Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Cap. XVIII | Cap. XX | ► |
CAPITOLO DECIMONONO.
Come i mugnaj e le contesse mi proteggessero nel 1805. — Io perdono alcuno de’ suoi torti a Napoleone, quand’egli unisce Venezia al Regno d’Italia. — Tarda penitenza d’un vecchio peccato veniale, per la quale vo in fil di morte; ma la Pisana mi risuscita e mi mena secolei in Friuli. — Divento marito, organista e castaldo. — Intanto i vecchi attori scompaiono dalla scena. Napoleone cade due volte, e gli anni fuggono muti ed avviliti fino al 1820.
Lucilio s’era rifugiato a Londra; egli aveva amici dappertutto e d’altra parte per un medico come lui tutto il mondo è paese. La Pisana mi avea sempre tenuto a bada colle sue promesse di venirmi a raggiungere: allora poi, dopo abbandonato l’ufficio, non avea nemmen coraggio di chiamarla a dividere la mia povertà. A Spiro e all’Aglaura sdegnava ricorrere per danari; essi mi mandavano puntualmente i miei trecento ducati ad ogni Natale; ma ne avea erogato due annualità in pagamento dei debiti lasciati a Ferrara, e di quelli non poteva giovarmi. Rimasi adunque per la prima volta in vita mia senza tetto e senza pane, e con pochissima abilità per procurarmene. Volgeva in capo mille diversi progetti, per ognuno dei quali ci voleva qualche bel gruppetto di scudi; non foss’altro per incominciare; e così di scudi non avendone più che una dozzina, mi accontentava dei progetti e tirava innanzi. Ogni giorno mi studiava di vivere con meno. Credo che l’ultimo scudo lo avrei fatto durare un secolo, se il giorno della partenza di Napoleone per la Germania non me lo avesse rubato uno di quei famosi borsaiuoli che si esercitano, per pia consuetudine, nelle contrade di Milano. L’Imperatore s’era fatto grasso, e s’avviava allora alla vittoria di Austerlitz; io me lo ricordava magro e risplendente ancora delle glorie d’Arcole e di Rivoli; per diana, che non avrei dato il Caporalino per Sua Maestà. Vedendolo partire fra un popolo accalcato e plaudente, io mi ricordo di aver pianto di rabbia. Ma erano lagrime generose, delle quali vado superbo. Pensava fra me: — Oh che non farei io se fossi in quell’uomo! — e questo pensiero e l’idea delle grandi cose che avrei operato, mi commovevano tanto. Infatti era egli allora all’apice della sua potenza. Tornava dall’aver fatto rintronare de’ suoi ruggiti le caverne d’Albione attraverso l’angusto canale della Manica; e minacciare dell’artiglio onnipotente le cervici di due imperatori. La gioventù del genio di Cesare, e la maturità del senno di Augusto, cospiravano ad innalzare la sua fortuna fuor d’ogni umana immaginazione. Era proprio il nuovo Carlomagno, e sapeva di esserlo. Ma anch’io dal mio canto inorgogliva di passargli dinanzi senza piegare il ginocchio. «Sei un gigante ma non un Dio! — gli diceva — io ti ho misurato, e trovai la mia fede più grande di molto e più eccelsa di te!» Per un uomo che credeva d’aver in tasca uno scudo e non aveva neppur quello, ciò non era poco.
Il bello si fu quando si trattò di mangiare; credo che uomo al mondo non si vide mai in peggior imbroglio. Partendo da Bologna e giovandomi della discretezza d’alcuni amici, avea fatto denari d’ogni spillone, d’ogni anello e d’ogni altra cosa che non mi fosse strettamente necessaria. Tuttavia facendo un nuovo inventario seppi trovare molti capi di vestiario che mi sopravanzavano; ne feci un fardello, li portai dal rigattiere, e intascai quattro scudi che mi parvero un milione. Ma l’illusione non durò più che una settimana. Allora cominciai a dare il dente anche negli oggetti bisognevoli; camicie, scarpe, collarini, vestiti, tutto viaggiava dal rigattiere; avevamo fatto tra noi una specie di amicizia. La sua bottega era sul canto della contrada dei Tre Re verso la Posta; io mi vi fermava a far conversazione, andando da casa mia verso Piazza del Duomo.
Alla fine diedi fondo ad ogni mia roba. Per quanto in quel frattempo avessi strologato sulla maniera da cavarmela in un caso tanto urgente, non m’era venuta neppur un’idea. Una mattina avea incontrato il colonnello Giorgi che veniva dal campo di Boulogne, e correva anch’esso in Germania colla speranza d’esser fatto in breve generale.
— Entra nell’amministrazione dell’armata, — mi diss’egli — ti prometto farti ottenere un bel posto, e ti farai ricco in poco tempo.
— Cosa si fa nell’armata? — soggiunsi io.
— Nell’armata si vince tutta l’Europa, si corteggiano le più belle donne del mondo, si buscano delle belle paghe, si fa gran scialo di gloria e si va innanzi.
— Sì, sì; ma per conto di chi si vince l’Europa?
— Vattela a pesca! c’è senso comune a cercarlo?
— Alessandro mio, non entrerò nell’armata, neppur come spazzino.
— Peccato! ed io che sperava far di te qualche cosa!
— Forse non avrei corrisposto, Alessandro! È meglio che concentri tutte le tue cure verso di te. Diventerai generale più presto.
— Ancora due battaglie che mi sbarazzino di due anziani, e lo sono di diritto: le palle dei Russi e dei Tedeschi sono mie alleate, questo è il vero modo di vivere in buona armonia con tutti. Ma dunque tu vuoi proprio tenerci il broncio a noi poveri soldati?
— No, Alessandro; vi ammiro e non son capace d’imitarvi.
— Eh capisco! ci vuole una certa rigidezza di muscoli!... Dimmi, e di Bruto Provedoni hai notizie?
— Ottime si può dire. Vive con una sua sorella di diciotto o diciannove anni, l’Aquilina, te ne ricordi? le fa da papà, le viene accumulando un po’ di dote, e si guadagna la vita col dar lezioni in paese. Ultimamente coll’eredità di suo fratello Grifone, ch’è morto a Lubiana per una caduta da un tetto, egli comperò dagli altri fratelli la casa a nome proprio e della sorella. Così si liberò anche dalla noja di vivacchiare stentatamente insieme ad altri inquilini cenciosi e pettegoli. Credo che se potesse accasare decentemente l’Aquilina, non sarebbe uomo più beato di lui.
— Vedi come siamo noi soldati?... Restiamo felici anche senza gambe!
— Bravo, Alessandro: ma io non voglio perder le gambe per nulla. Son capitali che bisogna investirli bene o tenerseli.
— E dici nulla tu, in otto anni al più diventar generale! Non è un bell’interesse?
— Sì; ma a me garba meglio restar con questo vestito e colla mia miseria.
— Dunque non posso ajutarti in nulla? Io! che potrei servirti d’una trentina di scudi; non più, vedi, perchè non sono il soldato più sparagnino, e tra il giuoco, le donne e che so io, la paga se ne va... Ma ora che ci penso; t’adatteresti anche a pigliar servizio nel civile? —
Il buon colonnello non vedeva nulla fuori dell’armata; egli avea già dimenticato che un quarto d’ora prima gli avea raccontato tutta la mia carriera nelle finanze, e la mia dimissione volontaria dal posto d’intendente. Fors’anco supponeva che le Finanze non fossero altro che uffici suppletorii all’esercito, per provvederlo di vitto, di vestito e del convenevole peculio per sostenere gli assalti del faraone e della bassetta. Alla mia risposta, che mi sarei accontentato d’ogni impiego che non fosse pubblico, egli fece col viso un certo atto, come di chi è costretto a togliere ad alcuno buona parte della sua stima: tuttavia non ne rimase affievolita per nulla la sua insigne bontà.
— A Milano ho una padrona di casa, — egli soggiunse.
— Sì, come l’avevi anche a Genova?
— Eh! Tutt’altro! Quella era spilorcia come uno speziale, questa invece splendida più d’un ministro. A quella ho dovuto rubare il gatto, e da questa, se volessi, potrei farmi regalare un diamante al giorno. È una riccona sfondata, che ha corso il mondo a’ suoi tempi, ma ora dopo una vistosa eredità s’è rimessa in regola, ed ha voce di compita signora: non più colla lanugine del pesco sulle guance, ma vezzosa ancora e leggiadra al bisogno; massime poi in teatro quand’è un po’ animata. Figurati, essa mi ha preso a volere un bene spropositato, ed ogni volta che passo per Milano mi vuole presso di sè: mi ha perfin detto in segreto, che se avesse vent’anni invece di trenta vorrebbe partir con me per la guerra.
— E che c’entra questa signora con me?
— Che c’entra? diavolo! tutto! Essa ha molte relazioni ben in alto; e ti raccomanderà validamente per quel posto che vorrai. Se poi ti quadra meglio un ministero privato, credo che la sua amministrazione sia abbastanza vasta per offrir impiego anche a te.
— Ricordati che io non voglio rubar il pane a nessuno; e che se lo mangio, intendo anche guadagnarmelo colle mie fatiche.
— Eh! sta pur cheto che non avrai scrupoli da questo lato. Tu credi forse che sia come nelle nostre fattorie del Friuli, dov’è comune la storia che il fattore si fa ricco a spalle del padrone tenendo le mani alla cintola! Eh, amico: a Milano se ne intendono! Pagano bene, ma vogliono esser serviti meglio: il ragioniere s’ingrasserà, ma il padrone non vuol diventar magro per questo. Lo so io come vanno le faccende! —
Questo disegno non mi sconveniva punto; e benchè non avessi una fede cieca nelle onnipotenti raccomandazioni e nella splendida padrona del buon colonnello, pure accortomi che solo non era buono a nulla, mi tenni contento di provar l’ajuto degli altri. Tornai a casa a spazzolarmi l’abito, per la presentazione che dovea succedere l’indomani. Anch’io ricorsi alla splendidezza della mia padrona di casa per un poco di patina da lustrarmi gli stivali, e sciorinai sopra una seggiola l’unica camicia che mi rimaneva, dopo quella che portava addosso. Nel candore di questa mi deliziava gli occhi, consolandoli della sparutezza del resto.
Il mattino appresso venne l’ordinanza del colonnello ad avvertirmi, che la signora aveva accolto benissimo la proposta, ma desiderava ch’io le fossi presentato la sera, essendo quello giorno di gran faccende per lei. Io diedi un’occhiata agli stivali e alla camicia, lamentando quasi di non esser rimasto a letto per conservar loro l’originaria freschezza fino al solenne momento; poi pensando che di sera non vi si abbada tanto pel sottile, e che un ex–intendente doveva possedere ripieghi di vivacità e di coltura da far dimenticare la soverchia modestia del proprio arnese, risposi all’ordinanza che sarei andato a casa del colonnello verso le otto, ed uscii poco stante di casa. Venne il momento della colazione e lo lasciai passare senza palparmi il taschino; fu un’eroica deferenza per l’ora successiva del pranzo. Ma scoccata questa vi misi entro le mani e ne cavai quattro bei soldi, che in tutti facevano, credo, quindici centesimi di franco. Non credeva per verità di esser tanto povero; e la quadratura del circolo mi parve problema molto più facile del pranzo, che io doveva cavare da quella meschina moneta. E si che non era stato intendente per nulla, e di bilanciare le entrate colle spese doveva intendermene più che ogn’altro! — Adunque, senza abbattermi di coraggio provai. — Un soldo di pane, due di salato ed uno d’acquavite per rifocillarmi lo stomaco e prepararlo alla visita della sera. — Per carità! cos’era mai un soldo di pane per uno che non avea toccato cibo da ventiquattr’ore! — Rifeci il conto; due soldi di pane, uno di cacio pecorino, e il solito di racagna. — Poi trovai che quel soldo di cacio era un pregiudizio, un’idea aristocratica per dividere il pranzo in pane ed in companatico. Era meglio addirittura far tre soldi di pane.
E infatti entrai coraggiosamente da un fornajo; comperai il pane e in quattro morsicate fu messo a posto. M’accorsi con qualche sgomento di non sentire una lontana ombra di sete, per cui facendo un torto alla racagna, mi provvidi d’un ultimo panetto e lo misi accanto agli altri. Dopo questo piccolo trattenimento i miei denti restavano ancora molto inquieti, e razzolando le briciole che si erano fuorviate, andavano fra loro dicendo con uno scricchiolio di costernazione: — Che sia finita la festa? — È proprio finita! — risposi io, e si che mi sentiva lo stomaco ancor più spaventato dei denti. — Allora mi presi un lecito trastullo d’immaginazione, che m’avea servito anche molti giorni prima per ingannar l’appetito: feci la rassegna dei miei amici cui avrei potuto chiedere da pranzo, se fossero stati a Milano. L’abate Parini, morto da sei anni e leggero di pranzo anche lui; Lucilio partito per l'estero: Ugo Foscolo professore d’eloquenza a Pavia; de’ miei antichi conoscenti non ne trovava uno: la padrona di casa, dandomi la sera prima la patina, aveva uncinato un certo suo nasaccio che voleva dire: — state indietro con questi brutti scherzi!
Rimaneva il colonnello Giorgi; ma vi confesso che mi vergognava: come anche dubito che mi sarei vergognato di tutti gli altri se fossero stati a Milano, e che sarei morto di fame piuttosto che farmi pagare un caffè e panna da Ugo Foscolo. Ad ogni modo era sempre una consolazione di poter pensare mentre pungeva l’appetito: così esaurito quel passatempo mi trovai più infelice di prima, e peggio poi quando passando per Piazza Mercanti mi avvidi che erano appena le cinque. — «Tre ore ancora!» temeva di non arrivar vivo al momento della visita, o almeno di dovervi fare un’assai affamata figura. Diedi opera a svagarmi con un altro stratagemma. Pensai da quante parti avrei potuto aver prestiti, regali, soccorsi, solo che li avessi desiderati. Mio cognato Spiro, i miei amici di Bologna; i trenta scudi del colonnello Giorgi, il Gran Visir... Per bacco! fosse la fame od altro, o un favore particolare della Provvidenza, quel giorno mi fermai più del solito su quell’idea del Gran Visir. Mi ricordai sul serio di avere nel taccuino il vaglia d’una somma ingente, firmato da un certo geroglifico arabo ch’io non capiva affatto: ma la casa Apostulos aveva molti corrispondenti a Costantinopoli, e qualche autorità sui banchieri armeni che scannavano il Sultano d’allora; corsi a casa senza pensar più all’appetito; scrissi una lettera a Spiro, vi inclusi il vaglia, e la portai allegramente alla Posta.
Ripassando per Piazza Mercanti l’orologio segnava sette e tre quarti; m’avviai dunque verso l’alloggio del colonnello; ma la speranza del Gran Visir l’aveva lasciata alla Posta; e proprio sull’istante solenne, fatale, tornava a farsi sentire la fame. Sapete cosa ebbi il coraggio di pensare in quel momento? — Ebbi il coraggio di pensare ai grassi pranzi bolognesi dell’anno prima; e di trovarmi più contento così com’era allora a stomaco digiuno. Ebbi il coraggio di confortarmi meco stesso di esser solo e che il caso avesse preservato la Pisana dal farsi compagna di tanta mia inedia. Il caso? — Questa parola non mi poteva passare. Il caso a guardarlo bene non è altro il più delle volte che una manifattura degli uomini: e perciò temeva non a torto che la smemorataggine, la freddezza, fors’anco qualche altro amoruzzo della Pisana, l’avessero svogliata di me.
— Ma ho poi ragione di lamentarmene? — seguitava col pensiero. — Se mi ama meno, non è giustizia?... Che ho fatto io tutto l’anno passato? —
Cosa volete? trovava tutto ragionevole, tutto giusto, ma questo sospetto di essere dimenticato e abbandonato dalla Pisana per sempre, mi dava per lo meno tanto martello quanto la fame. Non era più il furore, la smania gelosa d’una volta, ma uno sconforto pieno d’amarezza, un abbattimento che mi faceva perdere il desiderio di vivere. Sbattuto fra questi varii dolori, salii dal signor Colonnello, il quale leggeva i rapporti settimanali dei capitani, fumando come aveva fumato io quand’era intendente, e inaffiandosi a tratti la gola con del buon anesone di Brescia.
— Bravo Carletto! — sclamò egli offerendomi una seggiola. — Versane un bicchiere anche per te, che mi sbrigo subito. —
Io ringraziai, sedetti, e volsi un’occhiata per la stanza a vedere se ci fosse focaccia, panettone o qualche ingrediente, da maritarsi coll’anesone per miglior ristoro del mio stomaco. Non c’era proprio nulla. Io mi versai un bicchiere colmo raso di quel liquore balsamico, e giù a piena gola che mi parve un’anima nuova che entrasse. Ma si sa cosa succede da quel tafferuglio tra l’anima vecchia e la nuova, massime in uno stomaco affamato. Successe che perdetti la tramontana, e quando mi alzai per tener dietro al colonnello, era tanto allegro, tanto parolaio quanto nel sedermi era stato grullo e mutrione. Il soldataccio se ne congratulò come d’un buon pronostico, e nel salir le scale mi esortava a mostrarmi pur gaio, lesto, arditello, chè alle donne di mezza età, e che non hanno tempo da perdere, piacciono cotali maniere. Figuratevi! io era tanto gaio che fui per dar il naso sull’ultimo gradino: per altro insieme a tali doti me se ne sviluppò un’altra, la sincerità, e questa al solito mi fece fare il primo marrone. Quando il portiere ci ebbe aperto e il colonnello mi ebbe introdotto nell’anticamera, io ballonzolava che non mi pareva di toccare il pavimento.
— Chi s’immaginerebbe mai — dissi a voce altissima — chi s’immaginerebbe mai che così come sono sdilinquisco per la fame? —
Il portiere si volse meravigliato a guardarmi per quanto i canoni del suo mestiere glielo vietassero. Alessandro mi diè una gomitata nel fianco.
— Eh matto! — diss’egli — sempre colle tue baie. —
— Eh ti giuro che non son baie, che... ahi, ahi, ahi!... —
Il colonnello mi diede un tale pizzicotto, che non potei tirar innanzi nella contesa, e dovetti interromperla con questa triplice interiezione. Il portiere si voltò a guardarmi, e questa volta con tutto il diritto.
— Nulla, nulla, — soggiunse il Colonnello — gli ho pestato un callo! —
Fu un bel trovato così di sbalzo; ed io non giudicai opportuno di difendere la verginità de’ miei piedi, perchè appunto in quella eravamo entrati nella sala della signora. Il colonnello s’accorgeva allora del pericolo, ma si era in ballo e bisognava ballare; un veterano di Marengo doveva ignorar l’arte delle ritirate.
Fra una luce morta e rossigna che pioveva da lampade appese al soffitto, e affiocate da cortine di seta rossa, io vidi, o mi parve vedere la dea. Era seduta sopra un fianco in una di quelle sedie curuli, che il gusto parigino aveva dissotterrato dai costumi repubblicani di Roma, e che perdurarono tanto sotto l’impero d’Augusto che sotto quello di Napoleone. La veste breve e succinta contornava forme non dirò quanto salde, ma certo molto ricche; una metà abbondante del petto rimaneva ignuda: io non mi fermai a guardare con troppo piacere, ma sentii piuttosto un solletico ai denti, una voglia di divorare. I fumi dell’anesone mi lasciavano travedere che quella era carne, e mi lasciavano soltanto quel barbaro barlume di buonsenso che resta ai cannibali. La Signora parve soddisfattissima della buona impressione prodotta sopra di me, e chiese al Colonnello se fossi io quel giovane che desiderava impiegarsi in qualche amministrazione. Il Colonnello si affrettò a rispondere di sì; e s’ingegnava di stornare da me l’attenzione della Signora. Sembrava invece che costei s’invaghisse sempre più del mio bel contegno, perchè non cessava dall’osservarmi e dal volgere il discorso a me, trascurando affatto il Colonnello.
— Carlo Altoviti, mi sembra — disse con gentilissimo sforzo di memoria la Signora.
Io m’inchinai, diventando tanto rosso che mi sentiva scoppiare. Erano crampi di stomaco.
— Sembrami, — continuò ella — aver osservato questo nome, se non isbaglio, l’anno scorso nell’annuario della nostra alta magistratura. —
Io diedi una postuma gonfiata in memoria della mia intendenza, e mi tenni ritto e pettoruto, mentre il Colonnello rispondeva che infatti io era stato preposto alle Finanze di Bologna.
— E c’intendiamo, — soggiunse la Signora a mezza voce inchinandosi verso di me; — il nuovo governo.... queste sue massime.... insomma vi siete ritirato!
— Già — risposi io con molto sussiego, e senza aver nulla capito.
Allora cominciarono ad entrar in sala conti, contesse, principi, abati e marchesi, i quali venivano mano a mano annunciati dalla voce stentorea del portiere: era un profluvio di don che mi tambussava le orecchie, e diciamolo imparzialmente, quel dialetto milanese, raccorciato e nasale, non è fatto per ischiarire le idee ad un briaco. In buon punto il Colonnello s’avvicinò alla padrona di casa per accomiatarsi: io non ne poteva più. Essa gli disse all’orecchio che tutto era già combinato, e che ne andassi difilato il giorno appresso alla ragioneria, ove mi avrebbero assegnato il mio compito e dettomi le condizioni del servigio. Io ringraziai inchinandomi e strisciando i piedi, sicchè una dozzina di quei don muti e stecchiti si volse meravigliata a guardarmi; indi battendo fieramente i tacchi al fianco del colonnello m’avviai fuori della sala. L’aria aperta mi fece bene; perchè mi si rinfrescò d’un tratto il cervello, e fra i miei sentimenti si intromise un po’ di vergogna dello stato in cui m’accorgeva essere, e della brutta figura che temeva aver sostenuto nella conversazione della Contessa. Peraltro mi durava ancora una buona dose di sincerità; e cominciai a lamentarmi della fame che avevo.
— Non hai altro? — mi disse il Colonnello. — Andiamo al Rebecchino e là te la caverai. — Non mi ricordo bene se dicesse il Rebecchino; ma mi pare di sì, e che in fin d’allora ci fosse a Milano questa mamma delle trattorie.
Io mi lasciai condurre; me ne diedi una gran satolla senza trar fiato o pronunciar parola, e mano a mano che lo stomaco tornava in pace, anche il capo mi si riordinava. La vergogna mi venne crescendo sempre fino al momento di pagare; e allora stava proprio per rappresentare la commediola solita degli spiantati, di palpar cioè il taschino con molta sorpresa, e di rimproverarmi della mia maledetta sbadataggine per la borsa perduta o dimenticata; quando una più onesta vergogna mi trattenne da questa impostura. Arrossii di essere stato più sincero durante l’ubbriachezza che dopo, e confessai netta e schietta ad Alessandro la mia estrema povertà. Egli andò allora in collera perchè gliel’avessi nascosta infino allora; volle consegnarmi a forza quei trenta scudi che aveva e che dopo pagato il conto non rimasero che ventotto; e si fece promettere che in ogni altro bisogno avrei ricorso a lui, che di poco sì, ma con tutto il cuore m’avrebbe sovvenuto.
— Intanto domani io devo partire senza remissione pel campo di Germania; — egli soggiunse — ma parto colla lusinga che questi pochi scudi basteranno, a farti aspettare senza incommodi la prima paga che ti verrà contata presto: forse anco dimani. Coraggio Carlino; e ricordati di me. Stasera devo abboccarmi coi capitani del mio reggimento per alcune istruzioni verbali; ma domattina prima di partire verrò a darti un bacio. —
Che dabbene d’un Alessandro! Era in lui un certo miscuglio di soldatesca rozzezza e di bontà femminile che mi commoveva: gli mancavano le così dette virtù civiche d’allora, le quali adesso non saprei come chiamarle, ma gliene sovrabbondavano tante altre che si potea fare la grazia. La mattina all’alba egli fu a baciarmi ch’io dormiva ancora. Io piangeva per l’incertezza di non averlo forse a rivedere mai più, egli piangeva sulla mia cocciutaggine di volermi rimanere oscuro impiegatuccio in Milano, mentre poteva andar dietro a lui e diventar generale senza fatica. Di cuori simili al suo se ne trovano pochi: eppure egli augurava di gran cuore la morte a tutti i suoi colleghi per avere un grostone più alto sul cappello, e trecento franchi di più al mese. Questa è la carità fraterna insegnata, anzi imposta anche agli animi pietosi e dabbene dal governo napoleonico!
Quando fu ora convenevole io mi vestii con tutta la cura possibile, e n’andai alla ragioneria della contessa Migliana. Un certo signore grasso, tondo, sbarbato, con cera e modi affatto patriarcali, m’accolse si può dire a braccia aperte: era il primo ragioniere, il segretario della padrona. Egli mi condusse per prima cerimonia alla cassa, ove mi furono contati sessanta scudi fiammanti per onorario del primo trimestre. Indi mi condusse ad uno scrittojo ove erano molti librattoli unti e sgualciti, e in mezzo un librone più grande sul quale almeno si potevano posar le mani senza sporcarsele. Mi disse ch’io sarei stato per allora il maestro di casa, il maggiordomo della signora contessa, almeno finchè restasse libero un posto più confacente agli alti miei meriti. Infatti, cascare dall’Intendenza di Bologna all’amministrazione d’una credenza non era piccolo precipizio; ma per quanto io sia in origine patrizio veneto dell’antichissima e romana nobiltà di Torcello, la superbia fu raramente il mio difetto; massime poi quando parla più alto il bisogno. Per me sono della opinione di Plutarco, che sopraintendeva, dicesi, agli spazzaturaj di Cheronea, coll’egual dignità che se avesse presieduto ai giuochi olimpici.
La mia carica importava la dimora nel palazzo, e una maggiore dimestichezza colla signora contessa: ecco due cose le quali non so se mi garbassero o no; ma mi proponeva di togliere alla signora la brutta idea ch’ella aveva dovuto farsi di me nella visita del giorno prima. Invece la trovai contentissima di me e delle mie nobili e gentili maniere; in verità che cotali elogii mi sorpresero; e che alle signore milanesi dovessero piacer tanto gli ubriachi, non me lo sarei mai immaginato. Ella mi trattò più da pari a pari che da padrona a maggiordomo, squisitezza che mi racconsolò della mia nuova condizione, e mi fece scrivere all’Aglaura, a Lucilio, a Bruto Provedoni, al colonnello, alla Pisana, lettere piene d’entusiasmo e di gratitudine per la signora Contessa. Verso la Pisana poi io intendeva con ciò vendicarmi della sua trascuratezza, e cercare di stuzzicarla un poco colla gelosia. La strana vendetta ch’ella avea tratto altre volte d’una mia supposta infedeltà, non m’avea illuminato abbastanza. Ma dopo cinque e sei giorni, cominciai ad accorgermi che la Pisana non poteva avere tutto il torto ad ingelosire della mia signora padrona. Costei usava verso di me in una tal maniera, che o io era un gran gonzo, o m’invitava a confidenze che non entrano di regola nei diritti d’un maggiordomo. Cosa volete? Non tento nè scusarmi, nè nascondere. Peccai.
La casa della Contessa era delle più frequentate di Milano, ma in onta al temperamento allegro della padrona di casa, le conversazioni non mi parevano nè disinvolte nè animate. Una certa malfidenza, un sussiego spagnolesco, teneva strette le labbra e oscure le fronti di tutti quei signori; e poi secondo me scarseggiava la gioventù, e la poca che vi interveniva era così grulla così scipita da far pietà. Se quelle erano le speranze della patria, bisognava farsi il segno della croce e sperar in Dio. Perfino la signora, che al tu per tu o in ristretto crocchio di famiglia era vivace e corriva forse più del bisogno, nella conversazione invece assumeva un contegno arcigno e impacciato, una guardatura tarda e severa, un modo di movere le labbra che pareva più adatto a mordere che a parlare ed a sorridere. Io non ci capiva nulla: massime allora poi, con quel fervore di vita messoci in corpo dalla convulsa attività del governo italico.
Due settimane dopo ne capii qualche cosa. — Fu annunziato un ospite da Venezia, e rividi con mia somma meraviglia e dopo tanti anni l’avvocato Ormenta. Egli non mi conobbe, perchè l’età e le fogge mutate mi rendevano affatto diverso dallo scolaretto di Padova; io finsi di non conoscer lui, perchè non mi garbava di rappiccarla per nessun verso. Sembra ch’egli venisse a Milano per raccomandare sè ed i suoi alla valida protezione della Contessa; infatti a quei giorni fu un andirivieni maggiore del solito di generali francesi e di alti dignitari italiani. Alcuni ministri del nuovo Regno stettero chiusi molte ore coll’egregio avvocato; ed io mi struggeva indarno di sapere, perchè mai dovesse immischiarsi nelle faccende del governo francese in Italia un consigliere principale del governo austriaco. Anche questo lo seppi poco dopo. L’accorto avvocato aveva preveduto la battaglia di Austerlitz e le sue conseguenze; egli passava dal campo di Dario a quello d’Alessandro per rimediare dal canto suo ai danni della sconfitta. A chi poi si maravigliasse di veder maneggiata da dita femminili una sì importante matassa, risponda la storia che le donne non ebbero mai tanta ingerenza nelle cose di Stato, quanto durante i predominii militari. Lo sapeva la mitologia greca, che mescolò sempre nelle sue favole Venere a Marte.
Le notizie prime della vittoria di Austerlitz giunsero a Milano innanzi al Natale; se ne fece un grande scalpore, e crebbe quando si ebbe certezza della pace firmata il giorno di santo Stefano a Presburgo, per la quale il Regno d’Italia s’allargava ne’ suoi confini naturali fino all’Isonzo. Io dimenticai per un istante la quistione della libertà, per mettermi tutto nella gioia di riveder Venezia, e la Pisana, e sua sorella e Spiro e i nipoti, e i carissimi luoghi dove s’era trastullata la mia infanzia, e viveva pur sempre tanta parte dell’anima mia. Le lettere che mi scrisse allora la Pisana non voglio ridirvele, per non tirarmi addosso un troppo grave cumulo d’invidia. Io non mi capacitava come tutti questi struggimenti potessero combinarsi colla noncuranza dei mesi passati; ma la contentezza presente vinceva tutto, soperchiava tutto. Pensando a null’altro, io salii dalla signora contessa colle lagrime agli occhi, e lì le dichiarai che dopo la pace di Presburgo...
— Cosa mai?... Cosa c’è di nuovo dopo la pace di Presburgo? — mi gridò la signora tirando gli occhi come una vipera.
— C’è di nuovo ch’io non posso più fare nè l’intendente, nè il maggiordomo...
— Ah! mascalzone! E me lo dite in questa maniera?... Son proprio stata una buona donna io a mettere... tutta la mia confidenza in voi!... Uscitemi pure dai piedi, e che non vi vegga mai più!... —
Era tanto fuori di me dalla consolazione, che questi maltrattamenti mi fecero l’effetto di carezze: non fu che dopo, al tornarci sopra, che m’accorsi della porcheria commessa nell’accomiatarmi in quel modo. Certi favori non bisogna dimenticarseli mai quando una volta furono accettati per favori, e chi se ne dimentica merita esser trattato a calci nel sedere. Se la Contessa usò meco con minore durezza, riconosco ora che fu tutta sua indulgenza; perciò non mi diede mai il cuore di unirmi ai suoi detrattori, quando ne udii dire tutto il male che vedrete in appresso.
La Pisana mi accolse a Venezia col giubilo più romoroso di cui ell’era capace ne’ suoi momenti d’entusiasmo. Siccome io avea provveduto che mi si lasciasse libero almeno un appartamentino della mia casa, ella voleva ad ogni costo accasarsi presso di me: ghiribizzo che troverete abbastanza strano raffrontato colla tenerezza e colle cure da lei prodigate fino allora al marito. Ma il più strano si fu quando il vecchio Navagero, disperatissimo di cotal risoluzione della moglie, e della valente infermiera che era in procinto di perdere, mi mandò a pregare in segreto che piuttosto andassi io ad abitare presso di lui, che m’avrebbe veduto con tutto il piacere. L’era un portar troppo oltre la tolleranza veneziana; e da ciò capii che l’apoplessia lo aveva liberato perfettamente da’ suoi umori gelosi. Ma io non mi degnai di arrendermi alle gentili preghiere del nobiluomo; feci parte di questi miei scrupoli alla Pisana, e suo malgrado pretesi che la restasse presso il marito. L’amore avrebbe guadagnato in freschezza e in sapore, quel poco che ci perdeva di facilità. Anche Spiro e l’Aglaura mi volevano con loro; ma io aveva fitto il capo nella mia casetta di San Zaccaria, e non mi volli movere di là.
Così vissi spensierato d’ogni cosa e beatissimo fino alla primavera, stando il più che poteva alla larga dalla contessa di Fratta e di suo figlio, ma godendo le più belle ore della giornata in compagnia della mia Pisana. La pietà di costei per quel vecchio e malconcio carcame del Navagero trascendeva tanto ogni misura, che talvolta mi dava perfino gelosia. Succedeva non di rado che dopo le visite più nojose ed importune, rimasti soli un momento ella correva via di volo, per cambiare il cerotto o per versar la pozione al marito. Questo zelo in eccesso mi infastidiva e non potea fare che qualche fervida preghiera non innalzassi al cielo, per ottenere al povero malato le glorie del Paradiso. Non c’è caso. Le donne sono amanti, sono spose, madri, sorelle; ma anzi tutto sono infermiere. Non v’è cane d’uomo così sozzo, così spregevole e schifoso, che lontano da ogni soccorso e caduto infermo, non abbia trovato in qualche donna un pietoso e degnevole angelo custode. Una donna perderà ogni sentimento d’onore, di religione, di pudore; dimenticherà i doveri più santi, gli affetti più dolci e naturali, ma non perderà mai l’istinto di pietà e di devozione ai patimenti del prossimo. Se la donna non fosse intervenuta necessaria nella creazione come genitrice degli uomini, i nostri mali, le nostre infermità l’avrebbero richiesta del pari necessariamente come consolatrice. In Italia poi le magagne son tante, che le nostre donne sono si può dire dalla nascita alla morte occupate sempre a medicarci o l’anima o il corpo. Benedette le loro dita stillanti balsamo e miele! Benedette le loro labbra, donde sprizza quel fuoco che abbrucia e rimargina!...
Gli altri miei conoscenti di Venezia non parevano gran fatto curanti di me; ove si eccettuino i Venchieredo che cercavano in ogni modo di attirarmi, ed io mi teneva discosto con tutta la prudenza della mia ottima memoria. Dei Frumier il cavaliere di Malta pareva sepolto vivo; l’altro, sposata la donzella Contarini e cacciato avanti nelle Finanze, era arrivato a farsi nominar segretario. L’ambizione lo spingeva per una carriera, a cui per la nuova ricchezza poteva facilmente rinunciare; e con quel suo capolino d' oca, giunto a disegnare la propria firma sotto un rapporto, gli pareva di poter guardare dall’alto in basso i cavalli di San Marco e gli uomini delle Ore. Mi sorprese peraltro assaissimo che tanto lui quanto il Venchieredo, l’Ormenta e taluni altri impiegati dell’usato governo, continuassero ad esser sofferti dal nuovo, o nelle antiche cariche, o in nuovi posti abbastanza importanti e delicati. Siccome peraltro nè cogli usciti nè cogli entranti io aveva a partire la mela, non mi lambiccava il cervello di saperne il perchè. Quello piuttosto che mi dava alcun fastidio, si era che molti degli amici miei, di Lucilio, d’Amilcare, e qualche intriseco di Spiro Apostulos, e mio cognato stesso, mi trattassero alle volte con qualche freddezza. Io non credeva di aver demeritato della loro amicizia; perciò non mi degnava neppure di rammaricarmene, ma uscii a dirne qualche cosa coll’Aglaura e costei si schivò con dir che suo marito avea spesso la testa negli affari, e non potea badare a feste e a cerimonie.
Un giorno mi venne veduto in Piazza un certo muso ch’io non aveva incontrato mai senza alquanto rincrescimento; voglio dire il capitano Minato. Io cercava sfuggirlo, ma me lo impedì dieci pertiche lontano con un ho! di sorpresa e di piacere: e mi convenne trangugiare in santa pace un beverone infinito di quelle sue córse castronerie.
— A proposito! — diss’egli — Son passato per Milano; me ne congratulo con voi. Anche voi siete passato colà a tempo per ereditare le mie bellezze.
— Che bellezze mi tirate fuori?
— Capperi, non è una bellezza la contessina Migliana?... Da quando io le feci fare il viaggio da Roma ed Ancona la trovai un po’ appassitella; ma così senza confronto è ancora un’assai bella donna.
— Che?... La contessa Migliana è?...
— È l’amica d’Emilio Fornoni, è il mio tesoretto del novantasei! Quanti anni sono passati!
— Eh, giusto! È impossibile! Mi date ad intendere delle baje!... La vostra avventuriera non si chiamava così, e non possedeva nè la fortuna nè l’entratura nel mondo della contessa Migliana!
— Oh in quanto ai nomi, ve l’assicura io che la Contessa non ne ha portato nessuno più d’un mese! Fu un delicato riguardo per ognuno de’ suoi amanti. Quanto alle ricchezze, lo dovete sapere anche voi che la sua eredità non le toccò che pochi anni or sono. Del resto il mondo è troppo furbo per diniegare l’ingresso a chi sa pagarlo bene. Avrete veduto di qual razza di gente è ora circondata, almeno nelle ore diplomatiche, la signora contessa: or bene furono costoro che a prezzo d’un po’ di vernice e di qualche elemosina per la pia causa, acconsentirono a porre un velo sul passato e a raccogliere la pecorella smarrita nel gran grembo dell’aristocrazia... come la chiamano a Milano.... dell’aristocrazia biscottinesca!...
— E pertanto... — volli dir io.
— E pertanto volevate dire, che, essendo voi maggiordomo in casa sua... non so se mi spiego... ma non trovaste poi la pecorella così fida all’ovile, da non perdersi anche talvolta in qualche pascolo romito, in qualche trastullo lascivetto e...
— Signore, nessuno vi dà il diritto nè di straziare l’onor d’una dama, nè....
— Signore, nessuno vi dà il diritto d’impedire che io parli quando parlano tutti.
— Voi venite da Milano; ma qui a Venezia....
— Qui a Venezia, signore, se ne parla forse più che a Milano!...
— Come?... Spero che sarà una vostra fantasia!
— La notizia è venuta a quanto si dice nel taccuino del consiglier Ormenta, il quale vi fece merito dei vostri amori come d’un’opportuna conversione alla causa della Santa Fede.
— Il consiglier Ormenta, voi dite?
— Sì, sì, il consiglier Ormenta! Non lo conoscete?
— Pur troppo lo conosco! — E mi diedi a pensare, perchè dopo avermi tanto dimenticato da non ravvisarmi più, si fosse poi dato attorno per seminare cotali spiacevoli ciarle. E non mi venne in capo che egli a sua volta si potesse credere non conosciuto da me, e che il mio nome caduto qualche volta di bocca alla contessa lo avesse ajutato a mutare in certezza il sospetto della somiglianza. La gente del suo fare non altro cerca di meglio che spargere la diffidenza e la discordia; ecco chiarissime le cagioni del suo malizioso sparlare. E quanto al resto non m’importava un fico di saperne di meglio; tuttavia persuasissimo che il Minato m’avesse reso un vero servigio coll’aprirmi gli occhi su quella mariuoleria, mi separai da lui con minor piacere del solito e tornai presso la Pisana per masticare meno amaramente la mia rabbia.
Trovai quel giorno presso la signorina la visita di un tale che non mi sarei aspettato; di Raimondo Venchieredo. Dopo quanto avevamo discorso di lui, dopo le mire ch’io gli supponeva sul conto della Pisana, dopo le trame orditele contro a mezzo della Doretta e della Rosa, mi maravigliai moltissimo di trovarla in tal compagnia. Di più s’aggiungeva che sapendo ella l’inimicizia non mai spenta fra me e Raimondo, la doveva anche per riguardo mio tenerselo lontano. Il furbo peraltro non giudicò opportuno incomodarmi a lungo, e se la cavò con un profondo saluto, che equivaleva ad un’impertinenza bell’e buona. Partito lui ci bisticciammo fra noi.
— Perchè ricevi quella razza di gente? — Ricevo chi voglio io! — Nossignora, che non devi! — Vediamo chi mi potrà comandare! — Non si comanda, ma si prega! — Pregare s’affà a chi ne ha il diritto. — Il diritto io l’ho acquistato, mi pare, con molti anni di penitenza! — Penitenza grassa! — Cosa vorresti dire? — Lo so io; e basta! —
Così continuammo un pezzetto con quegli alterchi a monosillabi che sembrano botte e risposte, a morsi e ad unghiate; ma non mi venne fatto cavar da quella bocca una parola di più.
Me ne partii furibondo; ma con tutto il mio furore, la trovai tornando più fredda e ingrugnata di prima. Non solamente non volle aprirsi meglio, ma schivava ogni discorso che potesse condurre ad una dichiarazione, e d' amore poi non voleva sentirne parlare come d’un sacrilegio. Alla terza, alla quarta volta si peggiorava sempre; m’incontrai ancora nel suo stanzino da lavoro con Raimondo che giocherellava dimesticamente colla cagnetta. E la cagnetta si mise ad abbajare a me! Per una volta lo sopportai; ma alla seconda uscii affatto dai gangheri: al contegno altero e beffardo di Raimondo m’accorsi a tempo della bestialità, e scappai giù per la scala perseguitato dai latrati di quella sconcia cagnetta. Oh queste bestiole sono pur barbare e sincere! Esse fanno e ritirano, a nome delle padrone, dichiarazioni d’amore che non vi si sbaglia d’un capello. Ma allora io era tanto indemoniato, che di cagnetta e padrona avrei fatto un fascio per gettarlo in laguna. Dite ch’io mi vanto d’un’indole mite e rassegnata! Che avrebbe fatto nel mio caso un cervello caldo e impetuoso, io non lo so.
In tutto questo, l’unico punto che non appariva oscuro si era la perfidia della Pisana verso di me, e il suo invasamento per Raimondo Venchieredo. Che costui poi fosse la causa della mia sventura, non lo potea dire di sicuro, ma amava crederlo per potermi scaricare sopra taluno di quel gran bollore di odio che mi sentiva dentro. Per metter il colmo al mio delirio, ebbi a quei giorni una lettera da Lucilio così agghiacciata, così enigmatica che per poco non la stracciai. Che tutti amici e nemici si fossero data la parola per menarmi all’estremo dell’avvilimento e della disperazione?... Quel colpo poi che mi veniva da Lucilio, dall’amico il di cui giudizio io poneva sopra il giudizio di tutti, da quello che avea regolato fin’allora la mia coscienza, e tenutomi luogo di quella costanza, di quella robustezza che talvolta mi mancavano, un tal colpo, dico, mi tolse perfino il discernimento della mia disgrazia. Cosa non aveva e cosa non avrei io fatto per conservarmi la stima di Lucilio?... Ed ecco che senza dirmi nè il perchè nè il come, senza interrogarmi, senza chiamarmi a discolpa, egli mi dava sentore di avermela tolta. Quali orrendi delitti erano stati i miei?... Qual era lo spergiuro, la viltà, l’assassinio che m’avea meritato una tale sentenza?... Non aveva la mente ordinata a segno da cercarlo. Mi tormentava, mi struggeva, piangeva di rabbia, di dolore, d’umiliazione; la vergogna mi facea tener curva la fronte sul petto; quella vergogna ch’io sapeva di non aver meritato. Ma così fatti sono i temperamenti troppo sensibili come il mio, che sentono al pari d’una colpa la taccia anche ingiusta di essa. La sfacciataggine della virtù io non l’ho mai avuta.
In quei momenti le consolazioni dell’Aglaura diffusero sui miei dolori una dolcezza inesprimibile; per la prima volta avvisai quanto bene stia racchiuso in quegli affetti calmi e devoti che non si ritraggono da noi, nè per mancanza di merito, nè per cambiamento d’opinioni. La mia buona sorella, i suoi figlioletti mi sorridevano sempre per quanto la società mi si mostrasse barbara e nemica. Essi senza parlare prendevano le mie difese al cospetto di Spiro; giacchè egli non poteva serbare il viso torvo ed arroncigliato, con colui che riceveva carezze e baci continui dalla moglie, dai figlioli, dal sangue suo.
Quanto la fiducia de’ miei antichi compagni s’allontanava da me, altrettanto mi venivano incontro mille finezze dell’avvocato Ormenta, di suo figlio, del vecchio Venchieredo, del padre Pendola e dei loro consorti. Il buon padre s’era fatto lui il direttore spirituale in quel ritiro di convertite, del quale il dottorino Ormenta governava l’economia; e ogniqualvolta m’incontravano, erano scappellate, saluti e sorrisacci che mi stomacavano perchè sembravano dire: — «Sei tornato dei nostri! Bravo! Ti ringraziamo!» — Io aveva un bel che fare a sgambettare, a salvarmi da quei loro salamelecchi; ma la gente li vedeva, li vedeva taluno a cui io era in sospetto; le calunnie pigliavano piede, e non c’era verso ch’io potessi sbarazzarmene, come da quelle caldane paludose, dove affondati una volta, per pestar che si faccia si affonda sempre più. Confesso che fui per darmi bell’e spacciato; poichè se io non mi disperai giammai contro nemici certi e disgrazie ben misurate, non ho al contrario potuto sopportar mai un agguato nascosto, e le cupe agonie d’un misterioso trabocchetto. Era lì lì per rinserrarmi in una vita morta, in quella vegetazione che protrae di qualche anno lo sfacelo del corpo, dopo aver soffocate le speranze dell’anima: non vedeva più nulla intorno a me, che valesse la pena d’un giorno misurato a singhiozzi e a sospiri: io non era necessario e buono a nulla; perchè dunque pensare agli altri per sentire peggio che mai il mio crepacuore?........ Così se io non deliberava di rendermi, m' accasciava volontario, e mi lasciava schiacciare dal peso che mi rotolava addosso. Non aveva il furore, ma la stanchezza del suicida.
Caduti in tanto abbattimento, le carezze degli altri uomini, per quanto maligne e interessate, ci trovano le molte volte deboli e credenzoni. Godiamo quasi di poter dire ai buoni; Guardate che i tristi sono migliori di voi! — Fanciullesca vendetta, che volge in nostro danno perpetuo la gioja puerile d’un momento. Gli Ormenta padre e figlio raddoppiarono verso di me di premure e di cortesie; convien dire ch’io avessi qualche grazia presso di loro, o che la setta fosse tanto immiserita che non si badasse più a fatica ed a spesa per guadagnare un neofito. Mi circondarono con loro adescatori, misero sotto mezzani e sensali; io rimasi incrollabile. Nullo sì, ma per essi no. Moriva per l’ingiustizia degli amici miei, ma non avrei mai acconsentito a volger contro di essi la punta d’un dito; dietro quegli amici ingannati ed ingiusti era la giustizia eterna che non manca mai, che mai non inganna, nè rimane ingannata.
Questo pensiero di resistenza brulicandomi entro, mi ridonò un’ombra di coraggio e un filo di forza. Guardai dietro a me per vedere se veramente l’abbandono di tutti, la perfidia dell’amore, i mancamenti dell’amicizia mi lasciavano così nullo e impotente com’io credeva. Allora risorsero alla mia memoria come in un baleno tutti gli ideali piaceri, tutte le robuste fatiche, e i volontari dolori della mia giovinezza: vidi raccendersi quella fiaccola della fede che m’avea guidato, sicuro per tanti anni ad un fine lontano sì, ma giusto ed immanchevole: vidi un sentiero seminato di spine, ma consolato dagli splendori del cielo e dalla brezza confortativa delle speranze che scavalcava, aereo e diritto come un raggio di luce, l’abisso della morte, e saliva e saliva per perdersi in un sole, che è il sole dell’intelligenza e l’anima ordinatrice dell’universo. Allora la mia idea diventò entusiasmo, la mia debolezza forza, la mia solitudine immensità. Sentii che l’opinione altrui valeva nulla contro l’usbergo della mia coscienza, e che in questa sola s’accumulava la maggior somma dei castighi e delle ricompense. Il mondo ha migliaja di occhi, di orecchi, di lingue; la coscienza sola ha la virtù, il coraggio, la fede.
Mi rizzai uomo davvero. E dalla rocca inespugnabile di questa mia coscienza, guardai alteramente tutti coloro di cui con tanto dolore avea sofferto il muto disprezzo. Pensai a Lucilio e per la prima volta ebbi il coraggio di dirgli in cuor mio: — Profeta, hai sbagliato! Sapiente, avesti torto! — Quanta confidenza, quanta beatitudine mi venisse da questo coraggio, coloro soltanto possono saperlo che provarono le gioje sublimi dell’innocenza in mezzo alla persecuzione. Più di ogni altra cosa, può giovare a ritemprarmi l’animo la fiducia in quell’istinto retto e generoso, che misero, avvilito, boccheggiante, pur m’avea fatto sprezzare le lusinghe dei tristi e degli impostori. Il debole che piange e si dispera d’esser trascinato al patibolo, e pur non consente a guadagnarsi la grazia col tradire i compagni, quello secondo me è più ammirabile del forte, che col sorriso sulle labbra si abbandona alle mani del boja. Tremate, ma vincete: questo è il comando che può intimarsi anche ai pusillanimi; tremare è del corpo; vincere è dell’anima che incurva il corpo sotto la verga onnipotente della volontà. Tremate, ma vincete. Dopo due vittorie non tremerete più: e guarderete senza batter ciglio lo scrosciar della folgore.
Così feci io. Tremai lungamente: piansi ancora mio malgrado degli amici che m’avevano abbandonato; mi straziai il petto coll’ugne, e sentii il cuore battere precipitoso come impaziente di arrivar alla fine delle sue fatiche, mi disperai dell’amor mio, che dopo mille lusinghe, dopo avermi aggirato scherzevole e leggiero pei giardini fioriti e per le balze capricciose della giovinezza, mi lasciava solo, vedovo, sconsolato ai primi passi, nella selva selvaggia della vera vita militante e dolorosa. Ohimè, Pisana! quante lagrime sparsi per te! Quante lagrime di cui avrei vergognato come di una debolezza femminile allora; eppur adesso me ne glorio, come d’una costanza che diede alla mia vita qualche impronta di grandezza e di virtù!... Tu fosti come l’onda, che va e viene sul piede arenoso dello scoglio. Saldo come la rupe io t’attesi sempre; non mi sdegnai degli oltraggi, accolsi modestamente le carezze ed i baci. Il cielo a te avea dato la mutabilità della luna; a me la costanza del sole; ma gira e gira ogni luce s’incontra, si ripete, s’idoleggia, si confonde. E il sole e la luna nell’ultima quiete degli elementi s’adageranno eternamente, rilucenti e concordi. Voli pindarici! Voli pindarici! Ma per nulla non si diedero l’ali alle rondini, il guizzo al baleno, ed alla mente umana la sublime istantaneità del pensiero.
Sì, piansi molto allora e molto soffersi, ma aveva racquistato la pace della mia coscienza, e la purezza della mia fede. Piangeva e soffriva per gli altri; in me non sentiva nè peccato nè colpa.
Ecco a mio giudizio una delle maggiori ingiustizie della natura a nostro riguardo; la coscienza, per quanto pura e tranquilla, non ha potenza di opporsi vittoriosamente alle immeritate afflizioni; soffriamo d’una nequizia altrui come d’un castigo. Lo sconforto, i dolori, l’avvilimento, le continue battaglie d’un’indole mite e sensibile con un destino avverso e rabbioso, scossero profondamente la mia robusta salute. Conobbi allora esser vero, che le passioni racchiudono in sè i primi germi di moltissime fra le malattie che affliggono l’umanità. Dicevano i medici ch’era infiammazione di vene, o congestione del fegato; sapeva ben io che cos’era, ma non mi stava il dirlo, perchè il male da me conosciuto era pur troppo incurabile. Vedeva da lontano la mia ora avvicinarsi lentamente minuto per minuto, battito per battito di polso. Il mio sorriso appariva rassegnato, come di colui che non ha più speranze se non eterne, e a quelle affida colla sicurezza dell’innocenza l’anima sua. Perdonate, o stizzosi moralisti: vi sembrerà ch’io fossi inverso me assai largo di maniche, come si dice. Ma pur troppo io m’era composto di mio capo una regola assai diversa dalla vostra: pur troppo, secondo voi, puzzava d’eresia; scusate, ma tutto quello che non era stato male pegli altri, non lo addebitava come male a me stesso; e se male avea commesso, ne era pentito a segno che m’abbandonava senza paura alla giustizia che non muore mai, e che giudicherà, non delle vostre parole ma dei fatti. Voi avreste circondato il mio letto di catene sonanti, di spettri e di demonii; vi assicuro ch’io non ci vidi altro che fantasmi benigni e velati d’una nebbia azzurra di celeste melanconia, angeli misteriosi che mestamente mi sorridevano, orizzonti profondi che s’aprivano allo spirito, e nei quali, senza perdersi, lo spirito si effondeva, come la nuvola che si dirada a poco a poco, ed empie leggiera e lucente tutti gli spazii interminati dell’etere.
Io non avea veduto mai fino allora così vicina la morte; dirò meglio che non aveva avuto agio di contemplarla con tanta pacatezza. Non la trovai nè schifosa, nè angosciosa, nè spaventevole. La rivedo adesso dopo tanti anni più vicina, più certa. È ancora lo stesso volto ombrato da una nube di melanconia e di speranza; una larva arcana ma pietosa, una madre coraggiosa e inesorabile, che mormora al nostro orecchio le fatali parole dell’ultima consolazione. Sarà aspettazione, sarà espiazione o riposo; ma non saranno più le confuse e vane battaglie della vita. Onnipotente o cieco poserai nel grembo dell’eterna verità; se reo temi: se innocente, spera e t’addormenta. Qual mai fu il sonno che non fu consolato da visioni?... La vita si ripete e si ricopia sempre. Il sonno d’una notte è la quiete e il ristoro d’un uomo; la morte di un uomo è un istante di sonno nell’umanità.
M’avvicinava passo passo alla morte coi mesti conforti dell’Aglaura da un lato, col tardo ravvedimento di Spiro dall’altro, che non potea serbare la sua ostile diffidenza dinanzi all’imperturbabile serenità d’un moribondo. Dinanzi alle grandi ombre del sepolcro non vi sono nè illusi nè imbecilli; ognuno racquista tanta lucidità che basti a riverberargli in un terribile baleno le colpe e le virtù di tutta la vita. Chi posa gli occhi calmi e sicuri in quella notte senza fondo, sente e vede in se stesso la immagine purificata di Dio; egli non teme nè le ricompense nè le pene eterne, non paventa nè i fluttuanti vortici del caos, nè gli abissi ineffabili del nulla. Convien dire che avessi scritta sulla mia fronte un’assai eloquente difesa, perchè Spiro al solo guardarmi si commoveva fino alle lagrime; pure non aveva i nervi rammolliti dal piagnucolare, e le greche fattezze del suo volto si componevano meglio alla rigidezza del giudice, che alla vergogna e al pentimento del colpevole. Fu quello il primo premio che m’ebbi della mia costanza. Veder vinta dalla sola calma del mio aspetto, dalla tranquillità della voce, dalla limpidezza dello sguardo quell’anima di fuoco e d’acciaio, fu un vero trionfo. Egli nè mi chiese perdono, nè io glielo diedi, ma ci intendemmo senza parola; le nostre mani si strinsero; e tornammo amici per malleveria della morte.
I medici non parlavano dinanzi a me, ma io m’accorgeva appunto dal silenzio e dalla confusione dei pareri, che disperavano del mio male. Io m’ingegnava di usare alla meglio questi ultimi giorni col versare nell’anima di Spiro e di mia sorella l’esperienza della mia vita, col mostrar loro in qual modo s’eran venuti formando i miei sentimenti, e come l’amore, l’amicizia, l’amore della virtù e della patria erano venuti irrompendo confusamente, indi purificandosi a poco a poco, e sollevando l’anima mia. Vedeva allora le cose tanto chiare, che precedetti, si può dire, una generazione; e lo dico senza superbia, le idee di Azeglio e di Balbo covavano in germe ne’ miei discorsi d’allora. L’Aglaura piangeva, Spiro crollava il capo, i bambini mi guardavano sgomentati, domandavano alla mamma perchè lo zio aveva la voce così bassa, e voleva sempre dormire, e non usciva mai dal letto.
— Vegliare toccherà a voi, bambini! — io rispondeva sorridendo. Indi volgendomi a Spiro — non temere, no, — continuava, — quello che ora veggo io, molti lo vedranno in appresso, e tutti da ultimo. La concordia dei pensieri mena alla concordia delle opere; e la verità non tramonta mai, ma sale sempre verso il meriggio eterno. Ogni spirito veggente che sale lassù risplende a cento altri spiriti colla sua luce profetica! —
Spiro non si acquetava di cotali conforti; egli mi tastava il polso, mi osservava ansiosamente negli occhi, come vi cercasse quell’intima cagione del mio male che ai medici era sfuggita. Finalmente un giorno che eravamo soli si diede animo e mi disse:
— Carlo, in coscienza, confessati a me! Non puoi o non vuoi guarire?
— Non posso, no, non posso! — io sclamai.
In quel momento l’Aglaura entrò precipitosa nella stanza, dicendomi che una persona, a me molto cara altre volte, voleva vedermi ad ogni costo.
— Ch’ella entri, ch’ella entri! — io mormorai sbigottito dalla consolazione che mi veniva tanto improvvisa. Io vedeva attraverso le pareti, io leggeva nell’anima di colei che veniva a trovarmi; credo che ebbi paura di quel lampo quasi sovrumano di chiaroveggenza, e che temetti di mancare al rifluir repentino di tanto impeto di vita.
La Pisana entrò senza vedere, senza cercare altri che me. Mi si gettò colle braccia al collo senza pianto, senza voce; il suo respiro affannoso, i suoi occhi impietrati e sporgenti fuori dalle orbite, mi dicevano tutto. Oh, vi sono momenti che la memoria sente ancora e sentirà sempre quasichè fossero eterni, ma non può nè esaminarli nè descriverli! Se poteste entrare nella lieve e aerea fiammolina d’un rogo che si spegne, e immaginare cos’ella prova al riversarsi sopra di lei d’una ondata di spirito che la rianima, comprendereste forse il miracolo che si compì allora nell’esser mio!... Fui come soffocato dalla felicità; indi la vita scoppiò ribollente da quel momentaneo assopimento, e sentii un misto di calore e di freschezza corrermi salutare e voluttuoso i nervi le vene.
La Pisana non volle più staccarsi dal mio capezzale; fu questa la sua maniera di chieder perdono e di ottenerlo pronto ed intero. Che dico mai ottenerlo? A ciò avea bastato uno sguardo. Capii allora la vera cagione del mio male, la quale la superbia forse mi avea tenuto nascosta. Mi sentii rivivere, diedi la berta ai medici, e rifiutai le loro insulse pozioni. La Pisana non dormì più una notte, non uscì un istante dalla mia stanza, non lasciò che altra mano fuori della sua toccasse le mie membra, le mie vesti, il mio letto. In tre giorni divenne così pallida e scarna, che pareva più malata di me. Io credo che per non vederla soffrire a lungo, condensai tanto sforzo di volontà nell’adoperarmi a guarire, che accorciai la malattia di qualche settimana, e mutai in perfetta salute la convalescenza. Spiro e l’Aglaura guardavano meravigliati. La Pisana pareva che meno non si aspettasse, tanto era la fede e la sincerità dell’amor suo. Che cosa non le avrei io perdonato!?... Fu di quella volta come delle altre. Le labbra tacquero, ma parlarono i cuori: ella mi avea ridonato la vita e la possibilità di amarla ancora. Me le professai debitore, e l’umiltà e la tenerezza d’un amore infinito mi compensarono dello spensierato abbandono d’un giorno.
— Carlo — mi disse un giorno la Pisana poich’io fui ristabilito tanto da poter uscire; — l’aria di Venezia non ti si affà molto, hai bisogno di campagna. Vuoi che facciamo una visita allo zio monsignore di Fratta? —
Non so come avrei potuto rispondere ad un invito, che sì bene interpretava i più ardenti voti del mio cuore. Rivedere colla Pisana i luoghi della nostra prima felicità, sarebbe stato per me un vero paradiso. Mi avanzava qualche piccola somma di danaro accumulata dalle pigioni della mia casa negli ultimi quattr’anni; il ritiro in campagna avrebbe aiutato l’economia; tutto concorreva a rendere questo disegno oltrechè bello, utile e salutare. D’altra parte io sapeva che Raimondo Venchieredo stava ancora in Venezia, sapeva omai delle arti basse e maligne da lui messe in opera per accertar la Pisana de’ miei amori colla contessa Migliana, e per giovarsi a’ suoi intenti d’un momento di dispetto. Avea perdonato alla Pisana ma non a lui; nè era sicuro da un impeto di furore ove mi fosse intervenuto d’incontrarlo. Per due giorni ancora la Pisana non mi parlò di partire, ma la vedeva affaccendata in altri pensieri, e mi pareva che si disponesse ad una lunga assenza. Finalmente venne a casa mia col suo baule e mi disse:
— Cugino, eccomi pronta. Mio marito non è guarito; ma la sua malattia ha ripreso un andamento regolare; i medici dicono che così può durare ancora molti anni. Mia sorella che domani esce di convento....
— Come? — io sclamai. — La Clara si sveste di monaca?
— Non lo sapete? Il suo convento fu soppresso; le hanno dato una pensione, e uscirà appunto domani. Ben inteso ch’ella non ha la benchè minima idea di rompere i suoi voti, e che digiunerà egualmente le sue tre quaresime all’anno. Ma intanto ella acconsente a far l’infermiera a mio marito, io l’ho persuaso che lo zio monsignore abbisogna di me, e mia madre poi, che avrà dalla mia partenza il suo tornaconto, asseconda con tutte le forze questo progetto.
— Che tornaconto n' ha mai tua madre da questo viaggio?
— Il tornaconto che le ho ceduto definitivamente non solo il godimento, ma la proprietà della dote!...
— Che pazzia! E per te dunque, cosa ti rimane?
— Per me mi rimangono due lire al giorno che mio marito vuol passarmi ad ogni costo, malgrado la strettezza della sua fortuna; e con quelle in campagna posso vivere da gran signora.
— Scusa, sai, Pisana; ma il sacrifizio che hai fatto per tua madre mi sembra altrettanto imprudente che inutile. Qual vantaggio recherà a lei l’avere la proprietà oltre il godimento della dote?
— Qual vantaggio? Non so; ma probabilmente quello di potersela mangiare. E poi fare questi conti non si stava a me. Mia madre mi ha mostrato le sue tristi condizioni, la sua vecchiaia che vien domandando sempre nuovi commodi, nuove spese, i debiti da cui è molestata; infine io ho veduto anche i bisogni delle sue passioncelle, e non voleva che per giuocare due partite di tresette ella fosse costretta a vendere il pagliericcio. Le ho risposto dunque: Volete così... Sia! Ma mi lascerete partire perchè ho bisogno d’una boccata d’aria libera, e di rivedere le nostre campagne. — Va’, va’ pure, e che il Cielo ti benedica, figliuola mia — soggiunse mia madre. — Io credo ch’ella si consolò tutta di vedermi in procinto d’andarmene; e così le mie suggestioni non avrebbero più persuaso Rinaldo a comperarsi ogni tanto o un cappello nuovo o un vestito meno indecente, e così a lei sarebbe rimasto qualche zecchino di più. Andai dunque da un notaio, fu stesa e firmata la scritta di cessione. Ma nel punto di consegnarla a mia madre, non ti figuri mai più il favore ch’io le chiesi in contraccambio.
— Cosa mai? Le chiedesti il diritto eventuale all’eredità Navagero, o la cessione de’ suoi crediti verso la sostanza di Fratta?
— Nulla di tutto questo, Carlo. Da un pezzo era pizzicata da una indiscreta curiosità messami in capo, te ne ricordi, da quella pettegola della Faustina. Domandai dunque a mia madre che proprio sinceramente colla mano sul cuore mi confessasse se nei miei natali c’entrase per nulla il monsignore di Sant’Andrea!...
— Eh va’ là, pazzerella!... e cosa ti rispose la contessa?
— Mi rispose quello che tu. Mi diede della sguaiata, della pazzerella; e non volle dir nulla. Ah, Carlo! de’ miei ottomila ducati non ci ho proprio ritratto un bruscolo, nemmeno tanto da cavarmi una curiosità! —
Questo incidente può darvi un’idea non solamente dell’indole e dell’educazione avuta dalla Pisana, ma anche fino ad un certo punto dei costumi veneziani del secolo passato. Nel punto stesso che una figliuola con sublime sacrificio, si toglieva il pane di bocca, si spogliava dell’ultimo suo avere per accontentare i vizietti della madre, chiedeva in compenso di tanto benefizio una cinica confessione, e un gusterello di curiosità altrettanto inutile che scandaloso. Non aggiungo di più. Ma basta un finestrello aperto per lumeggiare un quadro.
— E a te dunque, — soggiunsi io — non restano ora che due grame lirette al giorno concesseti dalla misera munificenza del nobiluomo Navagero, sicchè una voltata d’umore di questo vecchio pazzo può metterti addirittura all’ospizio dei poveri!!...
— Eh guà! — disse la Pisana — son giovine e robusta; posso lavorare, e poi io starò con te, e il mantenimento me lo conterai per salario. —
Un cotale accomodamento quadrava col modo di pensare della Pisana; e non isconveniva punto a me: solamente mi sarebbe abbisognata qualche professione per accrescere di qualche cosa le mie meschinissime entrate, finchè la sospirata morte del Navagero porgesse comodità di pensare ad uno stabilimento definitivo. Per allora misi da banda questa idea; l’importante era di partir subito, perchè la mia salute terminasse di raffermarsi. Io aveva in borsa un centinaio di ducati, la Pisana volle a tutti i costi consegnarmene altri duecento ch’ella avea ricavato da certe gioie, e con questa gran somma ci disposimo allegramente alla partenza.
Prima di lasciar Venezia ebbi anche la fortuna di rivedere per l’ultima volta il vecchio Apostulos reduce allora dalla Grecia; egli era involto in quelle macchinazioni d’allora per la liberazione della sua patria, mediante il patrocinio dei così detti Fanarioti o Greci di Costantinopoli; e faceva un gran correre qua e là col pretesto del commercio. Spiro che propendeva al partito più giovane, che poi soperchiò tutti gli altri e fomentò l’ultima guerra dell’indipendenza, ubbidiva di malincuore a suo padre in quelle congiure senza grandezza, dove pescava a suo profitto l’avara ambizione di qualche principe semi-turco: perciò si stavano fra loro con qualche freddezza. Il vecchio Apostulos mi diede buone notizie del mio Gran Visir: egli era stato strangolato, secondo il comodissimo sistema usato allora dalla Porta, invece di quell’altro europeo a mille doppi più dispendioso delle giubbilazioni. Ma il suo successore riconosceva la validità de’ miei titoli; soltanto, siccome il credito ammontava a sette milioni di piastre, e il tesoro di Sua Altezza non era a quel tempo molto ben fornito, voleva soprastare d’un qualche anno al pagamento. Così milionari di speranze, e con trecento ducati in tasca, io e la Pisana ci mittemmo in barca per Portogruaro, e giungemmo il secondo giorno, dopo rotte molto alzane e perdendo assai tempo nello scambio dei cavalli e negli arenamenti, sulle beate rive del Lemene.
Il viaggio fu lungo ma allegro. La Pisana aveva, se non mi sbaglio, ventott’anni, ne mostrava venti, e nel cuore e nel cervello non ne sentiva infatti più di quindici. Io, veterano della guerra partenopea ed ex–intendente di Bologna, mano a mano che mi avvicinava al Friuli, mi rifaceva ragazzo. Credo che sbarcato a Portogruaro ebbi volontà di far le capriuole, come ne avea fatte sovente nel giardino de’ Frumier, quando aveva ancora i denti di latte. La nostra allegria fu peraltro mescolata ben presto da qualche mestizia. I nostri vecchi conoscenti erano quasi tutti morti; de’ giovani o coetanei chi qua chi là, pochissimi in paese n’erano rimasti. Fulgenzio decrepito e rimbambito aveva paura de’ suoi figli, ed era caduto in balìa d’una fantesca astuta ed avara che lo tiranneggiava, e sapeva mettere a profitto la sua spilorceria per raggranellarsi un capitale. Il dottor Domenico sbuffava, ma con tutta la sua dottoreria non giungeva a liberar suo padre dalle unghie di quella befana. Don Girolamo, professore in Seminario e brillante campione del partito dei bassaruoli, pigliava le cose con filosofia. Secondo lui bisognava aspettare pazientemente che il Signore toccasse il cuore a suo padre; ma il dottore, che avea somma premura di toccargli la borsa, non si stava cheto a questi conforti del fratello prete. Fulgenzio passò di questo mondo pochi giorni dopo il nostro ritorno in Friuli; la sua morte fu accompagnata da un delirio spaventevole, si sentiva strappata l’anima di corpo dai demonii, e si stringeva tanto per paura alla mano della massaia, che costei fu lì lì per dar un calcio all’eredità e lasciarlo nelle mani del becchino. Tuttavia l’avarizia la fece star salda, e tanto, che poichè il padrone fu morto convenne liberarle a forza il braccio dalle unghie rabbiose di lui. Apertosi il testamento, ella ebbe una bella somma di danaro in aggiunta a quello che aveva rubato. Seguivano molti legati di messe e di dotazioni di chiese e di conventi; da ultimo coronava l’opera una somma imponente, erogata dal testatore per la costruzione d’un sontuoso campanile vicino alla chiesa di Fratta.
E con ciò egli credette di aver dato l’ultima mano alla pulitura della propria coscienza, e saldati i suoi conti colla giustizia di Dio. Di restituzioni alla famiglia di Fratta non si parlava punto; dovevano essere abbastanza felici i miserabili eredi degli antichi castellani, di deliziarsi nella contemplazione del nuovo campanile. Don Girolamo si accontentava della sua quota che gli rimaneva non tanto piccola dell’eredità, anche dopo tanta dispersione di legati: ma il dottore saltò in mezzo con cause e con cavilli. Il testamento fu inoppugnabile. Ognuno ebbe il suo, e si cominciarono ad accumulare sassi e calcine sul piazzale di Fratta, per dare la richiesta forma di campanile alla postuma beneficenza del defunto sagrestano.
Un’altra notizia stranissima ci diedero a Portogruaro del matrimonio poco tempo prima avvenuto del capitano Sandracca colla vedova dello speziale di Fossalta, ch’era passata a dimorare presso di lui con una sua rendita di sette in ottocento lire. Il Capitano, molestato dalla promessa di celibato fatta alla defunta signora Veronica, ma più ancora dalla miseria che lo stringeva, aveva messo tutto d’accordo componendo di suo capo una parlantina che si proponeva di spifferare alla prima moglie, incontratisi che si fossero in qualche contrada dell’altro mondo. Le dimostrava che non era valida, e non obbligava per nulla un poveruomo quella promessa estorta in momenti di vera disperazione, e che ad ogni modo la pietà del marito doveva vincerla sopra un suo ghiribizzo di postuma gelosia. L’assicurava che il cuore di lui rimaneva sempre pieno di lei, e che della spezialessa non amava in fondo altro che le settecento lire. E con ciò si lusingava che, commosse le viscere della signora Veronica e convinta la sua ragionevolezza, non gli avrebbe tenuto il broncio per una infedeltà affatto apparente. Del resto, sposando una zitella il guajo sarebbe stato irrimediabile, ma con una vedova le cose si accomodavano assai facilmente. Costei tornava al primo marito, egli alla prima moglie, e non avrebbero più avuto nè un fastidio nè una noja per omnia sæcula sæculorum. — Il signor capitano pappava saporitamente le settecento lire, colla fondatissima speranza d’un grazioso perdono.
Ma intanto noi avevamo già fatto il nostro ingresso nella diroccata capitale dell’antica giurisdizione di Fratta. Solo a vederla da lontano, ci si strinse il cuore di compassione. Pareva un castello saccheggiato allora allora da qualche banda indiavolata di Turchi e abitato solamente dai venti e da qualche civetta malaugurata. Il capitano Sandracca ci rivide con molta titubanza; non capiva bene se venissimo a prenderne o a portarne. — Monsignore Orlando invece ci accolse così tranquillo e sereno come appunto tornassimo allora dalla passeggiata d’un’ora. La sua nobile gorgiera s’era stradoppiata, ed egli camminava strascicandosi dietro le gambe, e lodandosi molto della propria salute se non fosse stato quel maledetto scirocco che gli rompeva i ginocchi. Era lo scirocco degli ottant’anni, che ora provo anch’io, e che soffia da Natale a Pasqua e da Pasqua a Natale, con una insistenza che si fa beffa dei lunarii.
Mentre la Pisana, buona e spensierata, faceva festa allo zio, e si divertiva di inquietarlo sulla durata del suo scirocco, io riuscii pian piano a rappiccar conoscenza colle vecchie camere del castello. Mi ricordo ancora che s’imbruniva la notte, e che ad ogni porta, ad ogni svoltata di corritojo, credeva di vedermi dinanzi la negra apparizione del signor conte e del cancelliere, o la faccia aperta e rubiconda di Martino. Invece le rondini entravano ed uscivano per le finestre recando le prime pagliuzze, le prime imbeccate di poltiglia pei loro nidi; i pipistrelli mi sventolavano colle loro ali grevi e malsicure; nella stanza matrimoniale dei vecchi padroni cuculiava un gufo schernitore. Io andava vagando qua e là lasciandomi guidare dalle gambe e le gambe fedeli all’antica abitudine mi portarono al mio covacciolo vicino alla frateria. Non so come vi arrivassi sano e salvo per quei solaj malconci e rovinati, per mezzo a quei lunghi androni, dove le travature e i calcinacci caduti dal granaio impedivano ogni poco il passo, e avevano preparato comodissimi trabocchetti per precipitare ai piani sottoposti. Una rondine aveva appostato il suo nido proprio a quel travicello, sotto il quale Martino usava appendere il ramicello d’oliva alla domenica delle Palme. Alla pace era succeduta l’innocenza. Mi ricordai di quel libricciuolo trovato anni prima in quella camera, e che nel mio cuore disperato avea rimessa la rassegnazione della vita e la coscienza del dovere. Mi ricordai di quella notte, più lontana ancora, quando la Pisana era salita a trovarmi, e per la prima volta avea sfidato per me le sgridate e le busse della contessa. Oh quella ciocca di capelli, io l’aveva sempre con me! Avea preveduto in essa quasi il compendio simbolico dell’amor mio; nè le previsioni m’avevano ingannato. La voluttà mista di pianto, l’avvilimento avvicendato alla beatitudine, e la servitù alla padronanza, le contraddizioni e gli estremi non avevano mancato alla promessa: s’erano avvolti confusamente nel mio destino. Quanti dolori, quante gioje, quanta speranza, quanta vita da quel giorno!... E chi sa quant’altri affanni, e quanta varietà di venture m’attendevano al varco, prima che tornassi a riporre il piede su quel pavimento crollante e polveroso!... Chi sa se la mano degli uomini o il furore delle intemperie non avrebbero consumato l’opera vandalica di Fulgenzio, e degli altri devastatori rapaci di quell’antica dimora!... Chi sa se un futuro padrone non avrebbe rialzato quelle mura cadenti, rintonacato quelle pareti, e raspato loro di dosso quelle fattezze della vecchiaja che parlavano con tanto affetto, con tanta potenza al mio cuore!! Tale il destino degli uomini, tale il destino delle cose: sotto un’apparenza di giovialità, di salute, si nasconde sovente l’aridità dell’anima e la morte del cuore.
Tornai da basso che aveva gli occhi rossi, e la mente allucinata da strani fantasmi; ma le risate della Pisana e la faccia serena e rotonda di monsignore mi snebbiarono se non altro la fronte. Io m’aspettava ad ogni momento di esser richiesto se aveva imparato la seconda parte del Confiteor. Invece il buon canonico si lamentava che le onoranze non erano più tanto abbondanti come una volta, e che quelle birbe di coloni, invece di recargli i più bei capponi, come sarebbe stata la scrittura, non davano altro che pollastrelle e galletti sfiniti tanto, che scappavano pei fessi della stia.
— E dicono che son capponi — soggiungeva sospirando, — ma se mi sveglio la notte, li sento cantare che ne disgradano l’accusatore di san Pietro!... —
Indi a poco entrò il signor Sandracca col cappellano, invecchiati, mio Dio, che parevano ombre di quello ch’erano stati; entrò anche la signora Veneranda, la madre di Donato, sposata di fresco al capitano. Poteva competere con monsignore per la pinguedine, e non pareva che le settecento lire portate in dote dovessero bastare a tenerla in carne. Gli è vero che i grassi mangiano alle volte più parcamente dei magri. Ella mise sul tagliere una fetterella di lardo e sei uova, che dovevano convertirsi in frittata e comporre una cena. Ci esibì poi anche, colla bocca un po’ stretta, di prepararci alla meglio due letti; ma noi eravamo già prevenuti delle comodità che si avevano allora in castello, e sapevamo che restando noi sarebbe toccato agli sposini irsene a dormire coi polli. Avemmo perciò compassione di loro e delle sei uova, e risalimmo in calesse per andarcene a chieder ospitalità a Bruto Provedoni, come s’era stabilito fra noi prima di partire da Portogruaro.
Non vi starò ora a dire nè le festose accoglienze di Bruto e dell’Aquilina, nè la mirabile cordialità colla quale quei due poveretti fecero nostra tutta la casa. Tutto era già combinato per lettera; trovammo due camerette a nostra disposizione, delle quali e del mantenimento che volemmo comune con essi, una modestissima dozzina ci sdebitava. Non era una mercede; era un mettere in comune le nostre piccole forze, per difenderci contro le necessità che ci stringevano da ogni parte. L’Aquilina saltellava di piacere come una pazzerella; per quanto la Pisana volesse ajutarla ai primi giorni nelle faccenduole di casa, tutto era sempre pronto ed in assetto. Bruto, uscito il mattino per le sue lezioni, tornava sull’ora del pranzo e c’intrattenevamo insieme fino a notte lavorando, ridendo, leggendo, passeggiando, che le ore volavano via come farfalle sulle ali d’un zeffiro di primavera. M’era scordato di dirvi che a Padova, durante la mia intrinsichezza con Amilcare, io aveva imparato a pestare la spinetta. Il mio squisitissimo orecchio mi fece acquistare qualche abilità come accordatore, e lì a Cordovado mi risovvenni in buon punto di quest’arte imparata, come dice il proverbio, e messa provvidamente da parte. Bruto mi mise in voce nei dintorni come il corista più intonato che si potesse trovare; qualche piovano mi chiamò per l’organo; ajutato dal ferraio del paese e dalla mia sfacciataggine me la cavai con discreto onore. Allora la mia fama spiccò un volo per tutto il distretto; e non vi fu più organo, nè cembalo, nè chitarra che non dovesse esser tormentata dalle mie mani per sonar a dovere. Il mio ministero di cancelliere m’avea reso popolare un tempo, e il mio nome non era affatto dimenticato. In campagna chi è buon cancelliere non ha difetto a farsi anche credere buon accordatore, e in fin dei conti a forza di rompere, stirare e torturar corde, credo che riuscii a qualche cosa.
Finalmente diedi il colmo alla mia gloria esponendomi come suonator d’organo in qualche sagra, in qualche funzione. Sul principio m’azzuffava sovente cogli inesorabili cantori del Kyrie o del Gloria; ma imparai in seguito la manovra, ed ebbi il contento di vederli cantare a piena gola, senza volgersi ogni tanto pietosamente a interrogare e a rimproverare cogli occhi il capriccioso organista. Anche questa ve l’ho detta. Di maggiordomo mi feci organista; e tenetevelo bene a mente, chè la genealogia de’ miei mestieri non è delle più comuni. Bensì vi posso assicurare che m’ingegnava a guadagnarmi il pane, e tra Bruto maestro di calligrafia, la Pisana sarta e cucitrice, l’Aquilina cuoca, e il vostro Carlino organista, vi giuro che alla sera si rappresentavano delle brillanti commediole tutte da ridere. Ci mettevamo in canzone a vicenda: eravamo intanto felici, e la felicità e la pace mi resero a tre tanti la salute che aveva prima.
Alle volte andavo a Fratta, e conducevo fuori a caccia il signor capitano e il suo cane. Il capitano non voleva uscire da quattro pertiche di palude, che sembravano da lui prese in affitto, e nelle quali le anitre e le gallinelle si guardavano bene di porre il piede. Il suo cane poi aveva il vizio di fiutar troppo in aria e di guardar le piante; pareva andasse a caccia piuttosto di persici che di selvaggina; ma a furia di gridare io gli insegnai a guardar per terra, e se non colsi in una mattina i ventiquattro beccanotti del nonno di Leopardo, mi venne fatto sovente di metterne nella bisaccia una dozzina. Cinque ne cedeva al capitano e a monsignore; gli altri li teneva per noi: e lo spiedo girava, ed io era tentato molte volte di mettermi nelle veci del girarrosto; ma poi mi ricordava di essere stato intendente e mi rimetteva in atto di maestà.
I nostri ospiti mi entravano nel cuore ogni giorno più. — Bruto era diventato si può dire mio fratello, e l’Aquilina, non so se mia sorella o figliuola. La poverina mi voleva un bene che nulla più; mi seguiva dovunque, non faceva cosa che non bramasse prima sapere se mi riescirebbe gradita. Vedeva sto per dire cogli occhi miei, udiva colle mie orecchie, pensava colla mia mente. Io per me cercava di retribuirla di tanto affetto coll’esserle utile; le veniva insegnando un poco di francese nelle ore di ozio, e a scrivere correttamente in italiano. Fra maestro e scolara succedevano alle volte le più buffe guerricciole, nelle quali s’intromettevano a scaramucciare col miglior garbo anche la Pisana e Bruto. Avea preso tanto amore a quella ragazza che mi sentiva crescere per lei in capo il bernoccolo della paternità, e nessun pensiero aveva meglio fitto in testa che quello di accasarla bene, di trovarle un buono e bravo giovine che la rendesse felice. Di ciò si discorreva a lungo tra noi quand’ella era occupata nelle cose di famiglia; ma ella non pareva molto disposta a secondare le nostre idee: bellina com’era con quelle sue fattezze un po’ strane, un po’ riottose, eppur buona e savia come un’agnelletta, non le mancavano adoratori. Pure se ne mostrava affatto schiva; e alla fontana o sul piazzale della Madonna stava più volentieri con noi, che collo sciame delle zitelle e dei vagheggini.
La Pisana la incoraggiava a divertirsi, a prendersi spasso; ma poi dispiacente di vedersi ingrognare a questi suoi eccitamenti il bel visino dell’Aquilina, se la prendeva fra le braccia, e la copriva di carezze e di baci. Erano più che due sorelle. La Pisana la amava tanto, che io ne ingelosiva; se l’Aquilina la chiamava, certo ch’ella si stoglieva da me e correva da lei, capace anco di farmi il muso s’io osava trattenerla. Che cosa fosse questa nuova stranezza io non lo capiva allora; ma forse ci vidi entro in seguito, per quanto si può veder chiaro in un temperamento così misterioso e confuso come quello della Pisana.
Dopo alcuni mesi di questa vita semplice, laboriosa, tranquilla, gli affari della famiglia di Fratta mi richiamarono a Venezia. Si trattava di ottenere dal conte Rinaldo la facoltà di alienare alcune valli infruttifere affatto verso Caorle, le quali erano richieste da un ricco signore di quelle parti che tentava una vasta bonificazione. Ma il conte, tanto trascurato ed andante per solito, si mostrava molto restio a quella vendita, e non voleva accondiscendere per quanto evidenti fossero i vantaggi che gliene doveano derivare. Egli era di quegli animi indolenti e fantastici che svampavano in sogni, in progetti, ogni loro attività; e appoggiano le loro speranze ai castelli in aria, per esimersi appunto di fabbricare in terra qualche cosa di sodo. Nella futura coltivazione di quelle fondure paludose egli sognava il ristoro della sua famiglia, e non voleva per oro al mondo frodare la propria immaginazione di quel larghissimo campo d’esercizio. Arrivato a Venezia trovai le cose mutate d’assai.
Le straordinarie giubilazioni per l’aggregazione al regno italico aveano dato luogo mano a mano ad un criterio più riposato del bene che ne proveniva al paese. Francia pesava addosso come qualunque altra dominazione; forse le forme erano meno assolute, ma la sostanza rimaneva la stessa. Leggi, volontà, movimento, tutto veniva da Parigi, come oggidì i cappellini e le mantiglie delle signore. Le coscrizioni eviravano letteralmente il popolo; le tasse, le imposizioni mungevano la ricchezza; l’attività materiale non compensava il paese di quello stagnamento morale che intorpidiva le menti. Gli antichi nobili governanti, o avviliti nell’inerzia, o rincantucciati nei posti più meschini dell’amministrazione pubblica; i cittadini, ceto nuovo e ancora scomposto, inetti per mancanza d’educazione al trattamento degli affari. Il commercio languente, la nessuna cura degli armamenti navali, riducevano Venezia una cittaduzza di provincia. La miseria, l’umiliazione trapelavano dappertutto, per quanto il vicerè s’ingegnasse di coprir tutto collo sfarzo glorioso del manto imperiale. Gli Ormenta, i Venchieredo duravano ancora al governo; nè cacciarli si poteva, perchè erano i soli che se ne intendessero; ponendo poi sopra loro altri dignitari francesi e forestieri, s’avea ferito l’orgoglio municipale senza raddrizzare l’andamento obbliquo ed oscuro della cosa pubblica. A Milano, dove o bene o male erano sgusciati da una Repubblica, lo spirito pubblico fermentava ancora. A Venezia, dopo la conquista succedeva la conquista, i servitori succedevano ai servitori, colla venale indifferenza di chi cerca l’interesse del padrone che paga.
Io rimasi un po’ sfiduciato di quei segni d’indolenza e di trascuratezza: vidi che Lucilio non avea poi tutto il torto di esser fuggito a Londra, anzi che il buonsenso pubblico stava per lui. Ma per quanto io avessi cercato di rappiccare corrispondenza con lui, egli non si degnava più di rispondere alle mie lettere. Io mi stancai di picchiare dove non mi si voleva aprire, e m’accontentai di ricevere sue novelle di rimbalzo o da qualche conoscente di Portogruaro, o dalle voci che correvano in piazza. Lo si diceva medico in gran fama a Londra, e accreditatissimo presso le principali famiglie di quell’aristocrazia. Sperava molto nell’Inghilterra, per la cacciata del tiranno Bonaparte dalla Francia e pel riordinamento dell’Italia: le idee giuste e moderate non gli aveano durato a lungo; la smania del fare e del disfare, lo aveva tratto fuori di strada un’altra volta. Comunque la sia, io non mi fermai a Venezia che circa un mese, sperando sempre di ottenere dal conte Rinaldo la sospirata procura; ma non altro mi venne fatto d’estorcergli, che il permesso di vendere alcune pezzi staccati di quei paduli; il resto lo volea proprio serbare per la futura redenzione della famiglia. Così si cavarono da quelle vendite poche migliaja di lire che servirono soltanto a fornire, di qualche posta più grossa, il tavoliere da gioco della vecchia contessa. È proprio vero che la morte ruba i migliori, e lascia gli altri; costei ch’era la rovina della casa non facea mostra di volersene andare: e così pure quell’incomodo marito Navagero s’ostinava a non voler lasciar vedova la moglie.
Io sperava di condur meco in Friuli l’Aglaura e alcuno de’ suoi ragazzini; ma la morte della suocera la trattenne in famiglia: vera disgrazia, anche perchè l’aria campagnuola le avrebbe giovato per certi incommoducci che la cominciava a soffrire. Spiro, robusto come un tanghero, non voleva credere alla gracilità della moglie; ma il fatto sta che a non curarsi dapprincipio con qualche distrazione, con qualche viaggio, la sua salute divenne sempre più cagionevole, e Spiro se ne persuase quando non c'era più tempo da rimediarvi. Egli le andava dicendo, che se voleva, poteva andarne in Grecia con suo padre alla prima occasione; ma la tenera madre non voleva arrischiare i ragazzini, piuttosto gracili anch’essi, a viaggi lunghi e pericolosi. Rispondeva sorridendo che starebbe a Venezia, e che già, se l’aria nativa non la rimetteva in salute, nessun’altra avrebbe avuto una tale virtù. Io rimproverava Spiro di farsi troppo mercante, di non badar altro che alle provvisioni delle cambiali, e ai prezzi del caffè, che crescevano sempre per le crociere inglesi. Ma egli scrollava la testa, senza risponder nulla, ed io non capiva cosa volesse dirmi con questo atto misterioso.
Il fatto sta che mi toccò ripartir solo pel Friuli, e i divertimenti, e le gite, e i bei giorni di pace, di moto, di campagna, idoleggiati insieme coll’Aglaura e i suoi fanciulletti, rimasero una delle tante speranze che mi affretterò di avverare nell’altro mondo.
Trovai a Cordovado cresciuta più che mai l’amicizia, l’intrinsichezza, e direi più se vi fosse una parola più espressiva, fra la Pisana e l’Aquilina. Omai l’amore della prima non giungeva a me che pel canale di questa. A questa toccava dire: — Guarda il signor Carlo!... Il signor Carlo ti domanda!... Il signor Carlo ha bisogno di questo e di quello! — Allora solamente la Pisana si prendeva cura di me; altrimenti gli era come se io non ci fossi; un’eclisse completa. L’Aquilina mi stava dinanzi, e l’anima della Pisana non vedeva che lei. Fino in certi momenti, nei quali per solito il pensiero non ispazia molto lontano, io sorprendeva la mente della Pisana occupata dell’Aquilina. Se fossimo stati ai tempi di Saffo avrei creduto a qualche mostruoso stregamento. Che so io?... Non poteva raccapezzarci nulla: l’Aquilina mi diventava alle volte perfino odiosa, e il minor male ch’io dicessi in cuor mio della Pisana, si era di chiamarla pazza.
Eccomi arrivato ad un punto della mia vita, che mi riuscirà molto difficile dichiarare agli altri, per non averlo potuto mai chiarir bene bene nemmeno a me: voglio dire al mio matrimonio. Un giorno la Pisana mi chiamò di sopra nella nostra stanza, e senza tanti preamboli mi disse:
— Carlo, io m’accorgo di esserti venuta a noja; tu non mi puoi voler più l’un per cento del bene che mi volevi. Tu hai bisogno d’un affetto sicuro, che ti ridoni la pace e la contentezza della famiglia. Ti rendo la tua libertà e voglio farti felice.
— Che parole, che stranezze son queste? — io sclamai.
— Sono parole che mi vengono dal cuore, e le medito da un pezzo. Lo dico e lo ripeto; tu non puoi volermi bene. Seguiti ad amarmi o per abitudine o per generosità; ma io non posso sacrificarti più a lungo, e devo per ricompensa metterti sulla vera strada della felicità.
— La strada della felicità, Pisana? — Ma noi l’abbiamo battuta lunga pezza insieme quella strada fiorita di rose senza spine! Basterà unire ancora braccio a braccio, perchè le rose ci germoglino sotto i piedi, e la contentezza ci sorrida di bel nuovo in qualunque parte di mondo!
— Ecco che tu non mi capisci, o anzi non capisci te stesso. Questo è il mio delirio. — Carlo, tu non sei più un giovinotto sventato e senza esperienza; e non puoi accontentarti d’una felicità che ti può mancare dall’oggi al dimani. Tu devi prender moglie!
— Dio lo volesse, anima mia! — No, il cielo mi perdoni questo sconsiderato movimento di desiderii, ma quando tuo marito avesse lasciato il mondo delle infermità per quello della salute eterna, il primo mio voto sarebbe di unire la tua sorte alla mia, colla santità religiosa del giuramento.
— Carlo, non perderti ora in cotali sogni. — Nè mio marito vuol morire per ora, nè tu devi consumare inutilmente gli anni più belli della virilità. Io ti sarei una moglie assai manchevole; vedi che non son fatta per la fortuna di aver prole!... e così cosa rimane una moglie?... No, no, Carlo, non illuderti; per esser felice devi appigliarti al matrimonio....
— Basta, Pisana!... Vuoi dirmi che non mi ami più?
— Voglio dirti che ti amo più di me stessa; e per questo m’ascolterai e farai quello che ti consiglio....
— Non farò null’altro che quello che il cuore mi comanda.
— Ebbene, il tuo cuore ha parlato. — E tu la sposerai.
— Io la sposerò?... Ma tu vaneggi! ma tu non sai quello che dici!
— Sì! ti dico... tu sposerai... sposerai l’Aquilina!...
— L’Aquilina!... Basta!... Torna in te, te ne scongiuro.
— Parlo del mio miglior senno. — L’Aquilina è innamorata di te, ella ti piace, ti conviene per tutti i versi. La sposerai!
— Pisana, Pisana! oh, non vedi il male che mi fai!
— Vedo il bene che ti procuro; e se avessi anche voglia di sacrificare me stessa al tuo meglio, nessuno potrebbe impedirmelo.
— Te lo impedisco io!... Ho sopra di te diritti tali, che tu non devi, che tu non puoi dimenticare!
— Carlo, senza di te io avrò il coraggio di vivere... Misura la mia forza dalla sfrontatezza di questa confessione. L’Aquilina invece ne morrebbe. Ora scegli tu stesso. Per me ho bell’e scelto.
— Ma no, Pisana, ravvediti!... Tu stravedi, tu ti immagini quello che non è. L’Aquilina nutre per me un tenero ma calmo affetto di sorella: ella gioirà sempre della nostra felicità.
— Taci, Carlo! credi all’onniveggenza d’una donna. — Lo spettacolo della nostra felicità avvelena la sua giovinezza...
— Dunque fuggiamo, torniamo a Venezia.
— Tu, se ne hai il cuore: io no. — Io amo l’Aquilina. Io voglio farla felice: credo che tu pure sarai felice di sposarti a lei: e io unirò le vostre mani, e benedirò le vostre nozze.
— Oh, ma io ne morrei!... Io dovrei odiarla: sentirei tutte le mie viscere sollevarsi contro di essa, e il mio peggior nemico non mi sarebbe tanto abbominevole a dovermelo stringer fra le braccia.
— Abbominevole l’Aquilina!... Scusa, Carlo, ma se ripeti simili infamie, io fuggo da te, io non vorrò più vederti!... Gli angeli comandano l’amore: tu non sei tanto perverso da abborrire quello che ci scende dal cielo, come la più bella incarnazione d’un pensiero divino. Guarda, guarda, apri gli occhi, Carlo!... guarda l’assassinio che commetti. Fosti cieco finora e non t’accorgesti nè del suo martirio nè de’ miei rimorsi. Fui tua complice finora, ma giuro di non volerlo esser più; no, io non assassinerò colle mie mani una creatura innocente, che mi ama come una figliuola, benchè... Oh ma sai, Carlo, che il suo eroismo è di quelli che oltrepassano la stessa immaginazione!... Mai un movimento di rabbia, mai uno sguardo d’invidia: una rassegnazione stanca, un amore invece che cava le lagrime!... No, no ti ripeto, io non pagherò coll’assassinio l’ospitalità che avemmo in questa casa; e tu pure mi seconderai nella mia opera di carità!... Carlo, Carlo, eri generoso una volta!... Una volta mi amavi, e se io t’avessi incitato ad un’impresa coraggiosa e sublime, non avresti aspettato tante parole! —
Che volete? Io ammutolii dapprincipio, indi piansi, supplicai, mi strappai i capelli. Inutile! Rimase incrollabile, dovessimo morirne ambidue; mi ripeteva di guardare, di guardare, e che se non mi fossi convinto di quanto ella affermava, e se non avessi accondisceso a quanto mi proponeva, sarei stato un essere spregevole, indegno al pari d’amore che incapace d’ogn’altro sentimento. D’allora in poi mi negò ogni sguardo, ogni sorriso; mi proibì l’accesso alla sua stanza; fu tutta per l’Aquilina, e nulla per me.
Infatti, per quanto volessi illudermi, mi fu forza riconoscere che in quanto all’amore della giovinetta per me, i suoi sospetti non andavano lontani dal vero. Per qual incantesimo non me ne fossi accorto, non ve lo saprei dire: e arrabbiai della mia sciocchezza, della mia ingenuità. Mi provai anche a volgere contro l’Aquilina qualche parte di questa rabbia, ma non ne fui capace. Dopochè ella indovinò quanto fra me e la Pisana era avvenuto, ella assunse verso di me un contegno così supplice, vergognoso, che mi tolse ogni coraggio. Pareva mi chiedesse perdono del male involontariamente commesso; e la vidi talvolta adoperarsi presso la Pisana per rabbonirmela. Si studiava perfino di sfuggirmi, di fare con me la stizzosa, perchè non si avvedessero di quanto succedeva nel suo cuore, e la concordia rinascesse in mezzo a noi. Bruto, che fin’allora era andato in solluchero per l’allegra vita che si menava, scoperse con rammarico quei primi segni di dissapore e di irrequietezza; non ne capiva gran fatto, ma gliene doleva all’animo. Ne mosse anche parola a me, ma io mi ritraeva burbanzoso, stringendomi nelle spalle; altro motivo di disgusto e di sospetto. L’Aquilina intanto ci perdeva nella salute; il fratello se ne inquietò; furono chiamati medici che fantasticarono molto, e non indovinarono nulla. La Pisana mi stringeva sempre; io mi rammoliva. Alla fine, non so come, mi lasciai sfuggire dalla bocca un sì.
Bruto fu meravigliatissimo della proposta fattagli dalla Pisana, ma dietro reiterate assicurazioni di questa e che tutto fra me e lei era terminato di spontaneo accordo e che l’Aquilina moriva per me, egli se ne persuase. Se ne fece parola alla giovinetta, che non volle credere da principio, e poi ne smarrì i sentimenti per la consolazione. Ma poi all’abboccarsi con me, rimase senza fiato e senza parola; la poverina presentiva che io me le offeriva trascinato a forza, e non aveva coraggio di chiedermi un tal sacrifizio. Lo credereste che la sua attitudine finì di commovermi affatto, e che sentii d’un subito nel cuore l’abnegazione stessa della Pisana?... Mi parve di salvare la vita d’una creatura angelica a prezzo della mia, e la coscienza di questa valorosa azione diede al mio aspetto la serena contentezza della virtù. All’Aquilina non parve vero: in prima stentava a credere quello che la Pisana le aveva dato ad intendere, che cioè noi due non ci eravamo amati mai altro che come buoni parenti, ma poi vedendomi presso di lei tranquillo, affettuoso, e alle volte perfino felice, se ne capacitò. Allora non pose più freno agli slanci di gioja dell’anima sua, e mi convenne essergliene grato, se non altro per compassione.
Vedere quell’ingenua creatura rifiorir allora come una rosa inaffiata dalla rugiada, e risorgere sempre più bella e ridente ad un mio sguardo, ad una parola, fu lo spettacolo che mi innamorò non forse di lei, ma di quell’opera miracolosa di carità. La Pisana non capiva in sè pel contento di questi felici effetti, e la sua gioia talvolta m’incaloriva in una virtuosa emulazione, tal’altra mi cacciava nel cuore la fitta della gelosia. Oh qual tumultuoso vortice d’affetti s’accavala e si sprofonda fra le piccole pareti d’un cuore! Anche allora io diedi prova di quell’estrema pieghevolezza, che impresse molte azioni della mia vita d’un colore strano e bizzarro, per quanto la mia indole tranquilla e riflessiva mi allontanasse dalla stranezza e dalla bizzarria. Ma la stravaganza era di chi mi conduceva pel naso; benchè poi non possa dire se in quell’occasione adoperai male, lasciandomi condurre, o se meglio avrei fatto di inspirarmi da me, e di prendere qualche deliberazione contraria. Certo i miei sentimenti, lo dico senza adulazione, toccarono allora l’ultimo segno della generosità; e me ne maraviglio senza pentirmene. Pentirsi d’una azione buona e sublime, per quanto danno ce ne incolga poi, è sempre atto di gran codardia.
Meglio è contarvela in poche parole. Per la Pasqua del milleottocentosette si stabilirono le nozze. La Pisana fu tanto accorta da farsi invitare dallo zio monsignore a starne presso di lui come governante. Io rimasi con Bruto e l’Aquilina e lo sposalizio fu celebrato, mio malgrado e a richiesta della Pisana, con grande solennità. L’Aquilina, poveretta, gongolava tutta e non toccava terra pel gran piacere, io mi sforzava di godere della sua gioia, e posso credere di non averla almeno guastata. Alle volte mi guardava indietro sorprendendomi di esser arrivato fin là, e non comprendendo nè il perchè nè il come; ma la corrente mi trascinava; se fu tempo in cui credessi alla fatalità fu certamente allora.
Io sposai l’Aquilina. Monsignore di Fratta benedisse il matrimonio; la Pisana fu matrina della sposa. Io mi sentiva entro una gran voglia di piangere, ma non era senza qualche dolcezza quella melanconia. Al pranzo di nozze non ci fu grande allegria; ma anco non rimasero sui piatti molti avanzi. Monsignore mangiava come avesse vent’anni; io, vicino a lui e un po’ sbalordito dagli inopinati accidenti che m’intervenivano, gli domandai non so quante volte della sua salute durante il pranzo. Mi rispondeva fra un boccone e l’altro:
— La salute andrebbe a meraviglia, se non ci fosse questo benedetto scirocco! Una volta non era così. Te ne ricordi, Carlino?... —
Peraltro non pioveva da un mese; e fra tutti i popoli d’Italia Monsignore era il solo che sentisse lo scirocco. Alle mie nozze intervennero, ci s’intende, Donato colla moglie e i figliuoli, il Capitano colla signora Veneranda, e il cappellano di Fratta. Un altro commensale di cui forse vi sarete dimenticati fu lo Spaccafumo; il quale in tanta confusione di governi e di avvenimenti che s’era succeduta, avea sempre continuato ad amministrare la giustizia a suo modo; ma ad ogni anno passava qualche mesetto in prigione e allora s’era fatto vecchio e ubriacone. Le sue prodezze erano omai più di parole che di opere; e i monelli si trastullavano di stuzzicarlo, e di fargli dire sui mercati le più strambe corbellerie. Egli viveva si può dire di elemosina, e per quanto Bruto lo invitasse a sedere alla mensa comune, non ci fu verso di poterlo stanare dalla cucina, ove godette delle nozze coi gatti coi cani e colle guattere. La sera gran festa da ballo; allora si pensò più che agli sposi a darsi bel tempo, e la giocondità fu piena e spontanea. Marchetto sagrestano, che pareva il diavolo vestito da prete, grattava il contrabbasso, e in onta all’età, con una tal furia da cavallante, che le gambe duravano fatica a tenergli dietro. La Pisana cercò di scomparir quella sera alla muta; ma io m’accorsi del momento di sua partenza: i nostri occhi s’incontrarono, e si scambiarono, credo, un ultimo bacio. L’Aquilina parlava allora colla Bradamante; ma rimase un momento svagata.
— Cos’hai? — le chiese la sorella.
— Nulla, nulla — rispose tramortita la novella sposa. — Non ti pare che qua dentro si affoghi dal caldo?... —
Io udii quelle parole benchè pronunciate a bassissima voce; e non pensai più che a compiere i nuovi doveri che mi era imposto. Fui gentile, amoroso coll’Aquilina fino al finir della festa. E poi?... E poi m’accorsi che in certi sacrifizi la Provvidenza, forse per retribuirne il merito, fa mettere qualche discreta dose di piacere. L’innocenza, la leggiadria di mia moglie vinsero affatto la causa; e feci assoluto proponimento di mostrarmele sempre buon marito. — Quello che è fatto è fatto, — pensai; — il da farsi facciamolo bene. —
Non credo che l’Aquilina s’accorgesse, nemmeno durante i primi giorni, dello sforzo durato per dimostrarle quell’ardenza d’amore che infatti io non sentiva. Ma a poco a poco m’abituai a volerle bene in quel nuovo modo che doveva; non durai più tanti sforzi; e se sospirava ripensando al passato, trovava che anche senza molta filosofia si poteva accontentarsi del presente. Le opere buone sono una gran distrazione. Quella di far felice mia moglie mi occupò tutto; e mi vidi dopo un solo mese più buon marito di quanto non avrei mai osato sperare.
La Pisana fu testimone di questo mio interno mutamento. Persuaso che quel suo grande, ma troppo facile sacrifizio a favore della Aquilina, non potesse spiegarsi che con un sensibile raffreddamento del suo amore per me, non mi diedi briga per nasconderle l’agevolezza ch’io trovava, maggiore d’ogni speranza, nel rassegnarmi a portare la mia parte di sacrifizio. Speravo che, vedendomi meno malcontento, avrebbe avuto minor rimorso della tirannia con cui aveva fatto violenza alla mia volontà. Sulle prime ella la capì per questo verso; ma i giorni passavano e nelle frequenti visite che ne faceva andava sempre più oscurandosi in viso; e quelle congratulazioni che recava negli occhi della mia bravura, si cambiarono a poco a poco in sospetti ed in stizza. Io credeva non mi trovasse abbastanza premuroso presso l’Aquilina e raddoppiava di zelo e di buona volontà; ella invece s’ostinava nel suo broncio, ed anche con mia moglie non si mostrava più tanto affettuosa come da principio. Un mattino capitò a casa nostra tutta scalmanata, che Bruto e l’Aquilina erano fuori per non so qual motivo. Senza aspettare neppure ch’io la salutassi mi chiuse la bocca con un gesto.
— Tacete — mi disse — ho fretta di sbrigarmi. Voi adesso vi amate: non avete più bisogno di me. Torno a Venezia! —
Io voleva rispondere, ma ella non me ne lasciò il tempo. Mi gridò nell’uscire che salutassi mia moglie e il cognato: indi rimontò nel calessino col quale era venuta accompagnata dal cappellano di Fratta, e per correre che facessi non mi venne fatto di raggiungerla. Un’ora dopo, quand’io capitai al castello, era già partita, nè si sapeva se per la strada di Portogruaro o di Pordenone colla carrettella dell’ortolano. Fui imbrogliatissimo di dar ragione all’Aquilina e a Bruto d’una sì precipitosa partenza, ma ebbi la felice idea d’inventar la favola d’una malattia improvvisa della signora contessa, e fui creduto senza fatica. Allora non felice nè immemore, ma tranquillo e rassegnato, mi rimisi alla mia vita di organista e di marito. L’Aglaura e Spiro scrivevano sempre più maravigliati di quella mia improvvisa conversione; io rispondeva celiando che Dio m’avea toccato il cuore: ma sovente si scrive quello che non si sente qua dentro.
I mesi correvano via semplici, laboriosi, sereni come quei cieli d’autunno nei quali il sole abbellisce la natura senza scaldarla. L’Aquilina tutta mia, si rivestiva ogni giorno di nuove grazie, di nuovi pregi per piacermi; la riconoscenza per un amore così nobilmente dimostrato m’inchinava sempre più verso di lei, e rendeva sempre più rari i rimpianti del passato. Il cuore volava ancora talvolta; ma quando la mente instituiva confronti le conveniva confessare che l’Aquilina era la più amabile e la più perfetta fra quante donne io m’avessi mai conosciuto. A lungo andare i giudizi della mente hanno qualche influenza sugli affetti d’un uomo di trentaquattr’anni. Quando poi m’avvidi ch’ella era incinta e quando mi strinsi fra le braccia il bambino più robusto e più roseo che m’avessi mai veduto, e sentii commoversi le mie viscere di padre, e di questa consolazione dovetti confessarmi debitore a lei, allora non seppi più chi mi fossi; ringraziai quasi la Pisana di avermi sforzato a quello strambo spropositato matrimonio. Peraltro la mia memoria non era nè morta nè ingrata. Io voleva avere sovente notizie da Venezia, e sapendo che la Pisana, accasata colla Clara presso suo marito, non d’altro si occupava che di curare le infermità di questo, mi uscirono da capo certi giudizi temerari che aveva fatto sulla sua fuga dal Friuli. S’ella fosse stata arrabbiata contro di me, non ne avrebbe dato segno a quel modo. Io conosceva per pratica le vendette della Pisana. Intanto anche lontano non cessava di esserle utile. Avea rimesso in buon sesto l’amministrazione di quei pochi coloni che dipendevano ancora dal castello di Fratta, e regolato l’esazione di molti livelli. Le entrate crebbero del trenta per cento. Monsignore potè mangiare qualche cappone che non era gallo, e il conte Rinaldo, malgrado la sua selvatichezza, mi ebbe a ringraziare dell’essermi adoperato a loro pro senz’essere richiesto, e con tanta efficacia.
Vi prenderà stupore e noia che la mia vita, per qualche tempo così capricciosa e disordinata, riprendesse allora un tenore sì quieto e monotono. Ma io racconto e non invento: d’altra parte è questo un fenomeno comunissimo e naturale nella vita degli Italiani, che somiglia spesso al corso d’un gran fiume lento, paludoso, interrotto a tratti da sonanti e precipitose cascate. Dove il popolo non ha parte del governo continuamente, ma se la prende a forza di tanto in tanto, questi sbagli, queste metamorfosi devono succedere di necessità, perchè altro non la vita del popolo se non la somma delle vite individuali. Per questo io girai alcuni anni lo spiedo, fui studente e un po’ anche cospiratore; indi tranquillo cancelliere, poi patrizio veneto nel Maggior Consiglio e segretario della Municipalità: da amante spensierato di tutto, mi mutai di colpo in soldato: di soldato in ozioso un’altra volta, poi in intendente e in maggiordomo: finii a maritarmi e a sonar l’organo.
In questo perpetuo su e giù se salii o scesi lo direte voi: e per me so che ci consumai trentaquattr’anni, quegli anni nei quali vissi tutto per me. Dopo, la famiglia, i legami, i doveri precisi e materiali s’impadronirono de’ miei sentimenti. Non fui più il puledro che scorazza pei paludi saltando fossati e sforacchiando frutti, ma il cavallo bardato che tira gravemente o la carrozza d’un cardinale, o il carretto della ghiaia. Ma non vi spaventate; non mancheranno terremoti e rovesci per tornare in libertà il cavallo, e fargli riprendere una matta corsa attraverso il mondo. Solamente ora sono sicuro di non correr più; ma ho, vi ripeto, come monsignore, lo scirocco degli ottant’anni nelle gambe.
Mentre io mi faceva dì per dì sempre più casalingo e campagnuolo, e al mio piccolo Luciano che già trottolava nel cortile aggiungeva un secondo fanciulletto cui mettemmo nome Donato, in onore dello zio che gli fu padrino, nel mondo strepitavano le glorie guerresche di Napoleone. Vinceva la Prussia a Jena, l’Austria a Wagram; s’imparentava colle vecchie dinastie, e signore dell’Europa chiudeva il continente all’Inghilterra, e minacciava il mezzo asiatico impero degli Czar. L’Italia, tutta in suo pugno, sbocconcellata a capriccio; aveva tuttavia retto a Milano lo stendardo dell’unità. Si avvezzavano a guardar quello, e Napoleone piuttosto nemico che protettore, per la sua ambizione smisurata e noncurante di storia o di popoli. Ma quando la spada dataci da lui fosse caduta a terra, chi avrebbe osato impugnarla? A questo non pensavano. Si credevano forti, non sapendo che la forza riposava sopra il colosso e con lui si sarebbe fiaccata. Di cento che armeggiavano uno solo pensava, e agli altri novantanove sarebber cadute le armi e le braccia nel maggior cimento. Io non era spettatore, ma indovinava. Spiro frattanto scriveva lettere sempre più animate e misteriose; e ben m’accorgeva che qualche sublime idea fermentava nell’anima del greco mercante. Rigas il poeta aveva fondato la prima Eteria; e ottenutone per ricompensa il tradimento dai cristiani naturali alleati e il palo dai Turchi. Una seconda congiura si ordiva in Italia a profitto dei Greci, protetta da Napoleone. Sognavano di contrapporre al nuovo Carlomagno un nuovo impero di Bisanzio. Ed erano sogni, ma raccendevano le ceneri non mai spente dei greci vulcani; e si cantava fra le montagne dei Mainotti:
«Un fucile una sciabola e s’altro manca una fionda, ecco l’armi nostre. Io vidi gli agà prosternati a’ miei piedi; mi chiamavano loro signore e padrone.
Io avea rapito loro il fucile, la sciabola, le pistole.
O Greci, alto le fronti umiliate! prendete il fucile, la sciabola, la fionda. E i nostri oppressori ci nomeranno ben presto loro signori e padroni.»
Fra le orde selvagge degli Albanesi, e le tribù pastorecce del Montenegro, ove è un insulto dire: i tuoi son morti nel lor letto! serpeggiava il fuoco dell’entusiasmo. Alì Tebelen trionfava colla crudeltà e colla perfidia, ma gli esuli dell’Ellade inspiravano a tutta Grecia il disegno di terribili rappresaglie. Quella non si manifestava ancora, ma era forza verace, forza invincibile d’una nazione che ha meditato da lungo la propria sventura, ha accumulato gli insulti, e aspetta paziente il momento della vendetta. Il vecchio Apostulos partì un’ultima volta per la Morea; la speranza di rigenerare la Grecia colla politica dei Fanarioti era svanita; egli si volgeva a speranze di guerra e di sangue, coll’avidità del leone che si vede strappata la preda quando appunto credeva di addentarla. La morte lo colse a Scio, e Spiro me ne diede il tristo annunzio colle forti parole, che gli ultimi desiderii di suo padre sarebbero stati lo spirito d’ogni sua impresa. Egli m’invitava sempre a trasferirmi colla famiglia a Venezia, ove diceva non mi sarebbe mancato nè decoroso sostentamento nè occasione di esser utile a me ed agli altri. Ma contento di quello che aveva, non arrischiava d’avventurar me e soprattutto i miei in malcerto tentennamento. Bruto, leggendo qualche brano delle lettere di mio cognato, si mordeva le labbra, e pestava rabbiosamente la sua gamba di legno. Io guardava l’Aquilina e il piccolo Donato che le pendeva alla mammella: non poteva distogliermi da quella pace.
Successe la gran guerra dei moderni giganti. Napoleone entrò in Germania con cinquecentomila uomini, diede la posta a Dresda a imperatori e re più vassalli che alleati; e quando alcuni fra essi gli erano annunciati, diceva: Aspettino. Voleva chieder conto allo Czar della tiepida amicizia. Il mistico Alessandro chiamò all’armi la santa Russia, oppose alla guerra dell’ambizione la guerra del popolo; e quella miserabile cavalleria dei Cosacchi, come la chiamava Napoleone, fu il flagello e lo sgomento dell’invincibile esercito. Giunse a Mosca, vincitore sempre: ne fuggì vinto dal fuoco, dal gelo, dagli elementi insomma, ma non dagli uomini. Quarantamila italiani insanguinarono delle proprie vene le nevi della Russia per assicurare la ritirata agli avanzi dispersi della grande armata. Ma il bollettino che annunziava l’immenso disastro conchiudeva: «La salute di Sua Maestà non fu mai migliore.» Conforto bastevole alle vedove, agli orfani, alle madri orbate della prole! Egli è a Parigi a levar nuovi eserciti, a rincalorire la devozione colla presenza, e il coraggio con nuove bugie. Ma la Francia non gli crede, la Germania insorge, gli alleati tradiscono. Egli ricade a Lipsia; abdica all’Impero di Francia, al Regno d’Italia e si ritira all’isola d’Elba.
Allora si vide cosa fosse il Regno d’Italia senza Napoleone, e a che i popoli sieno menati da istituzioni anche maschie senza libertà. Fu uno sgomento, una confusione universale, un risollevarsi, un combattersi di speranze diverse, mostruose, tutte vane. A Milano si trucida un ministro, si abbattono le insegne dell’antico potere, si gavazza nella presente licenza non pensando al futuro. E il futuro fu come lo volevano gli altri; in onta alle rispettose e sensate domande della Reggenza provvisoria, in onta alle belle parole degli ambasciatori esteri. Il popolo non aveva vissuto; non viveva.
Se io fossi costernato di questi avvenimenti che mi scotevano dal mio torpore di padre di famiglia, e avveravano quelle paure che da lunga pezza aveva concepito, non è d’uopo il dirlo. Dal racconto di questa vita dovete già avermi conosciuto abbastanza. Sospirai per me, piansi di disperazione per la patria, indi guardando alle sembianze tenerelle dei figliuoli mi consolai, e rividi un barlume di speranza. Eravamo nati si può dire diciott’anni prima; ci voleva la scuola delle sventure per educarci, e la vita dei popoli non si misura da quella degli individui; se noi figliuoli s’aveva scontato la viltà dei padri, i figliuoli nostri forse avrebbero raccolto la messe fecondata dal nostro sangue e dalle lagrime. Padri e figliuoli sono un’anima sola, sono la nazione che non perisce mai. Così mi affidava alla rigenerazione morale, non al Vicerè Beaharnais, nè allo Czar Alessandro, nè a Lord Bentenk, nè al general Bellegarde.
A questo modo passano rapidi gli anni come i mesi della giovinezza; ma non crediate che in effetto fossero tanto veloci come sembra a raccontarli. Più il tempo è lungo a narrarlo, e più forse fugge rapidamente in realtà. A Cordovado i giorni erano tranquilli, sereni, dolci anche se volete, ma la soverchia brevità non era il loro difetto. Le lettere della Pisana assai rare da principio, diventarono mano a mano più frequenti all’infuriare delle tempeste politiche; pareva che, immaginandosi quanto ne doveva soffrire io, ella s’affrettasse a porgermi il conforto della sua parola. Mi diceva dei grandi schiamazzi che aveano fatto i Venchieredo, l’Ormenta e il padre Pendola coi suoi proseliti; delle belle cariche date ai suoi cugini Cisterna, massime ad Augusto ch’era diventato di botto, credo, segretario di governo; e d’Agostino Frumier che volendo ritirarsi dagli affari ed essendo ricchissimo, non avea sdegnato di domandare il quarto o il quinto di pensione che gli competeva.
Molte, come vedete, furono le porcherie; e non poteva essere altrimenti perchè l’astinenza era la virtù dei migliori, nè si giungeva a fare di meglio. Peraltro il vecchio Venchieredo, osteggiato pel soverchio zelo, avea perduto assai della sua influenza ed era scaduto dai primissimi gradi fino a quello di Direttore della Polizia. Egli ne sbuffava; ma non c’era rimedio. Servir troppo è servir male: non era stato furbo abbastanza. — Il Partistagno invece rimise il piede in Venezia colonnello degli ulani; aveva sposato una baronessa morava, diceva perchè somigliantissima ad una sua cavalla prediletta. Egli serbava ancora il suo astio contro la famiglia di Fratta; e saputo che la Clara uscita di convento abitava il Palazzo Navagero, si pavoneggiava sovente in grande assisa sotto le finestre di quello, sperando darle nell’occhio e persuaderla a dire: Gran peccato quello di non averlo voluto ad ogni costo! — Ma la Clara, diventata miope a forza di aguzzar gli occhi nell’Uffizio della Madonna, non ci vedeva più fin nella calle e non distingueva uno di que’ pezzenti che fermano le gondole dal magnifico e spettacoloso colonnel Partistagno.
Fuvvi chi disse che anche Alessandro Giorgi fosse passato dall’esercito italiano all’austriaco, serbandosi il grado di generale guadagnato alla Moskova, ma io non ci credeva. Infatti alcuni mesi dopo mi giunsero notizie dal Brasile, dove si era rifugiato e aveva trovato un buon posto. Non si dimenticava di offrirmi la sua protezione presso l’imperatore don Pedro, e mi diceva di aver trovato a Rio Janeiro parecchie contesse Migliane che mi potrebbero fare ben altro che maggiordomo. Probabilmente egli si dimenticava che ero organista ammogliato e con figli; pure mi aveva veduto me e la mia famigliuola, nel passare col principe Eugenio quando marciavano nel milleottocentonove verso l’Ungheria. Ma in onta ai suoi quarant’anni, il bel generale si conservava alquanto libertino e smemorato.
Gli smorti anni seguenti non furono che un melanconico cimitero. Il primo a traboccare fu il cappellano di Fratta, indi toccò allo Spaccafumo; poi Marchetto il cavallante, sagrestano e sonatore di contrabbasso, che morì colpito dal fulmine mentre scampanava durante un temporale. Gli abitanti della parrocchia lo venerano anche adesso come un martire. Durante l’anno della carestia e nel susseguente, la morte fece man bassa sulla povera gente; fu un sonare a morto continuo, e così se n’andò via non per colpa della carestia anche la signora Veneranda, lasciando il capitano vedovo per la seconda volta,ma con settecento lire di usufrutto, il che lo liberò dal pensiero di torsi una terza moglie. Ed anche noi in quell’anno ebbimo a stringerci non poco; perchè non si trovavano più nè famiglie che pagassero il ripetitore ai loro ragazzi nè pievani che racconciassero organi. Anzi le spese fatte in quell’anno furono il principio del nostro sbilancio che poi s’aggravò sempre e mi condusse ai nuovi rivolgimenti che udrete in appresso.
Non mi ricordo precisamente quando, ma certo in quel torno il conte Rinaldo fece una gita nel Friuli; veniva per denari e siccome non ne trovò, vendette ad un imprenditore i materiali della parte più diroccata del castello. Io assistetti alla demolizione, e mi parve il funerale d’un amico; così pure il conte non potè reggere allo spettacolo di quella rovina, e toccati que' pochi quattrini se ne tornò a Venezia. Ve lo richiamava anche la malattia di sua madre, che cominciava a dar gravi timori. Appena sgomberi i cortili dalle pietre spaccate a forza di piccone, e dalle macerie ragunatevi a montagne durante la demolizione, cominciò monsignore a sentir più molesto che mai lo scirocco. Una mattina ebbe uno svenimento durante la messa, e dopo d’allora non uscì più della sua camera. Io fui a trovarlo il penultimo giorno di sua vita, gli domandai del suo stato, e mi rispose colla solita solfa. Sempre quel scirocco ostinato!!... Tuttavia mangiava anche a letto a doppie ganasce, e all’ultima ora aveva il breviario da un lato, e dall’altro mezzo pollastrello arrostito. La Giustina gli veniva domandando: — Non mangia monsignore?... — Non ho più fame! — rispose egli con voce più fioca del solito.
Così morì monsignor Orlando di Fratta, sorridendo e mangiando com’era vissuto; ma almeno si era cavata la fame. Invece sua cognata che gli andò dietro qualche mese dopo, farneticò fino agli estremi di carte e di trionfi; morì sognando vincite favolose, e collo scrigno asciutto e con ogni sua roba al Monte di Pietà. I Cisterna dovettero prestare qualche ducato al conte Rinaldo per farla seppellire, giacchè nè la Clara nè la Pisana avevano un ducato in tasca, e Sua Eccellenza Navagero si commiserava sempre della propria povertà. Tutti se n’andavano, ma costui batteva duro; segno che i miei ardentissimi voti di qualche anno addietro non avevano ottenuto grazia presso Domineddio. La Pisana mi partecipò con assai dolenti parole la morte della madre; e in segreto mi raccontò anche una visita assai impreveduta che avevano ricevuto. Una sera mentr’essa e la Clara recitavano il rosario nella cappella di casa (questa poi dalla Pisana non me la sarei aspettata), s’era annunziato un forestiero che chiedeva premurosamente di loro. Un signore piccolo, magro (dicevano) folto di barba, cogli occhi lucentissimi ad onta dell’età che sembrava di cinquant’anni e più, colla fronte molto alta e nuda affatto di capelli. Chi può essere? chi non può essere?... Vanno in sala e la Pisana riconosce più alla voce che alla figura il dottor Lucilio Vianello. Era giunto sopra una nave inglese, sapeva della Clara tornata al secolo, e veniva a chiederle per l’ultima volta l’adempimento delle sue promesse. La Pisana diceva di aver avuto paura del Dottore tanto era cupo e minaccioso; ma la Clara gli rispose netto netto che non lo conosceva più, che si era sposata a Dio, e che avrebbe continuato a pregarlo per l’anima sua.
«Vi assicuro, — così scriveva la Pisana, — che in quel momento lo sdegno, il furore lo ringiovanirono di trent’anni; indi si fece pallido pallido e prese un colore terreo di morte e l’aspetto d’un ottuagenario. Partì curvo, barcollante, mormorando strane parole. La Clara si fece il segno della croce, e m’invitò con voce posatissima a riprendere il nostro rosario. Io soggiunsi che doveva riscaldar il brodo per mio marito, e me ne dispensai; perchè proprio quella scena mi avea fatto male. Non avrei mai creduto che tanta passione covasse sotto quelle apparenze di ghiaccio, durando invitta attraverso le vicende, gli strabalzi, i rivolgimenti d’una vita poco meno che favolosa. Ve lo ricordate a Napoli e a Genova? Non pareva che si fosse dimenticato affatto della Clara? Ce ne chiedeva egli mai novella? — Mai! — Certo mi son convinta che a giudicar nettamente gli uomini bisogna aspettare che siano morti. E voi pure, Carlo, soprastate a giudicar me finch’io non abbia raggiunto la mia povera madre!»
Seguivano poi i soliti saluti e più affettuosi del solito per l’Aquilina, Bruto e i miei figliuoli, già grandicelli, poverini, e pieni di cuore e di buona volontà. Mi si raccomandava inoltre di porre una piccola pietra di commemorazione nel cimitero di Fratta per monsignor Orlando; ma a ciò io aveva già pensato mesi addietro, e don Girolamo, a dispetto del fratello notajo, mi avea prevenuto in questa pia opera. Quella lapide portava un’iscrizione di cui si potevano perdonare le eleganti bugie, perchè già nessuno ci capiva nulla in paese. Peraltro un certo compare che sapeva di lettere, era giunto ad interpretarla fino ad un certo punto, dove si diceva che il reverendo canonico era morto octuagenarius: il che significava agli otto di gennajo, secondo lui. Ma molti si ribellavano, soggiungendo che non agli otto di gennaio era morto ma ai quindici.
— Eh? cosa mai! — rispondeva il valentuomo — vorreste che gli scalpellini badassero a queste minuzie? Giorno più giorno meno, l’importante è che sia morto per incastrargli addosso la lapide. —
Io diedi contezza alla Pisana di questo suo pietoso desiderio già adempiuto da un pezzo, lodandone molto don Girolamo, il quale, benchè non fosse nè un Vincenzo di Paola nè un Francesco d’Assisi, pur sapea farsi perdonare dai poverelli di Portogruaro la roba mal acquistata dal padre. — Non son tutti come il padre Pendola! diceva io. — Ella mi rispose che a proposito del padre Pendola se ne contavano di belle. Dappoichè il Papa aveva reintegrato la Compagnia di Gesù, egli s’adoperava molto per ottenerne lo stabilimento in Venezia. Siccome il novello istituto delle convertite non prosperava, si voleva ottenere dal consenso delle poche suore rimaste e colla debita licenza dei superiori, di erogarne le entrate al primo impianto d’una casa e d’un collegio di novizii. Peraltro il governo pareva alieno dal favoreggiare quest’idea; anzi l’avvocato Ormenta, che la caldeggiava, era in voce di dover essere giubilato.
Da questa notizia io capii tutto il maneggio di quella faccenda e come quei dabben sacerdoti primi fondatori dell’istituto fossero stati ubbidientissimi burattini, nelle mani del Padre Pendola. Ma già anche per costui poco dovea durare la cuccagna; infatti morì anch’esso senza vedere i reverendi Padri stabiliti in Venezia. Buoni e tristi, tutti alla lunga dobbiamo andare. Al padre Pendola non mancarono nè epitaffi, nè satire, nè panegirici, nè libelli. Chi voleva ammazzarlo, e chi seppellirne in acqua il cadavere. Egli avea supplicato, morendo quelli che lo assistevano, di essere dimenticato come un indegno servo del Signore; nè credeva che lo avrebbero ubbidito così appuntino. Dopo una settimana non se ne parlava già più, e di tanta ambizione null’altro era rimasto che un vecchio e marcio carcame ravvolto in una tonaca, e inchiodato fra quattro assi d’abete. Nemmeno gli avean lustrato la cassa come si usa ai morti di rilievo! Che ingratitudine!... In fin dei conti poi credo che la Curia patriarcale fu contenta, di essere liberata dal pericoloso ajuto d’un sì furbo zelatore della gloria di Dio e dei proprii interessi.
Uscivano i vecchi attori, entravano i nuovi, Demetrio Apostulos il primogenito di Spiro aveva vent’anni; Teodoro, il secondo, toccava i diciotto. I miei due stavano fra i dieci ed i dodici. Donato ne aveva tre, fra i sedici ai ventidue, tre robusti giovinotti davvero, che guaj se fossero stati in età al tempo delle ultime leve napoleoniche!... Allora si continuava bensì anno per anno la coscrizione, in onta ai largheggianti proclami della Santa Alleanza; ma facilmente si concedevano gli scambi, e colla pace che si prevedeva lunghissima e profonda, molti infingardi concorrevano volentieri ai ben pasciuti ozii della milizia. La giovine generazione accennava all’antica di ritrarsi; poteva anche accennare superbamente, come poco contenta di noi; non avrebbe avuto il torto. Ma al contrario ci ammirava come ajutatori e testimoni di grandi imprese, di generosi tentativi, di incredibili portenti: pareva ci dicesse; — dirigetemi, acciocchè non cada dove voi siete caduti!... Ci voleva altro che direzione; ci voleva nerbo e non ne avevamo più; ci abbisognava la concordia, e avean saputo renderla impossibile.
Al milleottocentodiciannove durava in Europa quell’inquietudine nervosa che dura in un corpo dopo la corsa sfrenata e trafelante di alcune ore; idee chiare, sentimenti generosi e universali non erano più, se non forse in qualche testa segregata dalla folla per indolenza, per disdegno, per disperazione. Anche dove i popoli per sentimento nazionale avevano cooperato alla reazione contro la Francia, la ingratitudine premeditata dei grandi e la varia diffidenza dei piccoli mettevano ogni cosa a subbuglio. Credevano di tirar innanzi una grande impresa di libertà; invece non avevano assicurato che l’interesse di alcuni sommi, a scapito di molte vere franchigie. E questo avveniva specialmente in Germania. Da noi invece, malcontenti del passato, perchè passato senza lasciarci quella grassa eredità che s’aspettava, malcontenti del presente, perchè somigliava una crudele canzonatura, i più s’adagiarono a vivacchiare, come si dice, a imbottirsi un guscio, a fornir la cucina. L’esperienza aveva indotto una grandissima disparità d’opinioni; perciò anche i pochi bene avveduti non ne speravano nulla, o speravano troppo lontano. Solamente coloro che si erano avvezzati a quella meravigliosa attività, e non potevano distogliersene a rischio anche di lavorare per nulla, guardavano ansiosamente alla Spagna dove ferveva lo spirito liberalesco. Esclusi dal maneggio degli affari, il talento di comandare, invincibile e legittimo negli operosi ed assennati, li traeva, come dissi, alle Società Segreta. Dalle Calabrie i Carbonari aprivano le loro vendite per tutta Italia e davano mano ai democratici di Francia, ai progressisti di Spagna. La vecchia razza latina, ringiovanita dall’immaginazione e dal sentimento, si gettava col suo impeto naturale nella battaglia dei tempi. Di là dal mare rispondeva la Grecia, meno avanzata in civiltà, ma più matura all’indipendenza per consentimento del popolo e per armonia d’opinioni. Il grido disperato di libertà che la vendetta di Alì Tebelen volse ai Greci, prima suoi nemici, risonò in tutti i cuori, dalle fumanti rovine di Parga alle rive melodiose di Sciro. I congressi degli alleati avevano posato un gran masso di ghiaccio sul cuore dell’Europa; ma il fuoco sprizzava all’estremità; muggivano minacciose le viscere della terra.
Fu sullo scorcio del milleottocentoventi che, essendosi immiserite d’assai le nostre condizioni, e venendomi da Spiro buone speranze di aver pagamento del mio famoso credito di Costantinopoli, deliberai andarne a Venezia per abboccarmi con lui. Già fino dal luglio i Carbonari avevano improvvisato la rivoluzione di Napoli, ricavandone pel paese una larghissima costituzione; ma il re Ferdinando era già ito al Congresso degli Alleati in Troppau, ove non istava più tanto in parola colle libere note ad essi inviate da Napoli. Laggiù si armavano contro la tempesta che s’addensava a settentrione. Una mia gita nel Regno era, secondo Spiro, necessaria per cercar l’atto di morte di mio padre, senza del quale il governo turco non intendeva saldare le sue cedole. Dovendo trovar testimoni, e richiamar loro alla mente circostanze dimenticate forse per la lontananza, un tal negozio non poteva trattarsi per lettera. Questo fu il motivo di ottenere il passaporto; del resto era incaricato d’altre bisogne abbastanza delicate per non poterlesi dire a voce alta. Appoggiai la famiglia a Spiro che sarebbe andato a visitarla durante la mia assenza; e partii senza rincrescimento perchè la mia discreta conoscenza delle cose napoletane mi faceva obbligo di prestarmi dove poteva; e questa circostanza avendo richiamato gli occhi sopra di me, non volli demeritare dell’altrui fiducia per privati riguardi, benchè forse io vedessi più scuro di ogni altro nelle rosee lusinghe di quel tempo.
Del resto a Venezia vidi come potete credere la Pisana. In verità che ne rimasi maravigliato. Io mi guardava qualche volta nello specchio e sapeva come i quarantacinque anni mi si leggessero comodamente sulla fisonomia; ella all’incontro mi parve essere più giovine di quando l’avea lasciata; una maggiore rotondità di forme aggiungeva dolcezza alla sua idea di bontà, ma erano sempre i suoi occhi languidi, infuocati, voluttuosi, il suo bel volto fresco ed ovale, il suo collo morbido e bianco, il suo andare saltellante e leggiero. Aveva un bel che fare ad accordarsi colla monacale rigidezza della Clara, un bel dirmi che facevano vita santa insieme, io la vedeva sempre la mia Pisana d’una volta, e basta!... ma se non avessi avuto moglie!!... Tanto più mi maravigliai di questa sua ottima salute perchè bisognava loro, si può dire, guadagnarsi il vitto colle proprie mani; non bastando a pagare i medici e le medicine i pochi quattrini che stillavano a fatica dalle mani aggranchite del Navagero. Costui nella breve visita che gli feci si lodò molto della moglie, ma non mi vide, credo, con molto piacere, per la gran paura che gliela portassi via.
— Lo creda, signor Carlo — mi disse — che se mi scappasse via la mia infermiera io ne morrei il giorno dopo!
— Eh vecchio, lo sai pure che si vuol maggior bene ai malati che agli amanti noi altre donne! — gli rispose la Pisana.
Il malato strinse la mano a lei ed a me; e li lasciai promettendo, che presto nel ripassar da Venezia ci saremmo riveduti. Ma la Pisana mi si dimostrò anche nei commiati assai fredda e contegnosa, come si conveniva ad una santa.
La sera prima di partire, vidi in Piazza il colonnello Partistagno colla moglie; in verità aveva proprio ragione: quella sua baronessa somigliava proprio una cavalla; tanto aveva lunghe le braccia, le gambe, il muso. Tuttavolta Raimondo Venchieredo le faceva la corte. Costui mi vide appena, che s’imbucò nella stanzuccia più scura del caffè Suttil a leggere attentamente la Gazzetta. Era invecchiato, livido, brutto come un vizioso marcio; nè io credo che se la guazzasse molto largamente, dappoichè suo padre insieme coll’Ormenta aveva avuto la giubbilazione a metà soldo. Questi due decrepiti finivano assai male la loro vita subdola e ladronesca; ma l’avvocato stava a miglior partito perchè suo figlio era allora a Roma, dicevasi, in missione diplomatica, e ne aspettava grandissimo aiuto. Certo non piansi di lasciar a Venezia una tal gentaglia; ma mi dolse che quando partii, l’Aglaura era più che mai afflitta dal suo male di debolezza e di melanconia. Povera donna! Chi avrebbe riconosciuto allora il bel marinaio, che m’aveva accompagnato da Padova a Milano al tempo della Cisalpina!