — mi ajuterò!...
— Matto, matto anche tu! — rispose egli — anch’io son nato colle braccia e le ho fatte lavorare a meraviglia; ma perciò non rifiutai mai un buon ajuto dell’amicizia. Pigliala come vuoi, io sono tuo padre; e ho diritto di consigliarti e al caso anche di comandarti. Non guardarmi così altero!... non ci è bisogno!... Ti compatisco; sei giovane, hai perduto la testa. Anch’io stetti tutto jeri che non sapeva se fossi vivo o morto, anch’io ho sofferto, vedi, più di uomo al mondo, vedendo rovesciarsi tutte le mie speranze, per opera di quelli stessi cui le aveva affidate da compiere! Anch’io ho pianto, sì ho pianto di rabbia, trovandomi schernito, beffeggiato, e pagato di sette anni di servizi e di sacrifizii coll’ingratitudine e col tradimento... Ma oggi, oggi me ne rido!... Ho un grave pensiero in capo; questo mi occuperà per mesi forse, per anni molti; spero di riuscir meglio che al primo esperimento e ci rivedremo. Un uomo, vedi, è un assai debole animale, un futuro parente del nulla; ma non è nulla!... e finché non è nulla può essere il primo anello d’una catena da cui dipenda il tutto... Bada a me, Carlino!... Io son tuo padre; io ti stimo e ti voglio bene assai; tu devi accettare i consigli della mia esperienza: devi serbarti a quel futuro che io m’adoprerò di preparare a te ed alla patria. Pensa che non sei solo, che hai amici e parenti profughi, impotenti, bisognosi; ti sarà gradito talvolta avere un pane da spartire con loro. Qui in questo taccuino sono parecchi milioni ch’io consacro ad un grande tentativo di giustizia e di vendetta; erano destinati a te, ora non lo sono più. Vedi che parlo aperto e sincero!... Usami dunque l’egual confidenza, dimmi quanto ti bisogna per vivere un anno comodamente.
Io mi piegai sotto la stringente logica paterna, e soggiunsi che trecento ducati mi sarebbero stati più che sufficienti.
— Bravo, figliuol mio! — ripigliò mio padre. — Sei un gran galantuomo. Eccoti una credenziale appunto di settemila ducati sopra la casa Apostulos in San Zaccaria, la quale tu consegnerai oggi stesso al rappresentante della casa. Troverai ottima gente, generosa e leale, un vecchio ch’è la perla dei mercanti onesti, e che sarà per te un altro me stesso: un giovine appena reduce dalla Grecia che ne compera venti dei nostri veneziani; una giovinetta che tu amerai come una sorella; una mamma che ti amerà come mamma. Fidati ad essi: per mezzo loro avrai mie novelle, poiché conto imbarcarmi prima di mezzodì, e non voglio vedere le nefandità di questo giorno. La casa ch’io comperai per duemila ducati ti resta in proprietà: ne ho già steso la donazione. Nello scrittojo troverai alcune carte che appartenevano a tua madre. Sono la sua eredità, e la viene a te di diritto. Quanto alla tua sorte futura non ti do consigli, perché non ne abbisogni. Altri s’affida ancora alle speranze francesi ed emigra nella Cisalpina. Guarda il fatto tuo, e pensa sempre a Venezia; non lasciarti abbagliare né da fortuna, nè da ricchezze, nè da gloria. La gloria c’è quando si ha una patria; stimo la fortuna e le ricchezze, quando siano assicurate dalla libertà e dalla giustizia.
— Non temete, padre mio: — soggiunsi piuttosto commosso da queste raccomandazioni che per essere espresse a sbalzi, e con un gergo più moresco che veneziano, non erano meno generose. — Penserò sempre a Venezia!... Ma perché non potrei partire con voi, ed esser partecipe dei vostri disegni, compagno delle vostre fatiche?
— Ti dirò, figliuol mio: tu non sei abbastanza turco per approvare tutti i miei mezzi, io sono come un chirurgo che mentre opera non vuole intorno a sè donnicciuole che frignino. Non dico per insultarti; ma te lo ripeto, non sei abbastanza turco: questo può ridondare ad onor tuo; per me ci perderei la libertà d’azione che sola dà fretta alle cose di questo mondo. E un uomo di sessant’anni, Carlino, ha fretta assai! D’altronde in questi paesi non c’è abbondanza di giovani robusti e ben pensanti come tu sei: va bene che restiate qui, se si ha da imparare a far da noi. Già in un cantone o nell’altro la matassa si deve imbrogliare. Ad Ancona, a Napoli, bollono che è una meraviglia: quando l’incendio si fosse dilatato, chi lo appiccò potrebbe restarne arso, allora toccherà a voi, cioè a noi. Per questo ti dico di rimanere, e di lasciare me solo dove la vecchiaja può riescire meglio della gioventù, ed il denaro avere ragione sopra le forze del corpo e la gagliardia dell’animo.
— Padre mio! che volete che vi dica?... Resterò!... Ma si potrebbe almen sapere dove n’andate?
— In Oriente vado, in Oriente a intendermela coi Turchi, giacchè qui non ebbi voce da farmi capire. Fra poco, se anche non udrai parlare di me, udrai parlare dei Turchi. Dì pur allora ch’io c’ebbi le mani in pasta. Di più non ti posso dire, perchè sono ancora fantasmi di progetti. —
Mio padre doveva uscire, per prender l’ora dal capitano della tartana che salpava pel Levante. Io lo accompagnai, e non altro potei rilevare, senonchè egli andava difilato a Costantinopoli, ove potea fermarsi e molto e poco, secondo le circostanze. Certo i suoi pensieri non erano nè piccoli, nè vili, perchè ingrandivano la sua persona, e le davano una sembianza di autorità insolita fino allora. Avea la solita berretta, le solite brache all’Armena, ma un fuoco affatto nuovo gli lampeggiava dalle ciglia canute. Verso le nove salì sulla nave colla fida fantesca e un piccolo baule; non mise un sospiro, non lasciò saluti per nessuno, riprese volontario la strada dell’esiglio, colla baldanza del giovine che avesse dinanzi agli occhi la certezza d’un vicino trionfo. Mi baciò così come all’indomani ci dovessimo rivedere, mi raccomandò la visita all’Apostulos; e poi egli scese sotto coperta, e io tornai nella gondola che ci aveva condotti a bordo.
Oh come mi trovai solo, misero, abbandonato al ritoccare il lastrico della Piazzetta!... L’anima mia corse con un sospiro alla Pisana; ma la fermai a mezza strada col pensiero di Giulio e dell’ufficiai còrso. Mi rimisi allora a piangere la morte di Leopardo, e ad onorare la sua memoria di quei postumi compianti, che formano l’elogio funebre d’un amico. Piansi e farneticai un pezzo, finché per distrarmi pensai alla credenziale, e mi volsi a san Zaccaria per abboccarmi col negoziante greco. Trovai un mustacchione grigio di pochissime parole, che onorò la firma di mio padre, e mi chiese senz’altro in qual modo bramassi esser pagato. Gli risposi che desiderava solo gli interessi d’anno in anno, e che il capitale lo lascierei volentieri in mani così sicure. Il vecchio allora diede una specie di grugnito, e comparve un giovine al quale consegnò il foglio, aggiungendo in greco qualche parola che non potei capire. Mi disse poi che quello era suo figlio, e che n’andassi pure con lui alla cassa, ove mi sarebbe contata la somma secondo il mio piacimento. Quanto era ruvido e brontolone il vecchio negoziante, altrettanto suo figlio Spiridione piaceva per le sue maniere amabili e compite. Grande e svelto di statura, con un profilo greco, moderno, arditissimo, un colore più che olivastro, e due occhi fulminei, egli mi entrò in grazia al primo aspetto. Intravidi una grand’anima sotto quella sembianza, e secondo la mia usanza, mi chiese scusa sorridendo della burbera accoglienza di suo padre, e soggiunse che non me ne spaventassi perché egli gli avea parlato di me quella stessa mattina con tutto il favore, e che sarei il benvenuto nella loro casa, ove avrei ritrovato la confidenza e la pace della famiglia. Io lo ringraziai di sì benevoli sentimenti, soggiungendo che questo sarebbe stato il mio più soave piacere, ove un qualche caso straordinario mi avesse fermato a Venezia. Così ci separammo, a quanto parve, amici in fin d’allora con tutta l’anima.
Pranzai quel giorno, v’immaginerete con quanta voglia, in una bettolaccia, ove facchini e gondolieri litigavano sullo sgombero dei Francesi e l’entrata dei Tedeschi. Ebbi campo di compiangere la sorte d’un popolo, che da quattordici secoli di libertà non avea tratto nè un lume di criterio, nè la coscienza del proprio essere. Ciò avveniva forse, perchè quella non era libertà vera; e avvezzi alla oligarchia non vedevano motivo da schifare l’arbitrio soldatesco e l’impero di fuori. Per loro era tutt’uno; tutto serviva; discutevano sull’umore del padrone, sul salario, e null’altro. Qualche voce meno interessata stonava troppo in quel concerto, e avevano perfin paura di ascoltarla, tanto gli aveva usati bene l’Inquisizione di Stato. Quando io penso alla Venezia d’allora, mi maraviglio che una sola generazione abbia potuto mutarla di tanto, e benedico o le insperate consolazioni della Provvidenza, o i misteriosi e subitanei ripieghi dell’umana natura.
Passato per casa mia, me ne cacciò tosto la mestizia e la paura della solitudine; mi ricordo che piansi a dirotto trovando sul tappeto la pipa di mio padre ancora piena di cenere. Pensai che tutto finiva così; e mi entrò in cuore un involontario sospetto che quello fosse un pronostico. In tali disposizioni d’animo il povero Leopardo mi attirava a sè con forza irresistibile; infatti il resto della giornata lo passai vicino al letto dove i pietosi vicini lo avevano adagiato. La portinaia mi disse che la vedova di quel signore se n’era ita colle sue robe, lasciando otto ducati per le spese del funerale; e avea detto prima di partire, che non le reggeva il cuore di restar un’ora di più sotto lo stesso tetto colle spoglie inanimate di colui che tanto ell’aveva amato.
― Peraltro, ― soggiunse la portinaia, ― la signora parve arrabbiatissima, perchè non venne a levarla quel bel cavaliere che era qui questa mattina, e si stizzì anche non poco colla mia ragazzina, perchè lasciò cadere per terra una sua cuffia. Dica lei, se questi sono segni di gran dolore! —
Io non risposi verbo: pregai la donna che non s’incomodasse per cagion mia, e siccome la persisteva nelle sue chiacchiere, nelle sue induzioni, mi voltai senza cerimonie dalla parte del morto. Allora essa mi lasciò solo, ed io potei sprofondarmi a mio grado nell’oscuro abisso delle mie meditazioni. Dice bene il mementomo del primo giorno di quaresima: tutti si torna cenere. Piccoli e grandi, buoni e cattivi, ignoranti e sapienti, tutti ci somigliamo, così nella fine come nel principio. Questo è il giudizio degli occhi; ma la mente? — La mente è troppo ardita, troppo superba per accontentarsi delle ragioni che si palpano. Le stupende e sublimi azioni inspirate dal Vangelo, non sono elleno figlie legittime dei pensieri, della dottrina, dell’anima di Cristo? Ecco una divinità, un’eternità in noi che non finisce colla cenere. Quel muto e freddo Leopardo non viveva egli in me, non riscaldava ancora il cuor mio colla bollente memoria dell’indole sua nobile e poderosa? — Ecco una vita spirituale che trapassa di essere in essere, e non vede limiti al suo futuro. I filosofi trovano conforti più saldi, più pieni; io m’appago di questi, e mi basta il credere che il bene non è male, nè la mia vita un momentaneo buco nell’acqua. Allora con questi melanconici conforti pel capo trassi di tasca quello scapolare, ch’era caduto il dì prima dalla mano del moribondo nella mia, e da un fesso chiuso con un bottoncino trassi un’immagine della Madonna e alcuni pochi fiori appassiti. Fu come un largo orizzonte che mi si scoperse lontano lontano, pieno di poesia, d’amore e di gioventù; tra quell’orizzonte e me vaneggiava allora l’abisso della morte, ma la mente lo varcava senza ribrezzo.
I fantasmi non sono paurosi a chi ama per sempre. Ricordai le belle e semplici parole di Leopardo; rividi la fontana di Venchieredo, e la leggiadra Ninfa che vi bagnava l’un piede increspando coll’altro il sommo dell’acqua; udii l’usignuolo intonare un preludio, e un concento d’amore sorgere da due anime, come da due strumenti di cui l’uno ripete in sè i suoni dell’altro. Vidi uno splendore di felicità e di speranza diffondersi sotto quel fitto fogliame d’ontani e di salici... Indi gli sguardi tornarono da quei remoti prospetti fantastici alle cose reali che mi stavano dintorno: rimirai con un tremito quel cadavere che mi dormiva appresso. Ecco un’altra felicità, ahi quanto diversa!... Dopo la luce le tenebre, dopo la speranza l’obblio, dopo il tutto il nulla; ma fra nulla e tutto, fra obblio e speranza, fra tenebre e luce quanta vicenda di cose, quanto fragore di tempesta e sguiscio di fulmini! Si armi di costanza e di rassegnazione il piloto per trovare un porto in quel pelago vorticoso e sconvolto; alzi sempre gli occhi al cielo, ed anche traverso alle nuvole e al velo luttuoso della procella traveda sempre colla mente lo splendore delle stelle. Passano le navi, ora calme e leggiere come cigni sull’onda d’un lago, or risospinte ed agitate, come stormo di pellicani tra il contrario azzuffarsi dei venti; sorgono i flutti minacciosi al cielo, si sprofondano quasi a squarciare le viscere della terra, e si stendono poi graziosi e tremolanti all’occhio del sole, come serico manto sulle spalle di una regina. L’aria si annebbia grave e cinerea; s’empie di nubi, di burrasche, di tuoni, nera come l’immagine del nulla nella notte profonda, grigia come la chioma scapigliata delle streghe nel trasparente biancheggiar del mattino. Indi la brezza profumata spazza via come larve sognate quelle apparizioni spaventose; il cielo s’incurva azzurro, tranquillo e sereno, e non ricorda e non teme più l’assalto dei mostri aereiformi. Ma cento milioni di miglia sopra quelle effimere battaglie, le stelle siedono eterne sui loro troni di luce; l’occhio le perde di vista talvolta, ma il cuore ne indovina sempre i raggi benigni, e ne sente e ne raccoglie l’arcano calore. O vita, o mistero, o mare senza sponde, o deserto popolato da oasi fuggitive, e da carovane che viaggiano sempre e che non giungono mai! Per consolarmi di te bisogna che io slanci il pensiero fuori di te; veggo le stelle ingrandirsi agli occhi delle generazioni venture; veggo il piccolo e modesto seme delle mie speranze, covato con tanta costanza, fecondato da tanto sangue, da tante lagrime, crescere in pianta gigantesca, empir l’aria de’ suoi rami, e proteggere della sua ombra la famiglia meno infelice de’ miei figliuoli! Oh non vivrò io sempre in te, anima immensa, intelligenza completa dell’umanità! — Così pensa il giovane sul sepolcro dell’amico; così si conforta la vecchiaia nel baldanzoso aspetto dei giovani. La giustizia, l’onore, la patria vivono nel mio cuore, e non morranno mai.
La stanchezza mi vinse, dormii alcune ore sullo stesso letto, dove dormiva per sempre Leopardo; e il mio sonno fu profondo e tranquillo come sul seno della madre. La morte veduta così davvicino in simili sembianze, nulla aveva d’orribile, o di schifoso: sembrava un’amica fredda e severa bensì, ma eternamente fedele. Mi destai per porgere gli estremi uffici all’amico, deporlo nel suo ultimo letto, e accompagnarlo per le acque silenziose all’isola di san Michele. Io invidio ai morti veneziani questo postumo viaggio; se un lontano sentore di vita rimane in essi, come pensa l’americano Poe, deve giungere ben soave ai loro sensi assopiti il dolce molleggiar della gondola. In quel lido angusto e deserto, popolato soltanto da croci e da uccelli marini, poche palate di terra mi divisero per sempre da quelle spoglie dilette. Non piansi, tanto era impietrato di dentro come l’Ugolino di Dante; tornai colla stessa gondola che avea condotto la bara, e il vivo che tornava non era allora più vivo del morto ch’era rimasto.
Rientrato in Venezia osservai un andirivieni di curiosità fra la gente del volgo, e un movimento maggiore del consueto nella guarnigione francese. Udii da taluno che erano giunti i commissari imperiali per disporre la cerimonia della consegna; li avevano veduti entrare al palazzo del Governo, e il popolo s’affollava per vederli ripassare. Non so per qual ragione mi fermai, ma credo che cercassi alla peggio un nuovo dolore che mi distraesse dal mio sbalordimento. Indi a poco i commissari uscirono infatti, con grande scalpore di sciabole e pompa di piume. Ridevano e parlavano forte cogli ufficiali francesi che gli accompagnavano; così scherzando e ridendo s’imbarcarono in una peota, fatta loro addobbare sontuosamente da Serrurier per ricondurli al campo. Uno solo si divise dai compagni per restare a Venezia; ed era nientemeno che il signore di Venchieredo. Mezz’ora dopo lo vidi ripassare in piazza a braccetto del padre Pendola, ma non aveva più nè sciabola nè piume, vestiva un abito nero alla francese. Raimondo e il Partistagno, ch’io vedeva allora a Venezia per la prima volta, li seguivano con un’aria di trionfo; l’accostarsi di quest’ultimo a simil razza di gente mi spiacque non poco; non tanto per lui quanto perchè era indizio del gran frutto che i furbi sapevan trarre dalla pieghevole natura degli ignoranti. La lama non pensa, ma è tuttavia strumento micidiale in un pugno ben sperimentato. Finii collo scappare a casa, perchè sentiva di non poter reggere più a lungo; e vi confesso che in quel momento era inetto affatto a qualunque forte deliberazione. Per quanto avessi udito bisbigliare di arresti, di condanne e di proscrizioni non mi poteva decidere a muovermi di colà. Era caduto in quello spensierato abbattimento, nel quale ci mancano i nervi e la volontà per saltare dalla finestra; ma un fulmine che ci colpisse, una trave caduta giù sul capo, parrebbe un regalo del cielo. Allora soltanto mi risovvenne di quelle carte appartenenti a mia madre le quali io doveva trovare nello scrittoio; misera eredità d’una sventurata ad un orfano più sventurato ancora. Apersi trepidando il cassetto, e slegata una vecchia busta di cartone, mi misi a rovistare alcuni fogli polverosi e giallognoli che vi si contenevano.
Scorsi prima alcune lettere amorose più o meno invenezianate, e cosperse di errori ortografici. Erano d’un nobiluomo forse morto da gran tempo, e seppellito coi fantasmi de’ suoi amori; non appariva il nome, ma la nobiltà del suo casato era accertata da molti passi sparsi qua e là in quella lunga corrispondenza. Potrei darne qualche saggio, per mostrar la maniera con cui si faceva all’amore colle zitelle alla metà del secolo passato. Pare che le questioni importanti non si trattassero in iscritto; invece l’amante si dava gran cura di mettere in mostra le proprie belle qualità, e di descrivere le impressioni avute dalle buone grazie della bella in varie circostanze. Il frasario non era troppo squisito; ma quanto mancava di squisitezza si compensava coll’ardenza; sopratutto poi si diffondeva un incanto di buona fede, di calma, di bontà, che adesso è relegato nelle letterine che i collegiali scrivono ai parenti per le feste di Natale. Tuttavia, potete crederlo, che quella lettura non mi si affaceva molto in quel giorno con quell’umore. Passai oltre. Altre lettere di maestri e d’amiche di convento, più scipite delle prime. Andai innanzi ancora. Successe il completo epistolario erotico di mio padre. C’era del balzano assai; ma egli pareva innamorato quanto mai lo può essere uomo al mondo; e l’ultimo suo biglietto stabiliva il giorno e l’ora di quella fuga, che aveva condotto i miei genitori a concepirmi in Levante.
Come corollario a quelle lettere, trovai un libricciuolo di memorie tutte di pugno di mia madre, datate da molte città del Levante e dell’Asia Minore. Lì cominciava la storia. La felicità di mia madre avea durato fino a metà del tragitto. Le burrasche e il mal di mare pel resto del viaggio, la miseria e gli alterchi nei primi loro pellegrinaggi, in seguito le malattie, gli strapazzi e perfino la fame, le aveano smorzato d’assai quel primo incendio d’amore. Tuttavia non si stancava dal seguir suo marito, dal sopportare pazientemente le sue stranezze, la sua indifferenza, e sopratutto le sue gelosie che parevano assai strane. Egli restava assente delle settimane intere dai luoghi ove collocava la moglie, e questa rimaneva affidata a qualche povera famiglia di turchi, ove le conveniva fare da fantesca e da guattera per guadagnarsi il vitto. Mio padre girava intanto per gli harem e pei chioschi dei ricchi mussulmani commerciando di spilloni, di specchietti e d’altri ninnoli ch’ei sapeva vendere a prezzi incredibili; così almeno affermava mia madre ridotta allo stremo di tutto. Un bel giorno sembra che le gelosie ricominciassero più violente che mai a proposito della sua gravidanza. L’accusato era un brioso fellah delle vicinanze; mia madre scriveva roba di fuoco intorno a questa ingiustizia del marito; sembrva ch'ella sospettasse in lui un sistema premeditato per annoiarla di quella vita, per finirla affatto o per isforzarla a fuggire. Allora la sua superbia cominciò a raddrizzarsi: da quei lamenti, da quelle disperazioni tornava a trapelare la nobildonna offesa nell’onore; l’animo suo s’esasperava sempre più in quelle noterelle buttate giù sulla carta, giorno per giorno, con mano rabbiosa; finalmente si giungeva ad una pagina vuota dove null’altro era scritto senonchè queste parole: «Ho deciso!»
Così terminavano quelle memorie; ma le completava una lettera scritta da essa medesima a mio padre, dappoichè la ebbe deciso. Non posso fare a meno di riportare quelle poche righe, le quali serviranno a profilar meglio l’indole di mia madre. Ahimè! perchè non posso io parlarne più a lungo?.... Perchè l’amore di figlio non ebbe nella mia vita che un barlume lontano di confuse memorie ove posarsi? Tale è la sorte degli orfani. Ad ottant’anni dura ancora il rammarico di non poter contemplare nel memore pensiero l’immagine della madre. Le labbra, che non ricordano il sapore de’ suoi baci, inaridiscono più presto al fiato maligno dell’aria mondana. «Marito mio! (così cominciava lo scritto ov’ella prendeva commiato da mio padre per sempre) Io volli amarvi, io volli fidarmi a voi, io volli seguirvi fino in capo al mondo contro l’opinione de’ miei parenti, i quali mi vi dipingevano come un birbante senza cuore e senza cervello. Ho avuto ragione o torto? Lo saprà la vostra coscienza. Io per me so che non debbo sopportare più a lungo sospetti che mi disonorano, e che la creatura di cui ho già fecondo il grembo non deve imporsi per forza ad un padre che la rifiuta. Io fui una donna frivola e vanitosa; l’amor vostro mi fece pagar cari questi miei difetti. Io mi rassegno di buon grado a fame una più ampia penitenza. In tutta me non ho che venti ducati; farò il possibile di tornare a Venezia ove troverò per giunta la vergogna e il disprezzo. Ma consegnata la creatura ai suoi parenti, che non avranno cuore di respingerla. Dio faccia pure di me quello che vuole! Voi starete assente otto giorni ancora; tornando non mi troverete più. Di questo sono sicura. Ogni altra cosa sta nelle mani di Dio!»
La lettera portava la data di Bagdad. Da Bagdad a Venezia, per quattromila miglia di deserto e di mare, in una stagione soffocante, con poca conoscenza della lingua, colla persona affranta dall’inedia e dalla passione, rividi col pensiero la povera mia madre. Partiva con venti ducati in tasca dalla casa d’un marito sospettoso e brutale; s’avviava, attraverso un viaggio pieno di pericoli e di fatiche, alle repulse, alla vergogna che l’attendevano nella sua patria. Moglie affettuosa e sacrificata sarebbe confusa colle donne di partito, e buon per lei se taluno fosse tanto generoso tra’ suoi parenti da raccogliere d’in sul lastrico il suo figliuolo!.... Ohimè! ed era per cagion mia che ella avea sofferto tanto vituperio, sfidato tanti patimenti! Sentiva quasi il rimorso d’esser nato; sentiva che una lunghissima vita tutta consacrata a consolare, a far beata quell’anima santa avrebbe appena bastato ad appagare il mio cuore; ed io non aveva nè contemplato il suo volto, nè sorriso ai suoi sguardi, nè succhiato un gocciolo solo del suo latte!.... L’aveva menata colla mia nascita sulla via della perdizione; là l’aveva abbandonata senza ajuto, senza conforto. Io detestava quasi mio padre; ringraziava Dio ch’egli fosse partito, e che un grande spazio di tempo dovesse trascorrere tra la lettura di quei fogli e il primo istante che l’avrei riveduto! Altrimenti non prevedeva qual poteva esser la fine nella battaglia de’ miei affetti. Qualche bestemmia, qualche maledizione mi sarebbe sfuggita dalle labbra.
Oh se piansi quel giorno!... Oh come colsi premuroso quello sfogo non solo concesso ma sacro e generoso dell’affetto filiale, per alleggerire colle lagrime il peso infinito de’ miei dolori!... Come si univano misteriosamente, nell’angoscia che mi riboccava dal cuore in urli e in singhiozzi, e la patria venduta, e l’amico volontariamente morto, e l’amante infedele e spergiura, e l’ombra della madre impressa ancora il volto dei patimenti della sua vita!... Oh come mi scagliava furibondo e terribile contro coloro che avevano cercato d’infamare la memoria di questa benedetta, e allontanarmi dal rispetto della buona anima sua con sacrileghe calunnie!... Sì, io voleva che fossero calunnie ad ogni costo: son sempre calunnie le accuse ai poveri morti, le accuse senza esame e senza pudore scagliate contro una tomba. Chi credeva vogliosamente, e aggravava pur anco le colpe di mia madre, sapeva egli con i suoi sacrifizii, le torture, le lagrime, il lungo martirio che avea forse estenuato le sue forze, e travolta la ragione?... Io mi straziava il petto colle unghie, e mi strappava i capelli per non poter sorgere a vendetta di que’ codardi improperi; il silenzio da me tenuto durante l’infanzia appetto a quei furtivi detrattori mi rimordeva come un delitto. Perchè non m’era io alzato a svergognarli con tutto il coraggio dell’innocenza, e la veemenza d’un figlio che si sente insultato nella memoria della madre? Perchè i miei piccoli occhi non aveano lampeggiato di sdegno, e il cuore non avea rifuggito dall’accettare la compassione di coloro, che mi faceano pagare a prezzo d’infamia un tozzo di pane ed un cantuccio d’ospitalità? — Mi salivano al volto le fiamme della vergogna; avrei dato tutto il mio sangue tutta la mia vita per riavere uno di quei giorni, e vendicarmi da una si disonorevole servitù. Ma non era più tempo. Mi avevano inoculato, si può dire col latte, la pazienza, il timore e aggiungerei quasi l’impostura, i tre peccati capitali degli accattoni. Era cresciuto buono buono buono; il mio temperamento, rammollito dalla soggezione, non cercava che pretesti per piegarsi, e padroni per obbedire. Allora conobbi tutti i pericoli di quel lasciarsi correre a seconda delle opinioni, e degli affetti altrui; mi proposi per la prima volta di esser io, null’altro che io. Ci son riuscito in un cotale proponimento? A volte sì, ma più spesso anche no. La ragione non è li sempre apparecchiata a tirare in senso contrario all’istinto; talvolta complice ignara, talvolta anche maliziosamente ella usa mettersi dal lato del più forte: allora ci crediamo forti e commettiamo delle viltà, tanto più spregevoli quanto più ignorate e sicure dalla disistima del mondo. Non c’è scampo, o speranza. Nell’indole del fanciulletto sta racchiuso il compendio, il tema della vita intera: onde io non mi stancherò mai di ripetere. O anime rettrici dei popoli, o menti fiduciose nel futuro, o cuori accesi d’amore, di fede, di speranza, volgetevi all’innocenza, abbiate cura dei fanciulli! — Li stanno la fede, l’umanità, la patria.
L’inventario dell’eredità materna era bell’e terminato; ma tra l’ultima lettera di mia madre e il cartone della busta trovai un foglio con alcune righe scritte a vederle di fresco. Infatti portavano la data di due giorni prima, ed erano di mano di mio padre. Non vi posso nascondere che le guardai quasi con ribrezzo, e pareva che m’abbruciassero le dita. Peraltro quando mi fui calmato lessi quanto segue:
«Figliuolo mio. Tutto ciò che hai letto di tua madre io poteva celartelo per sempre; ringraziami di averla rialzata nella tua stima, a scapito anche di quella che io avessi potuto inspirarti. Ho veduto che hai bisogno di conforti, e ho voluto lasciartene uno a costo di pagarne salata la spesa, io ho sposato tua madre per amore; questo non posso negarlo; ma io credo che non fossi fatto per questa sorta di passioni, e così l’amore mio svampò troppo presto dal capo. La mia partenza pel Levante, le mie fatiche, i miei viaggi colà miravano a un altissimo scopo; in poche parole voleva far dei milioni, e lo scopo lo avrei raggiunto in seguito. Ti confesso che una moglie mi impacciava non poco. Mi si guastò l’umore; la crudeltà con cui io tiranneggiava me stesso riducendo i miei bisogni allo strettissimo necessario, fu creduta da essa una maniera trovata apposta per martoriarla. Le mie continue lontananze, e le preoccupazioni di quel grande disegno che mi frullava sempre in capo, davano motivo ad alterchi, a risse continue. Ella finì col trovarsi ottimamente in qualunque compagnia turca rinnegata che non fosse la mia. Sovente, tornando a casa, io udiva le sue stridule risate veneziane che echeggiavano dietro le persiane; la mia presenza rimenava la stizza, le sgrugnate, le lagrime. Sopratutto al fianco di quel tal Fellah mia moglie dimenticava assai facilmente il marito burbero e lontano.
Allora intervenne a me quello che spesso succede nei temperamenti nè troppo generosi nè abbastanza sinceri. Divenni geloso; ma forse in fondo in fondo mi accorgeva che la gelosia era un appiglio, per dar tanta noja a mia moglie ch’ella fosse costretta ad abbandonarmi. Ti giuro ch’io aspettava con impazienza da parte sua una qualche scena di disperazione, e una domanda assoluta di tornare a Venezia. Ma era ben lontano dal temere una fuga. Ella era paurosa, delicata, e piuttosto portata a parlare che a fare. La sua improvvisa partenza mi sorprese e mi accorò non poco; ma io era allora in Persia, non tornai che un mese dopo quando non m’era possibile neppur tentare di raggiungerla. Fitto più che mai il capo nella mia impresa d’arricchire, tutti i pensieri che me ne stornavano li riguardava come tanti nemici; tu saprai già, oppure ti sarà facile comprendere quello stato dell’animo nostro, nel quale si propende a creder vero ed ottimo ciò che piace; e a forza di abitudine lo si crede infatti. Per attutare i rimorsi che m’inquietavano, io mi persuasi che la mia gelosia non era senza un buon motivo. M’accostumai sì bene a questa comoda opinione, che non mi diedi più pensiero nè di essa nè di ciò che fosse nato da lei.
Seppi che bene o male l’era giunta a Venezia; e contento di ciò, e d’esser finalmente libero da un legame che mi importunava, mi diedi a tutt’uomo e con maggior pertinacia ai miei negozii. Solo tornando in patria coi sognati milioni già coniati in bei zecchini e in grossi dobloni mediante la mia costanza, io ebbi il tempo di pescare per ozio nelle carte lasciatemi da tua madre. Una navigazione di quarantadue giorni mi diede comodità di meditarvi sopra a lungo. Perciò sbarcato a Venezia ti rividi con discreto piacere; e i sospetti concepiti intorno alla tua nascita s’andarono dileguando. Ma cosa vuoi? ci riesciva a stento. Sentiva di darmi la zappa sui piedi, e di fare come quei corbelli, che dopo aver celato un delitto per vent’anni corrono a confessarlo al giudice per farsi appiccare. Mi maraviglio e mi maraviglierò sempre che la mia morale levantina abbiami consentito questo dannoso pentimento. Gli è vero che coi Turchi e cogli Armeni io era avvezzo a trattare come colle bestie; e a mercanteggiarli ed assassinarli senza scrupolo; ma non aveva messo mai le unghie in carne cristiana, e tua madre, vivaddio! checché ne dica sua sorella contessa, era cristiana più di alcuno fra noi.
Fors’anco l’interesse mi conduceva a ravvedermi di quegli ingiusti sospetti. La risurrezione di casa Altoviti s'era assorellata poco a poco nella mia mente alla risurrezione di Venezia; e sperai, come si dice, di prendere due colombi ad una fava. Io mi era adoperato assai a Costantinopoli per volgere i Turchi a romperla colla Sacra Alleanza, e divertirne le forze dalla Germania e dall’Italia. Riuscito se non altro a tenergli in bilico, aveva qualche merito presso i Francesi, creduti allora così alla lontana i rinnovatori del mondo. Col favor dei Francesi, coll’aiuto dei cospiratori interni che facevano capo a me nelle loro mene d’Oriente, colla mia perspicacia, coi miei milioni sperava di adoperare in modo, che un giorno o l’altro sarebbero state in mia balìa le sorti della Repubblica. Ti spaventi? — Eppure ci mancò poco; mancò solamente la Repubblica. Soltanto che io scopersi di essere un po’ vecchio: e qui potrei farmi un merito!... Potrei dire che l’essermi confessato vecchio appena mi scontrai con te, fu un buon movimento dell’animo che m’induceva a rappezzare i torti commessi. Comunque la sia, lascio volentieri in ombra questi profondi motivi delle mie azioni, che balenano appena in quel barlume di coscienza che m’è rimasto; e non mi faccio bello di virtù piuttosto dubbie che certe. Io ti vidi, ti abbracciai, ti tolsi per mio vero e legittimo figliuolo, ti amai col maggiore amore che aveva, e collocai in te ogni mia ambizione. La tua domestichezza aggiunse forza e dolcezza a tali sentimenti, e con questo che ora ti scrivo sembrami darti una prova che sono tuo padre davvero.
In procinto di tornare alla mia vita avventurosa e piena di pericoli, per inseguire ancora quel fantasma, che mi è sfuggito quando appunto credeva di averlo fra le braccia, sul momento d’imbarcarmi per una spedizione che potrebbe finire colla morte, non volli tacere un ette di quanto riguarda i nostri legami di sangue. Ho una gran vendetta da compiere, e la tenterò con tutti quei mezzi che la fortuna mi consente: ma tu sei ancora a parte delle mie speranze, e compito quel grande atto di giustizia, a te s’aspetterà di raccoglierne l’onore ed il frutto. Per questo volli che tu rimanessi, oltrechè per le altre ragioni che ti espressi a voce. Bisogna che tu stia sotto gli occhi de’ tuoi concittadini, per accaparrartene l’affetto e la stima. Rimani, rimani, figliuol mio! Il fuoco della gioventù serpeggia nella gente da Venezia a Napoli; chi pensa di valersene, per far carbone a proprio profitto, potrebbe da ultimo trovare un qualche intoppo. Così almeno io confido che sarà. Se a me stesse designarti un posto, sceglierei Ancona o Milano; ma tu sarai giudice migliore secondo le circostanze. Intanto hai saggiato a prova questi ciarloni Francesi; volgi contro di essi le loro arti; usane a tuo vantaggio, com’essi abusarono di noi a loro solo giovamento. Pensa sempre a Venezia, pensa a Venezia, dove erano i Veneziani che comandavano.
Ora nulla ti è nascosto, puoi giudicarmi, come meglio ti aggrada, perchè se non ti ho fatto colla mia bocca questa confessione, fu solamente a cagione dell’esser io il padre e tu il figliuolo. Non voleva difendermi, voleva raccontare: vedi anzi che ho filosofato più del bisogno, per chiarire la parte così ai buoni come ai cattivi sentimenti. Giudicami adunque, ma tien conto della mia sincerità, e non dimenticare che se tua madre fosse al mondo, ella godrebbe di vederti amoroso ed indulgente figliuolo.»
Scorsa questa lunga lettera, tanto diversa dalla consueta cupezza di mio padre, e nella quale l’indole di lui si scopriva intieramente colle sue buone doti, coi suoi molti difetti, e col singolare acume del suo ingegno, rimasi qualche tempo soprappensiero. Ebbi finalmente la buona ispirazione di sollevarmi anch’io all’altezza delle cose sante ed eterne; là trovai scolpito a caratteri indelebili quel comandamento che è proprio degno di Dio. «Onora tuo padre e tua madre.» Questo duplice affetto non può separarsi; e l’onorare mia madre implicava in sè di perdonare a colui, al quale certo ella avrebbe perdonato vedendolo compunto e pentito del suo tristo ed obliquo operare. Per giunta debbo io confessarlo?... Quel temperamento duro e selvaggio, ma tenace ed intero di mio padre, esercitava sul mio una certa violenza: i piccoli sono sempre disposti ad ammirare i grandi; quando poi li spinga il dovere, l’ammirazione loro trascende ogni misura. Pensai, pensai; e resi spontaneamente tutto il mio cuore a quel solo che me lo chiedeva col sacro diritto del sangue. Quali fossero quei nuovi disegni che lo richiamavano in Levante, non mi venne fatto neppure d’immaginarmeli. In complesso mi fidava di lui, aspettandomi di vedere quandochessia qualche cosa di grande; e benchè egli rimanesse ingannato come noi dalle stesse illusioni, lo reputava tanto superiore per larghezza di vedute, e tenacia e forza di volontà, che non avrei saputo figurarmelo illuso e sconfitto per la seconda volta. Allora ero giovine; neppure il dolore mi rintuzzava la speranza, e questa si facea strada dovunque in mezzo agli sconforti ai timori alle angoscie dell’animo.
Così tornato alquanto in me da quell’utile esercizio interiore, desinai d’un pezzo di pane trovato sopra un armadio; e uscii a notte fatta per cercare di Agostino Frumier se egli era ancora a Venezia, e concertarmi con lui sulla nostra partenza. La verità si era che una cura più profonda e vergognosa di parlare in nome proprio, metteva innanzi cotale pretesto di dilazione: tanto è vero che avviato a casa Frumier mi sviai senza avvedermene fino al Campo di Santa Maria Zobenigo dove sorgeva il palazzo Navagero. E là giunto me ne pentii, ma non potei fare che non mi fermassi a spiare tutte le finestre, e che non scendessi anche sul traghetto per guardare il palazzo dalla parte del Canal Grande. Le impannate erano chiuse dappertutto, e non potei neppure indovinare se vi fosse lume o buio negli appartamenti. Mogio, mogio, colle orecchie basse mi volsi di malavoglia a casa Frumier, ove mi fu detto che Sua Eccellenza Agostino era in campagna. La settimana prima un servo non si sarebbe arrischiato di pronunciare a voce alta quel titolo; ma la nobiltà tornava a far capolino: io non me ne incaricai gran fatto; solo mi dispiacque quel subitaneo girellismo, e in seguito ebbi poi tempo di avvezzarmi anche a questo.
— In campagna! — io sclamai con una buona dose d’incredulità.
— Sì, in campagna dalla banda di Treviso — rispose il servo; — e lasciò detto che tornerà la settimana ventura.
— E il nobiluomo Alfonso? — richiesi io.
— Egli è a letto da due ore. —
— E il signor Senatore.... —
— Dorme; dormono tutti!... —
— Buona notte! — io conclusi. — E colla stessa parola misi in pace tutti i pensieri, tutte le paure che mi venivano spunzecchiando pel capo. La parte maggiore, la più civile ed assennata del patriziato veneziano, avrebbe finto di dormire: gli altri!.... Dio me ne liberi!... Non volli pensare a distribuir le parti. — Quello che è certo si è che la settimana seguente, allo stabilirsi del governo imperiale in Venezia, Francesco Pesaro, l’incrollabile cittadino, l’innamorato degli Svizzeri, l’Attilio Regolo della scaduta Repubblica, riceveva i giuramenti. Lo noto qui, perché almeno i nomi non facciano velame alle cose. Seguitai intanto a passeggiare al chiaro di luna. Pattuglie d’arsenalotti, di guardie municipali e di soldati francesi s’incontravano gomito a gomito nelle calli; si schivavano come appestati e andavano pei fatti loro. Il fatto dei Francesi era d’imbarcare quanto più potevano delle dovizie Veneziane, sul naviglio che dovea veleggiare verso Tolone. I capi per consolarci dicevano: « State quieti! È una mossa strategica! Torneremo presto! » — Intanto per tutto quello che non poteva succedere ci conciavano di sorte, che a pochi dovea rimanere il desiderio del loro ritorno. Il popolo tradito, ingiuriato, spogliato a man salva, s’intanava nelle case a piangere, nei templi a pregare, e dove prima pregavano Dio di tener lontano il diavolo, lo supplicavano allora di mandar al diavolo i Francesi. Gli animi volgari si piegano arrendevoli alla tolleranza del minor male; né bisogna aspettarsi di più da chi sente prima di pensare. Dei beni perduti si sperava almeno di racquistarne alcuno: la lbertà è preziosa, ma pel popolo bracciante anche la sicurezza del lavoro, anche la pace e l’abbondanza non sono cose da buttarsi via. È un difetto grave negli uomini di pretendere le uguali opinioni da un grado diverso di coltura; come è errore massiccio e ruinoso nei politici appoggiare sopra questa manchevole pretensione le loro trame, i loro ordinamenti.
Dai Frumier passai a cercare degli Apostulos, perché la solitudine mi spingeva sulla strada delle deliberazioni, ed io non aveva questa gran voglia di deliberare. Là io trovai abbastanza da perdere un paio d’ore; scommetto di più che non mi sarei figurato giammai di perderle con tanto piacere. Il vecchio banchiere greco stava ancora nello studio; d’intorno ad una bragiera alla spagnuola sedevano la sua vecchia moglie, una vera figura matronale con un bel paio d’occhiali sul naso, e il leggendario dei santi aperto sui ginocchi; una vaga fanciulla vestita di bruni colori, tutta leggiadra, tutta greca dalle radici dei capelli fino ai petulanti coturni mainotti, e questa ricamava un paramento da altare: finalmente il simpatico Spiro che si guardava le unghie. Questi due ultimi balzarono in piedi alla mia venuta, e la vecchia mi guardò dignitosamente di sopra agli occhiali. Qui il giovane mi presentò, secondo il convenevole, alla signora madre, e a sua sorella Aglaura, ed io entrai quarto nel colloquio. Una conversazione di greci non ci starebbe senza quattro dita di pipa; a me ne offersero una che andava fuori della stanza, e siccome dopo il mio accasamento a Venezia ci aveva studiato sopra anche a quest’arte importantissima del vivere moderno, così me la cavai senza sfigurare. Avevo però tutt’altra voglia che di fumo, e la distrazione mi mandò a traverso dei polmoni parecchie boccate.
— Che vi pare di Venezia? cosa avete fatto di bello quest’oggi? — mi domandò Spiro per intavolare il discorso in qualche maniera.
— Venezia mi pare un sepolcro dove ci frugano i becchini per ispogliare un cadavere; — gli risposi io. — E per dirgli quello che avea fatto gli narrai d’un mio amico che era morto, e degli ultimi dolorosi ufficii ch’io avea dovuto prestargli.
— Ne ho udito parlare in piazza, — soggiunse Spiro, — e lo dicevano avvelenato per disperazione patriottica.
— Certo, aveva animo da disperarsi così altamente, — ripresi io senza assentire direttamente.
— Ma credete voi che siano atti di vero coraggio questi? — mi richiese egli.
— Non so; — soggiunsi io. — Quelli che non si ammazzano dicono che non è coraggio; ma torna loro conto il dirlo; e d’altra parte non hanno mai provato. Io per me credo, che tanto a vivere fortemente, come a morire per propria volontà, faccia d’uopo una bella armatura di coraggio.
— Sarà anche coraggio, — riprese Spiro — ma è un coraggio cieco e male avveduto. Per me il vero coraggio è quello che ragiona sull’utilità dei proprii sacrifizi. Per esempio non chiamo coraggio il cader d’una pietra dall’alto della montagna che poi si spacca in frantumi nel fondo della valle. È ubbidienza alle leggi fisiche, è necessità.
— Sicchè voi credete che chi si toglie di vita pieghi servilmente sotto la necessità fisica che lo abbatte?
— Non so s’io creda questo; ma ritengo peraltro che non sia veramente forte e coraggioso quell’uomo che si uccide indarno oggi, mentre potrebbe sacrificarsi utilmente domani. Quando tutto il genere umano sia libero e felice, allora sarà incontrastabile eroismo il togliersi di vita. Potreste citarmi l’unico caso di Sardanapalo, ed anco vi risponderei che Camillo fu più forte, più animoso di Sardanapalo. —
La vecchia aveva chiuso il leggendario, e la bruna Aglaura ascoltava le parole di suo fratello guardandolo di sbieco e colla mano posata sul ricamo. Io adocchiava di sottecchi la giovinetta perchè mi stuzzicava la curiosità quest’attitudine risoluta e sdegnosa: ma la mamma s’intromise allora a stornare il dialogo da quel soggetto di tragedia, e l’Aglaura tornò tranquillamente a passare e ripassare in un bel panno pavonazzo la sua agucchiata di seta. Parlammo allora delle novelle che andavano per le bocche di tutti, del prossimo sgombro dei Francesi, dell’ingresso in Venezia degli Imperiali, della pace gloriosamente sperata, e dispoticamente imposta; insomma si parlò di tutto, e le due donne si mescolavano al discorso senza vanità e senza sciocchezze; proprio con quella discrezione ben avveduta che sanno tenere di rado le veneziane, peggio poi allora che adesso. L’Aglaura sembrava accanitissima contro i Francesi, e non si lasciava scappar l’occasione di chiamarli assassini, spergiuri, e mercanti di carne umana. Ma seppi in seguito che la fuga del suo amante, a cagione del nuovo ordinamento che dovea prendere lo Stato pel trattato di Campo-Formio, scaldava il sangue greco nelle sue vene giovanili, e la faceva trascendere in qualche schiamazzata. Il giorno prima ell’era stata in procinto di ammazzarsi, e suo fratello avea impedito questo atto violento gettandole in canale un’ampolletta d’arsenico già bell’e preparato: perciò lo guardava in cagnesco; ma dentro di sè, fors’anco a riguardo della madre, non era malcontenta che l’avesse trattenuta. E così, se maturava ancora fieri propositi pel capo, quello almeno di uccidersi non la molestava più.
Quando fu mezzanotte io presi commiato dagli Apostulos, e tornai verso casa rivolgendo in capo e Spiro e l’Aglaura, e il leggendario dei santi; tutto insomma, meno la deliberazione che pur doveva prendere quanto alla mia sorte futura. Scrissi intanto a coloro che esulavano in Toscana e nella Cisalpina il terribile caso di Leopardo, che mi scusasse della tardanza. Quando anni dopo lessi le Ultime Lettere di Iacopo Ortis, nessuno mi sconficcò dal capo l’opinione, che Ugo Foscolo avesse preso dalla storia luttuosa del mio amico qualche colore, qualche disegno fors’anco del cupo suo quadro. Del resto mi sovviene che in quella notte mi sognai più della Pisana che di Leopardo; e ciò serva a smascherare l’astuzia.