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CAPITOLO VENTESIMOTERZO.
Nel quale si contiene il giornale di mio figlio Giulio, dalla sua fuga da Venezia nel 1848, fino alla sua morte in America nel 1855. — Dopo tanti errori, tante gioie, tante disgrazie, la pace della coscienza mi rende dolce la vecchiaja; e fra i miei figli e i miei nipotini, benedico l’eterna giustizia che m’ha fatto testimone ed attore d’un bel capitolo di Storia, e mi conduce lentamente alla morte come ad un riposo, ad una speranza. — Il mio spirito, che si sente immortale, si solleva oltre il sepolcro all’eternità dell’amore. — Chiudo queste Confessioni nel nome della Pisana come le ho cominciate; e ringrazio fin d’ora i lettori della loro pazienza.
Tonale, giugno 1848.
«La superbia fu giudicata il capitale dei peccati capitali. Chi diede questa sentenza conobbe per certo l’umana natura. Ma vi sono castighi, che sorpassano in terribilità qualunque gravezza di colpa. Quello che soffersi io non ha paragone in qualunque genere di pena: i tiranni della Sicilia non ne seppero inventare di più atroci. È vero; fui orgoglioso. Disprezzai chi non era forse nè meno veggente, nè meno coraggioso di me; m’aggirai fra essi colla testa ritta e colla frusta in mano come fra uno sciame di conigli; diedi ragione se non al diritto, certo alla forza dei padroni, e risi di vederli calpestati perchè non li credeva possibili ad una riscossa. Povero vanerello, che pretendeva conoscere il vigore dei muscoli dalla morbidezza della pelle, e giudicava di cavalli nella stalla! Sorse il giorno che il derisore fu lo scherno dei derisi; e dovette chinar il capo sotto la punizione più tremenda che possa affliggere il cuore d' uomo, sotto un oltraggio immeritato, ma giusto.»
È assurdo, lo veggo, ma lo toccai con mano, e bisogna rassegnarsi. Felice me che non m’ingruppai nei legami insolubili dell’orgoglio, ma rispettai la giustizia nella stessa ingiustizia, preferendo di nutrirmi col pane del pentimento piuttostochè col sangue dei fratelli!... Traditore e spia! Queste orrende parole mi rintronano ancora le orecchie!... Oh era allora il momento di sollevare ai numi il voto infernale di Nerone. Che tutto il genere umano avesse un sol capo per reciderlo: che un silenzio pieno di rovine, di tenebre, di strage succedesse a quell’accusa nefanda; che io potessi sorgere Nemesi implacabile a cantar l’inno della vendetta e dello sterminio! Ma i numi non ascoltano i voti del superbo; essi versano l’ambrosia nei calici eterni per immortalare gli eroi, e stringono nella destra il fulmine infallace, divorator dei Titani. Una voce divina, che mi parlava in cuore, ma non sorgeva certo dal cuore briaco d’ira e d’orgoglio, mi riscosse le intime fibre dell’anima.
Sì! io fui traditore che conculcai la cervice degli oppressi, e uccisi la fede per mettere in suo luogo lo scherno e il disprezzo! Fui traditore che risi della debolezza degli uomini, anzichè piangere con essi e ajutarli a francarsi! Fui lo spione codardo che denunzia delitti immaginari, e viltà sognate, per non vergognar di se stesso dinanzi a coloro ch’egli accusa!... Coraggio! Il capo nella polvere, superbo! Adora quelli stessi che jeri hai vituperato!... Accetta umilmente il vitupero che si paga oggi degli oltraggi jeri sofferti! Vendicati se puoi, imitandoli grandemente!...
Queste furono le parole che volsi fremendo a me stesso; e mentre tumultuavano sitibondi di sangue i consigli dell’ira, l’umiltà del pentimento volse i miei passi alla fuga. Oh io ti benedico, e ti ringrazio, santa, divina, improvvisa umiltà! Io non dispero più dell’umanità, che sa armarsi di un così subito valore contro le proprie passioni. Ti benedico, o soave dolore dell’espiazione, o sublime sacrifizio che mi abbassasti la fronte per risollevare l’animo mio!... Non ho più famiglia, nè nome. Sono uno schiavo della penitenza che ricomprerà i proprii diritti d’uomo, di cittadino, di figlio, a prezzo della sua vita. E quando i fratelli leggeranno in lettere di sangue le virtù del fratello, allora s’apriranno le braccia, e sorgeranno mille voci a festeggiare il ritorno dell’uomo redento. Nessuno qui mi conosce; mi chiamano Aurelio Gianni, un trovatello dell’umanità, un guerriero della giustizia, e nulla più. Cerco i posti più arrischiati, combatto le scaramucce più audaci; ma il cielo mi vede e mi protegge, il cielo che mi darà vita bastevole a rigenerare il mio nome.
Tonale, luglio 1848.
Suonano tristissime voci; il nostro esercito è in volta; noi sentinelle perdute fra le gole dei monti, difendiamo il confine che ci fu affidato, nè chiediamo oltre. Battaglie continue ma senza gloria, patimenti lunghi e ignorati, veglie di mesi interi, interrotte da sonni sospesi e da brevi avvisaglie. Cotale era il tirocinio che mi conveniva. Dove la speranza della gloria e l’emozione acuta del pericolo compensano ad usura il sacrifizio della vita, non è il luogo di chi cerca penitenza e perdono. Ma qui sopra queste erte montagne che si avvicinano al cielo, in mezzo ai burroni profondi e ai fragorosi torrenti, qui vengono i peccatori a cercar Iddio nella solitudine, qui salgono i soldati della libertà alla redenzione del martirio.
Dopo aver combattuto nelle prime file d’una giornata campale, dopo aver piantato uno stendardo sul bastione nemico, dopo aver ributtato la carica dei lancieri, e gridato l’urlo della vittoria sui cannoni inchiodati, chi sarà tanto prosuntuoso da dire: io ho ben meritato dalla patria, datemi la corona di quercia?
La ricompensa è nella grandezza, nella fama dell’impresa. Ringraziate, o vincitori, la patria che vi diede occasione di mostrarvi valorosi, e di pregustare la gioja del trionfo. Non chiedetele corone, ma porgete riverenti i vostri trofei. Le corone sono per coloro che senza l’applauso degli spettatori, senza la speranza della gloria, senza l’avidità del trionfo combattono pazienti e ignorati. Posterità servile ed ingrata che da tanti secoli t’imbratti i ginocchi dinanzi alle statue di Cesare e d’Augusto, sorgi una volta, e incurvati ad adorare le larve sanguinose dei Galli e dei compagni d’Arminio. Non la fama ma la virtù comanda gli ossequi; la magnanimità che s’asconde sotto le ombre pugnaci delle selve, eclissa col suo splendore quella che passeggia tronfia e baldanzosa le strade di Roma. Anco una volta gli uomini sono ingiusti: ma Dio, signore del premio e del castigo, siede nella coscienza.
Lugano, agosto 1848.
Pur troppo era vero. Eccoci ora fuggiaschi senza sconfitta, come fummo prima vincitori senza trionfo. Ci avevano annunziato una guerra di disperazione e di sterminio; invece un passo dietro l’altro, oggi valicando un fiume, domani una montagna, il volere dei capi ci ritrasse a questi alpestri ripari. Suonarono al solito voci di tradimento: tradimenti involontari come il mio, di uomini che non disprezzarono, ma stimarono troppo. Ma è questo il consueto conforto dell’umana debolezza, di scaricarsi delle proprie colpe sulle spalle altrui. Intanto io che aveva sperato un assalto disperato e glorioso, una morte o un trionfo che compissero la redenzione del mio nome, eccomi riconfitto alla pazienza dei taciti sacrifizii, e delle lunghe aspettazioni. Deggio attendere da un dolore senza fine, quello che sperava da una subita vittoria. Espiazione anche questa. Lo ripeto; il sacrifizio, fosse pur quello della vita, non ricompera nulla senza la prova della costanza. Finire non è redimere; fra compassione e gratitudine, corre l’ugual tratto che tra colpa perdonata e perdono meritato. Soffrirò dunque ancora, colla ferma coscienza che la Provvidenza mi apre la miglior via a provare, con argomenti invincibili, se non la giustizia certo la purezza del mio passato. Nei patimenti, vivaddio, io non ho bisogno di ritemprarmi; ma avrò la forza di tacere, finchè mi venga incontro spontanea la stima dei miei fratelli.
Genova, ottobre 1848.
Era impaziente di combattere, non per giovanile baldanza, ma perchè temeva che mi fosse apposto a infingardaggine il forzato riposo. Ma qui pure si va per le lunghe, e forse non hanno torto. Si ricordino che chi presume troppo è chiamato poi traditore, al pari di chi fugge nel momento del pericolo. Grande stupidità è la nostra di misurare la vita dei popoli da quella degli individui; i popoli devono perchè possono aspettare; lo possono perchè hanno dinanzi non venti trenta o cinquant’anni, ma l’eternità. Io stesso fin’ora avrei voluto sacrificare la sorte della nazione alla mia smania di menar le mani; ma non ricadrò in questo errore che par generoso, ed è pazzo, disperato, vile. Finchè i nostri desiderii non concorderanno appunto colla moderazione e coll’opportunità della vera sapienza, le imprese cadranno o in eccesso o in difetto. Impariamo ad aspettare pazientemente per non aspettar lungamente. Così negli avvenimenti che consentono la deliberazione; ma quando il dado è gittato, quando l’onore è in ballo, si gettino allora peritanze, scrupoli, timori. Allora è concesso, anzi imposto di mutarsi da soldati in vittime; allora son proibiti i postumi rincrescimenti, le scambievoli rampogne; allora il sacrifizio è una necessità non una speranza. Dove si accenda la prima miccia io volerò colla mia carabina: non affretterò mai lo scoppio ma farò mio il pericolo.
Qui alcuni esuli delle provincie venete, compagni di scuola o di stravizzo, credettero riconoscermi. Ghignarono fra loro senza peraltro affrontarmi; ma al giorno dopo li rividi, e diedero segnali piuttosto di stupore d’ammirazione che di sprezzo. Pareva che avessero indovinato il mio disegno, e lo rispettassero. Seppi dappoi che aveano chiesto di me ad alcuni commilitoni, i quali avevano detto loro il nome col quale mi conoscevano, e fatta ampia testimonianza del valore dimostrato nelle fazioni montane del Tirolo e del Varesotto. Lì fra quei profughi era sorto un diverbio; chè alcuni affermavano ch’io era Giulio Altoviti ed altri no; e taluno dei primi mormorava della dubbiezza della mia fede, e dell’obliqua condotta, ma i miei compagni d’arme sorsero fieramente a difendermi, dicendo che Altoviti o Gianni, io era per fermo un valoroso soldato, un uomo integro e leale.
Giuseppe Minotto, uno di quei veneziani, approvò le parole di questi e persuase ai suoi, che se io aveva scelto quella via per rintegrarmi nella stima de’ miei concittadini, bisognava sapermene grado, e che l’aver io risposto all’insulto con imprese forti e magnanime, era già validissimo indizio a ritenermi innocente. Io ringrazio questo generoso, a me appena noto per figura, di aver innalzato la voce a difendermi fra molti che, pochi mesi fa, mi si professavano amici. Infatti le sue parole poterono assai, e ad esse devo il guardingo ma nobile rispetto di cui son ora circondato. Cercherò di rendermene degno, e saprò grado alla Provvidenza di questi primi conforti ch’ella mi porge a proseguire animoso il mio intento.
Due giovani Partistagno, che hanno combattuto valorosamente a Vicenza nell’aprile decorso, erano il primo giorno i miei più accaniti detrattori; ma in seguito mi spiavano più vogliosamente degli altri, e pareva quasi bramassero di rappiccare la vecchia amicizia. A me non istava correr loro incontro; li aspettai. Ma oggi sento che partirono per Torino, ove si stanno ordinando alcuni reggimenti lombardi. Anch’io ebbi il ticchio di accorrer colà, e d’inscrivermi in quelle schiere; ma la modestia m’impose nuovamente di non far pompa del mio valore; fors’anco fui consigliato da un resticciuolo d’orgoglio, a non esporre la mia penitenza agli sguardi dei conoscenti e degli amici. Parrebbe ch’io chiedessi il perdono delle colpe che non ho, mentre voglio meritarlo di quelle che ho, e pretendo insieme riparazione delle altre iniquamente imputatemi.
In mare, dicembre 1848.
Per te, padre mio, per te soltanto io mi tolsi di scrivere questi cenni della mia vita. Acciocchè se morissi lontano, tu abbia in quelli una prova che al tutto non fui indegno del nome che porti, e ch’io riprenderò scendendo nel sepolcro, o tornando ribenedetto fra le tue braccia. Oh come nei primi giorni d’esiglio mi pesò grave sul capo il sospetto della tua maledizione! Ma tu hai creduto alla veracità delle parole che ti scrissi da Padova; non badando alla mia vita dissoluta e superba t’affidasti alla costanza dei nuovi proponimenti, e appena puoi conoscere il luogo di mia dimora, ecco che mi giungono da te parole di lode, di conforto, di benedizione! Oh come ho baciato riverente e commosso quel foglio, che mi recava la certezza dell’amor tuo, della tua stima! Ti ringrazio, o padre mio, perchè ti sei fatto solidale e rivendicatore dell’onor mio, presso i nostri concittadini. Certo, che le tue parole meglio che le mie opere varranno a redimermi dal loro disprezzo; ma lascia tuttavia ch’io combatta e vinca da me solo, finchè possa non ricompensare ma esser degno della tua tenerezza. Ho baciato e ribaciato la tua lettera, ho accolto con dovuta gratitudine la tua benedizione, e jeri nell’imbarcarmi ne rileggeva il tenore, e mi piovevano dagli occhi le lagrime.
— Eh, eh! giovinotto — disse un vecchio marinajo nel darmi braccio a salire sul cassero. — Consolatevi, passerà. Lontan dagli occhi, lontan dal cuore; così è l’amore!
Egli credeva che una lettera dell’amante mi facesse piangere a quel modo; credeva che avessi lasciato nella mia patria qualche mesta donzella che sospirasse al mio ritorno, forse coll’anello della promessa nel dito!... Felici illusioni!... Che altro ho io lasciato a Venezia se non il disprezzo del mio nome, e, Dio lo volesse appieno, dimenticanza? Voi solo, padre mio, e mia madre, e mia sorella, serberete memoria non disdegnosa del povero Giulio, e l’anima mia, non beata d’altro che d’amar voi, si consacra fin d’ora a rendere non iniqua la vostra bontà!
Roma, 9 febbrajo 1849.
Città eterna! Spettro immenso e terribile! Gloria, castigo, speranza d’Italia! Innanzi a te si quietano le ire fraterne, come dinanzi alla giustizia onnipresente. Tu sollevi la voce, e tacciono intenti i popoli, dalle nevi dell’Alpi alle marine dell’Ionio. Arbitra sei del passato e del futuro. Il presente s’interpone come un punto, nel quale tu non puoi capire con tanta mole di memorie e di speranze. Oggi, oggi stesso un grande nome risorse dall’obblio dei secoli; e l’Europa miscredente e contraria non avrà coraggio di ripeterlo col solito ghigno: lo spirito trabocca dalle parole; sia rispetto o paura egli vi costringerà, tutti quanti siete, a pronunciarla con labbra tremanti. Ma ogni respiro di Roma è espiato con qualche vittima sanguinosa. Nacque dal fratricidio, la liberò il sangue di Lucrezia, e Virginia scannata e le recise teste dei Gracchi bruttarono le più belle pagine della sua storia. Il pugnale di Bruto atterrò un gigante, e aperse la strada ai nipoti striscianti nel fango. Ed anche ora proviene da un assassinio l’audacia del grande conato. Ne giudichi Iddio. Certo, anche la coscienza ha i suoi momenti d’ebbrezza, che non offuscano per altro l’immutabile santità delle leggi morali. Ma rifiuteremo noi gli effetti per la turpitudine della causa? E chi avrà il diritto di chieder conto ad un’intera nazione del delitto d’un uomo? Le storie vanno piene di simili esempi; e forse nell’ordine immenso della Provvidenza, le grandi colpe sono compensate da più grandi e generali virtù. Se fossimo anco destinati a nuove disgrazie, a funeste cadute, non accuserò il coltello d’un assassino della rovina d’un popolo. Dio punisce ma non vendica. Altre colpe non ancora scontate vorranno altre lagrime, e l’assassino nasconderà nelle tenebre i suoi rimorsi, e noi mostreremo alteramente, alla faccia del sole, il capo coperto di cenere, e gli occhi splendenti di speranza.
Roma, giugno 1849.
Aveva giurato di non aggiungere una parola, se non avessi a scrivere la mia redenzione. Eccomi finalmente!... Ho ripreso il mio nome, l’onor mio! La mia famiglia, la mia patria saranno contente di me, ed io godo nel vergar queste righe di sentir il dolore della ferita, e di veder la pagina imbrattarsi di sangue.
V’hanno nella mia legione alcuni giovani padovani, che altre volte conobbi. Costoro mi sopportavano assai malvolentieri, e credo mi designassero alla diffidenza dei compagni; ma io fingeva non m’accorgere di nulla, aspettando che i fatti parlassero per me. Era tempo, giacchè temevo che a lungo andare avrei perduto ogni pazienza.
Da dieci giorni i Francesi hanno aperta la trincea contro San Pancrazio. Gli assalitori ingrossavano sempre più; ma jersera s’interpose una specie di tregua, e i nostri ne approfittarono per dar riposo ai soldati: soltanto una mezza coorte custodiva, disposta in catena, quel tratto minacciato dei bastioni; io stava in guardia dietro una gabbionata costrutta pochi giorni innanzi, e già ridotta a mucchi dal tempestar delle bombe. La notte era profonda; e si vedevano da lontano i fuochi del campo d’Oudinot. Tutto ad un tratto io sentii giù nel fosso uno scalpitar di pedate, pareva che le scolte sonnecchiassero, giacchè non diedero alcun segno; io gridai all’armi!, e prima che mi venisse intorno una dozzina di legionari, già una colonna di cacciatori francesi guadagnava per la breccia il sommo del bastione. Mi ricordai di Manlio, e solo colla mia bajonetta ributtai i primi; l’altura della posizione mi favoriva, e fors’anco il comando che avevano gli assalitori di non sparare se non si fossero prima stabiliti sul bastione.
Infatti essi non potevano offendermi di punta dal sotto in su, e indietreggiando misero qualche scompiglio nella prima fila che disordinò del pari la seconda. Credevano forse che un maggior numero di difensori guernisse il muro, e vi fu un istante ch’io credetti d’aver bastato da solo a sgominare l’assalto. Ma in quella l’officiale che comandava la fazione, come spazientito del timore de’ suoi, balzò innanzi e giunse sul bastione, gridando e incoraggiandoli colla spada sguainata; gli altri ripresero animo e lo seguirono tosto.
Io non sapeva che fare; tornai a urlare: all’armi! all’armi!, con quanto fiato aveva in corpo, e mentre alcuni legionari accorsi al grido si opponevano all’irruzione della colonna, io mi slanciai sull’officiale, e prima che avesse tempo di adoperare la sciabola lo disarmai; egli aveva alla cintola una pistola, me ne scaricò un colpo a brucia pelo, che non mi portò via fortunatamente altro che la falange d’un dito.
Ma intanto i difensori spesseggiavano; il bastione rimbombava di fucilate, gli uomini accorrevano ai cannoni, e i cacciatori, divisi dal loro capo ch’io aveva fatto prigioniero, furono respinti nel fosso. In pari tempo un altro assalto minacciava l’altra estremità della cortina, ma parte dei nostri ebbe tempo di accorrere colà, finchè arrivarono gli aiuti delle caserme; e si seppe poi da alcuni prigionieri che tutto in quella notte era disposto per una sorpresa; ma che non era riescita per esser stata respinta la ricognizione dei cacciatori.
Debbo render giustizia ai miei compagni, i quali tutti attribuirono a me l’onore di quel fatto d’armi, e chiesero unanimi ai capi che ne fossi ricompensato. Il giorno appresso, alla rassegna generale alla quale comparvi colla mano bendata, fu letto un ordine del giorno, nel quale si rendevano pubbliche grazie al gregario Aurelio Gianni per aver bene meritato della patria, e lo si innalzava al grado di alfiere. Tutti gli occhi si volsero verso di me: io chiesi licenza di parlare. — Dite pure, soggiunse il capitano: giacchè nelle nostre schiere la disciplina non era nè tanto muta, nè così severa come negli altri eserciti. —
Io buttai uno sguardo verso quei giovinotti padovani, che stavano in fila poco lunge da me, e alzando tranquillamente la voce: — Chieggo, soggiunsi, come unica grazia di rimanere gregario, ma di essere onorato d’una pubblica lode sotto il mio vero nome. Una di quelle solite tacce di spionaggio e di tradimento che disonorano le nostre rivoluzioni mi costrinse momentaneamente a lasciarlo; ora che spero aver persuaso del loro torto i miei calunniatori, lo riprendo con orgoglio. Mi chiamo Giulio Altoviti, e sono di Venezia! —
Un applauso generale scoppiò da tutte le file; credo che se gli ufficiali non li trattenevano avrebbero rotte le ordinanze per abbracciarmi, e vidi dentro a molti occhi, avvezzi a sostenere fieramente il fuoco delle archibugiate, luccicar qualche lagrima. Ricompostosi l’ordine e fatto silenzio, il capitano, dopo essersi consultato col generale riprese con voce commossa, che la patria si gloriava d’un figliuolo che si vendicava degli insulti tanto nobilmente, che mi additava per esempio onde le discordie nostre ricadessero a peggior danno dei nemici, e che in premio della mia generosa costanza, mi creava ajutante di campo del generale Garibaldi col titolo di capitano.
Un nuovo applauso dei miei commilitoni approvò pienamente questa ricompensa; e poi fu sciolta la rassegna, e marciando verso la caserma io seguitai a piangere come un fanciullo, e parecchi di quei prodi piansero con me. Indi a poco sopraggiunsero a intenerirmi più che mai le proteste e le preghiere di quei giovani padovani, che si disperavano di non avermi conosciuto prima, e supplicavano di esser perdonati della loro diffidenza. Questo fu il premio più dolce che mi ebbi, e lo palesai loro abbracciandoli uno per uno. La festa di tutta la legione, l’ammirazione dei compagni, l’affetto dei superiori, le lodi d’una città intera mi provarono che non è mai chiuso il varco a riconquistare la pubblica stima colla costanza dei sacrifizi, e che le imprese veramente nobili e generose non ispirate nè da furore nè da superbia, ammutoliscono l’invidia e trovano ossequio nel mondo. Oh sarebbe così dunque, se questa calunniata umanità fosse così vile, così perversa come taluni ce la descrivono e come io la credeva! Costretto ad accettar la sua stima come ricompensa, io vergognai fra me di averla disprezzata senza cognizione di causa, e conobbi che la mia penitenza non era stata soverchia per un sì grave peccato.
Roma, 4 luglio 1849.
Oh a che giovò mai la nostra perseveranza? Eccoci raminghi in un esiglio, che non finirà forse mai più! La legione è partita per le Romagne e per la Toscana, sperando di colà riguadagnare Venezia o il Piemonte e la Svizzera; ma la ferita, che mi si riaperse nelle fatiche di questi ultimi giorni, m’impedisce di camminare. Il generale mi fornì di alcune lettere per l’America, ove guarito che fossi mi permettessero d’imbarcarmi e mi volgessi colà. Sì! io mi volgerò oltre l’Atlantico! Colombo vi cercava un nuovo mondo: io non domanderò altro che pazienza. Ma sento che l’onore della nostra nazione è affidato a noi poveretti, sbalestrati dalla sventura ai quattro capi della terra. Attività dunque e coraggio! Un popolo non consta altro che di anime; e finchè la virtù affoca l’anima mia, la scintilla non è morta. Sempre sarò degno del nome che riconquistai e del paese dove son nato. Tu, padre mio, che ai giorni passati mi lusingava di rivedere e che oggi dispero di abbracciare mai più, abbiti l’ultimo sospiro del tuo figliuolo proscritto. L’amor mio d’or innanzi sarà senza sospiri e senza lagrime, come quello che si riposa solamente nelle eterne speranze. Penserò a mia madre e a mia sorella come a due angeli, che mi raddoppieranno quandochessia la beatitudine del cielo.
In mare, settembre 1849.
La fortuna mi diede compagna d’esiglio una famiglia romana; padre ancora giovine, di quarant’anni al più, che sostenne cariche importantissime nelle provincie, il dottor Ciampoli di Spoleto; e due suoi figliuoli, la Gemma, credo, di diciannove anni, e il Fabietto di dodici o quattordici. Al primo vederli mi risovvenne di un’incisione veduta alcuni anni sono, rappresentante una famigliuola di contadini raccolta ad aspettare e a pregare sotto una quercia, mentre infuria un gran temporale, tanto sono alieni dalla rabbia consueta dei profughi politici. Si consolano amandosi a vicenda, e, meno Roma, la loro vita è quella d’una volta. Avessi anch’io meco i miei genitori o i miei fratelli! Mi sembrerebbe di portar via una gran parte di patria. Ma sono illeciti questi desiderii, di far comuni appunto ai nostri più cari le peggiori disgrazie. Come sopporterebbero mai due poveri vecchi una vita varia, stentata, angosciosa, senza nessuna certezza nè di riposo, nè di sepolcro? Meglio così; e che il destino mi condanni a patire solo. D’altronde la lontananza della patria stringe i compaesani quasi con legami di famiglia; e m’accorgo già di amare il dottor Ciampoli quasi come padre, e la Gemma e il Fabietto come fratelli. Quella giovinetta è la più soave creatura che m’abbia mai conosciuto; non romana punto, ma donna in tutto, nella grazia, nella gracilità, nella compassione.
Forse che delle donne io non ho cercato finora che le più abbiette, ma costei mi sembra un esemplare più sublime, un tipo quale forse lo avrei sognato se fossi pittore o poeta, ma non avrei creduto mai d’incontrarlo vivo nel mondo. Non è certo di quelle che innamorano, io almeno non oserei; ma hanno in sè quanto può assicurare la felicità d’una famiglia, e spose e madri passano per la vita come apparimenti celesti, tutte per gli altri nulla per sè. Il mal di mare non è guari nè piacevole a vedersi nè facile a sopportare; pure con quanta premura la buona fanciulla si ricordava del Fabietto anche durante gli sforzi più dolorosi! Si vedeva che non avea tempo di badare a sè; ed è la stessa che piangeva questa mattina, perchè un gatto che avevamo a bordo annegò in mare. Omai peraltro tutti ci siamo assuefatti alla vita marinaresca; e a non vedere altro che cielo ed acqua. Si ciarla, si giuoca, si legge e di tratto in tratto anche si ride. La natura fu clemente di averci concesso il riso, che se non rasserena l’anima, ristora almeno le forze: nelle ore che rimango solo, io salgo sul cassero, e cerco nell’immensità che ne circonda il pensiero e l’immagine di Dio. Mi ricorda d’una nostra canzonetta popolare, la quale benedice Iddio vestito di azzurro: infatti quella espressione non la riconosco vera che adesso. Nulla di meglio addita la nascosta presenza d’un Dio, che questa immensità azzurra di cielo e di mare che par tutt’una, e innalza la mente alla comprensione dell’eterno. Scommetto che quella canzone fu composta da un pescatore Chiozzotto, mentre la bonaccia d’estate arrestava il suo burchio in mezzo all’Adriatico, ed egli non vedeva altro che il mare, sua vita, e il cielo, sua speranza.
Ho insegnato quella canzone alla Gemma; essa la canta sì perfettamente colla sua nobile pronuncia romana, che questi disarmonici marinaj inglesi sospendono la manovra per ascoltarla. Credeva che il viaggio mi annojasse, ma comincio appunto ora a pigliarci gusto. Spero che a terra non sarò meno fortunato, purchè trovi da impiegarmi a Nuova Yorch, ove sembra che il dottor Ciampoli voglia accasarsi. Sono ben fornito di danaro, e non mi lasceranno sprovvisto; ma nè l’ozio, nè la monotonia della mercatura son fatti per me; e le commendatizie che porto per gli Stati Uniti sono tutte per negozianti. Nell’America Meridionale è una cosa diversa: là s’incomincia a vivere ora, ed il nome italiano vi è altamente benemerito ed onorato. Sarei pur felice che vi s’andasse colà! La stessa natura vergine, rigogliosa, tropicale m’invita. Qui invece a Nuova Yorch, m’aspetto di vedere un mercato d’Europei bastardi, e casse di zucchero e balle di cotone, e numeri e numeri e numeri! Pare impossibile che chi ha traversato l’Atlantico possa ridursi a fare una somma!...
Nuova Yorch, gennajo 1850.
Quanto era stanco di pencolare col mio sigaro in bocca in mezzo a bottegai e a sensali! Saranno ottima gente, ma mi par impossibile che siano pronipoti di Washington e di Franklin. Non so, ma credo che questi grandi uomini morissero senza posterità. Ho fatto anche qualche gita nei dintorni, ma questa potente natura mi dà figura d’un leone in gabbia. È trattenuta, spartita, tagliuzzata; bisogna vederla da lontano assai, o nelle nebbie quasi britanniche che abbondano in questo paese, per aver un’idea dell’America raccontata dai viaggiatori. Per me stento a credere che la nebbia ci fosse ai tempi di Colombo. L’avranno portata le macchine a vapore, come si dice ora della crittogama da qualche pazzo giornalista europeo. Ad ogni modo son contento di partire, e si partirà perchè l’ingegnere Carlo Martelli che doveva giungere a Nuova Yorch, e al quale è raccomandato il dottor Ciampoli, non può muoversi da Rio Janeiro. Il Brasile è lontano, e il dottore non è per nulla contento d’imprendere un nuovo viaggio e lunghissimo. Io invece non vedo l’ora che si faccia vela, e la Gemma sembra piuttosto propendere per la mia opinione, che per quella di suo padre. Quanto al fanciullo egli non parla che del Brasile, ed è ebbro di felicità! Ho buone notizie dei miei; godo ottima salute, le persone colle quali vivo m' amano e mi stimano; se trovassi un paese da sfogarmi la smania d’attività che mi divora, potrei star contento alla mia sorte. Che altro è mai la vita se non un lungo esilio?...
Rio Janeiro, marzo 1850.
Qui almeno siamo in America. Si fiuta ancora l’Europa qua e là, ma l’Europa meridionale di Lisbona, non la nordica di Londra. L’ingegner Claudio Martelli è un uomo severo, abbronzato dal sole e a quanto dicono, onesto e intraprendente: all’udire il mio nome, egli diè un guizzo di sorpresa, domandò se fossi parente di quel Carlo Altoviti che avea preso parte alle rivoluzioni di Napoli del novantanove e del ventuno. Saputo che era suo figlio, si sciolse dalla rigidezza per gettarmi le braccia al collo, e allora sperai che il suo cuore non fosse tutto matematico; imperocchè a dirla schietta io ho dei matematici l’egual paura che dei mercanti. Guai se mi metton al gran cimento d’una regola del tre! Mi perderebbero la stima.
Egli mi domandò se mio padre m’avesse mai parlato di lui, ed io gli risposi che sì; perchè infatti mi risovvenne allora come un barlume di qualche storia narratami nel quale figurava il nome di Martelli, ma io per disgrazia ho badato sempre poco alle parole di mio padre, e memoria precisa non me n’era rimasta. Mi significò allora che da poco aveva ricevuto lettere di suo fratello, il quale sarebbe venuto in America e dimorava allora a Genova con mia sorella e mio cognato: profferendomisi poi in quanto mi poteva abbisognare, giacchè si professava debitore a mio padre di grandi beneficii e ringraziava il cielo di poterglisi mostrar grato nell’aiutare i figliuoli. Seppi allora da lui quello che già sospettava, cioè che il dottor Ciampoli, privato dalla rivoluzione di ogni suo avere e già allo stremo di danaro, cercava in America un mezzo da accumulare alle spiccie una piccola fortuna, e a ridursi poi a viver d’essa o a Genova o a Nizza, o in qualche altra città del Piemonte. Se io avessi saputo prima di salpare da Civitavecchia la proscrizione di mio cognato, e la dimora di lui e di mia sorella a Genova, certo mi sarei volto colà. Ma allora, oltrechè m’adescavano quelle imprese grandi e lontane, mi doleva anche l’anima di abbandonar il buon dottore e la sua famigliuola. La compagnia d’un giovane può esser loro di grande ajuto, e beato me se potessi accelerare d’un giorno solo l’avveramento delle sue speranze! Rimasi dunque, fermo di partecipare alla sua sorte ed al ritorno.
Il Brasile è uno Stato nuovo ed ordinato. L’ingegnere non disperava di procurare al dottor Ciampoli un posto assai lucroso; ma ci voleva tempo. Aspettammo dunque; e al dottore si provvide intanto con un discreto impiego nell’ufficio delle Statistiche imperiali, mentre io, esponendo i miei titoli di capitano ottenni un grado di maggiore nella fanteria di confine. Nell’esercito trovai viva la memoria d’un altro amico di mio padre, del maresciallo Alessandro Giorgi, che partì due anni fa per Venezia al primo annunzio della rivoluzione, e lo dicono morto colà di ferite. Se deggio credere a quanto mi si narra, fu uomo veramente straordinario; non di sublime ingegno ma di quella virtù tenace, confidente, incrollabile, che bene spesso tien vece anco d’ingegno. Egli solo, in poco tempo, con ottocento uomini di truppa regolare ridusse a soggezione, ordinò, e stabilì uniformità di leggi e d’imposte in quell’immensa provincia centrale di Mato–Grosso, che vince la Francia in grandezza. A udir minutamente tutte le imprese da lui condotte a termine in trent’anni su quei confini ignorati della civiltà, c’è da credere che non sia passata ancora l’età dei portenti. Se sapessi di prosodia, vorrei far vedere che i poemi non sono rancidumi; e si può benissimo scriverne finchè cotali eroi ne porgono materia. L’imperatore gli avea donato la Duchea di Rio–Vedras; ma egli abbandonò tutto per volare a Venezia. Così vorrei vivere, così morire anch’io. Nè pretendo diventar duca; mi basterebbe che fossi annoverato fra i benemeriti della civiltà.
Ora si ha la speranza che il dottor Ciampoli possa esser mandato come sopraintendente delle miniere, in quella stessa provincia che fu campo di tanta gloria al maresciallo Giorgi. Io lo seguirei con una scorta di bersaglieri a piedi ed a cavallo. Ma questo non avverrà che nell’autunno.
Rio Ferreires, novembre 1850.
Non so oggimai perchè vado continuando, ogni cinque o sei mesi, questa mia storia affatto inconcludente. Quello ch’io scrivo la mia famiglia lo seppe già per lettere, e io non sono un letterato ch’abbia in animo di stampar la sua vita: tuttavia l’abitudine mi padroneggia; ho cominciato a imbrattar carta parlando di me, e ci ho pigliato gusto, e di tanto in tanto debbo obbedire ad un ghiribizzo. Fortuna che è discreto, poichè dal principio dell’anno non ho empito che due carte, e prima che riprenda la penna dopo averla lasciata questa volta, Dio sa quanto tempo vorrà passare!... Convengo peraltro col mio capriccio, che questi paesi sforzano a scrivere. Partiti una volta, bisognerà ricorrere ai segni scritti della nostra ammirazione per non credere che la memoria ci inganni, e che il prisma della lontananza ci cangi i minuzzoli in montagne, e in diamanti i sassi. Tutto qui è grandioso, intatto, sublime. Montagne, torrenti, selve, pianure, tutto serba l’impronta dell’ultima rivoluzione che ha sconvolto il creato, e trattone l’ordine meraviglioso della vita presente. Ma la vita della natura somiglia qui tanto all’europea, come la cadente esistenza d’un vecchio alla robusta e piena salute del giovine. Accavallamenti e serragli di montagne che s’aggruppano, s’addentrano, s’addossano le une alle altre circondate da boschi misteriosi, e vomitanti frammezzo alle nevi eterni vortici di fiamme. Piante secolari, ognuna delle quali sarebbe, sto per dire, una selva sui fianchi scarnati dell’Appennino; vallate dove l’erba nasconde tutta una persona, e i tori selvatici fuggono cornando l’aspetto d’un uomo; torrenti abbandonati in cascate di cui l’occhio misura appena l’altezza, e le acque si disperdono in una lieve atmosfera nebbiosa, che occupa tutta la valle e la immerge in un’iride incantevole; le viscere della terra chiudono l’oro e l’argento, i macigni si spaccano e ne escono diamanti; il gran fiume si volve immenso e tortuoso, come un gran serpente addormentato fra rive ombrose di banani e di catalpe. La terra lussureggiante, il sole infocato, il cielo quasi sempre sereno, ma la fresca brezza delle Ande consola ogni giornata di qualche ora di primavera.
Oh se si avessero qui le grandi ferrovie delle valli dell’Ohio e del Mississippì! Se questa provincia non fosse lontana tre mesi di cammino da Rio Janeiro! È inutile: la distanza aumenta la mestizia della separazione, e per quanto sia irragionevole, due anni nel Mato–Grosso devono sembrar più lunghi di dieci e di venti in Francia od in Svizzera. Pure Venezia è tanto in Francia ed in Svizzera come nel Mato–Grosso, ma sembra che l’aria ci porti più facilmente qualche sospiro dei nostri cari.
Noi siamo alloggiati da principi, ma la natura ci fa le spese, e la mano dell’uomo ci ha poco merito. Una casa costrutta di pietra viva ma che somiglia una tenda, tanto è aperta per ogni lato da loggie, da atrii, da gallerie; dietro un gran giardino che finisce alla sponda del fiume, dinanzi un cortile dove s’affaccendano gli schiavi e nitriscono i puledri quando sulla sera li raccolgono nelle stalle. La città si stende nella pianura sopposta, e giunge anch’essa fino al fiume che dietro il nostro giardino s’incurva rapidamente: un po’ a sinistra sono le caserme, dove io vado due volte al giorno a comandar gli esercizi e a fare l’appello della notte. Costoro sono ubbidientissimi soldati a Rio Janeiro, ma lungo la strada perdono mano a mano le loro virtù, si tramutano in scorridori, in briganti, e qui poi di poco dissomigliano dagli Indiani, che ci molestano di continui assalti.
Sono brevi guerre, ma sanguinose e piene di rischi. Si tratta di superare, col vitto di parecchie giornate in ispalla, rupi quasi inaccessibili, di passare precipizi orribili sopra alberi tagliati al momento e buttati a cavalcioni da una sponda all’altra, di cercare i nemici come le fiere in antri profondi e tenebrosi, in boscaglie cupe, paludose, piene di agguati e di serpenti. Si ode un fischio rasente l’orecchio, e sono frecce scagliate da mani invisibili: non sono nè feriti nè prigionieri; le armi sono avvelenate, e se fanno sangue uccidono; chi cade nelle mani del nemico è scannato senza remissione; dicono che qualche buongustaio si diverta anche a mangiarli. Del resto, fuori di questi passeggeri trattenimenti, la nostra vita è quella dei ricchi villeggianti sulle rive del Brenta, più questo cielo, e questa magica natura che tramuta la terra in paradiso. Il dottor Ciampoli, ispettore delle miniere, rimase assente due o tre giornate nei suoi giri di sorveglianza: egli ha avviato un commercio di diamanti con Bahja, che frutterà assai in poco tempo. Di solito gli serve di scorta un sergente con dieci uomini, ma qualche volta l’accompagno io. Scegliamo allora le gite più pittoresche e poetiche, e l’ultima volta che fummo in una miniera nuovamente scoperta, si vollero condurre anche la Gemma e il Fabietto. Il chiasso che si fece in quel piccolo viaggio non è a descriversi; mi parve esser tornato alle asinate di Recoaro e di Abano. Quando si aveva a varcare un torrente, la Gemma tremava e rideva dalla paura, ma pur si fidava di me, e metteva i suoi piedini sul passatoio l’un dopo l’altro, così daccosto, così leggieri, che era cosa da baciarla. Davvero non potrei volerle maggior bene se fosse mia sorella.
Più spesso quando suo padre è assente, ed io rimango per badare alla soldatesca che ha bisogno di esser curata, perchè non diventi il flagello del territorio, noi passiamo insieme le più simpatiche giornate che si possano immaginare. Studiamo insieme un tantino di storia, ed io le insegno quel poco che so di Atene e di Roma; ella m’insegna di ricambio a strimpellar qualche arietta sul cembalo, e così in due mesi si suona già a quattro mani, che in Europa sarebbe un martirio l’udirci; ma qui ne sono incantati, e due ragazze mulatte, che sono le sue cameriere, non tralasciano mai di ballare alla nostra musica una indiavolata sarabanda. Davvero che codeste signore schiave hanno bel tempo, e se qui stessero tutti i danni della servitù sarebbe da sottoscriversi subito; ma ho già veduto le fattorie, le piantagioni di zucchero, e non ho coraggio di parlare.
Anche la schiavitù ha la sua aristocrazia spensierata, felice e dura, ma odiata dagli inferiori, più forse degli stessi padroni. Fra me e la Gemma si fa anche un po’ di scuola al Fabietto; egli sgrammatica già nel francese con inimitabile audacia, e tutti insieme poi prendiamo lezione di portoghese da un vecchio prete che è cappellano, vescovo, e direi quasi papa del paese. V’ha, sì, nella provincia un vescovo, ma è miracolo se una volta in sua vita si cimenta fin quassù. Sono fatiche da bestie, e i nostri prelati suderebbero a figurarsele: non si trovano qui nè parrochi ospitali, nè canoniche spaziose e parate a festa, nè mense ben fornite ad ogni due miglia. Bisogna serenare dieci notti prima di trovare una capanna, dove un povero e coraggioso missionario arrischia la vita, per insegnare ai selvaggi quell’abbicì della civiltà che è il cristianesimo. Il maresciallo Giorgi, l’invincibile duca di Rio–Vedras, ha fatto assai colle carabine, ma più faranno, credo, questi preti ignoranti e pazienti. Qui Voltaire ha ancora torto. Insomma se non fosse la lontananza, l’incertezza delle corrispondenze, e quella smania di novità che accresce sempre mano a mano che si veggono cose più nuove e stupende, torrei volentieri di finir qui la mia vita. Ma Venezia?... Oh non pensiamoci!... Papà e mamma, vi rivedrò io mai più?... In cielo, è certo.
Rio Ferreires, giugno 1851.
Quanti mesi che non aggiungo nulla a queste poche note del mio esilio; ma converrebbe appunto o scrivere un volume al mese o restarsi. Qui tutto nuovo strano, inopinato; ma dopo le lontane escursioni fra le tribù selvagge, si torna sempre alla pace e alla giocondità della famiglia. Il dottore è contentissimo de’ suoi negozi. — Ancora un anno, mi dice, e rivedremo Genova!... Ma voi perchè non prendete parte al nostro commercio?... perchè non vi arricchite? — Egli crede che la mia famiglia sia povera, nè suppone giammai che la loro compagnia fosse grandissimo motivo di trapiantarmi nel Mato–Grosso; perciò rispondo che non ho grandi bisogni, che son giovine, ed è mia sola ambizione lo avvezzarmi alle rischiose fazioni militari e tornar in Italia scarso di denari ma ricco d’esperienza. La Gemma sorride di queste mie parole, e il Fabietto strepita ch’egli pure vuol esser soldato e comandare l’esercizio. Il diavolino si fa robusto ed animoso; cavalca vicino a me le mezze giornate, e se usciamo a caccia mi vince nell’aggiustatezza del tiro. Ma io ho compassione di uccidere uccelli di sì vaghe piume, che ci guardano passare con tutta confidenza appollaiati sul loro ramo. La mano del fanciullo è meno pietosa e non trema come la mia; egli è intrepido, forte, quasi brasiliano; non serba d'europeo che il colore degli occhi e i bei capelli castagno-dorati; parla il portoghese come lo avesse imparato a balia, e fa vergogna a noi che zoppichiamo ancora nella pronuncia.
Ieri ho ricevuto lettera da casa; ma il papà mi dice di averne scritte otto o dieci, e questa è la prima che mi giunge. Chi sa qual sorte avranno corso le mie? Anche l’ingegnere Martelli mi scrive che è giunto suo fratello, e che andranno insieme a Buenos Aires, chiamati da quel governo per affari coloniarii e militari. Colà gli Italiani hanno buon nome; il general Garibaldi ha lasciato gran desiderio di sè, e si diceva che ne sperassero il ritorno. Se fosse prima di tornare in Europa vorrei passarvi per salutarlo, e con lui anche i Martelli che mi son cari come fossero del mio sangue. O patria, patria, come allarghi i tuoi legami per tutto il mondo! Due nati sotto il tuo cielo si riconoscono senza palesare il proprio nome sulla terra straniera, e una forza irresistibile li spinge l’uno all’altro fra le braccia!...
Villabella, aprile 1852.
Che orribili giorni! Sono due mesi che ci penso, e non mi sono ancora indotto a scrivere sillaba. Oh mi sarei strappato l’anima coi denti, se avessi saputo l’anno scorso quali cose tremende e funeste doveva accogliere questa pagina! — Ella è di là che dorme; la sua mente si è rischiarata, la salute si rinfranca ogni giorno meglio, tornando le rose sul suo bel volto, e gli occhi risplendono fra le lagrime. Qual doloroso spettacolo il freddo letargo e i subiti delirii dei giorni addietro! Ma adesso la tempesta ricade in calma; vince la buona natura, e sento di qui il suo respiro tranquillo ed uguale come d’un bambino addormentato. Scriviamo prima che le scene spaventose di quella tragedia non si confondano affatto nella memoria, che raccapriccia tuttora.
Sul principio d’agosto dell’anno scorso erasi notata qualche inquietudine nelle Tribù indiane, che scendono a svernare sulle rive del fiume, anzi io avea fatto chiedere di soccorso il Governatore di Villabella, ma per la lontananza non ci avea lusinga di averne prima della primavera susseguente; bensì avea fatto munire intanto con fuciliere e cannoni le nostre caserme, di modo che quel fortino improvvisato difendesse anche gli approcci della nostra residenza. Ma la cosa si contenne nei limiti delle avvisaglie fino al gennaio passato, quando essendo scoppiato un tumulto più pericoloso intorno alla miniera dell’ovest, io dovetti accorrere in fretta colà con gran parte della guarnigione a dar un esempio. Quella fazione mi tenne lontano più ch’io non credessi; i selvaggi combattevano con un’astuzia particolare, e soltanto dopo tre settimane giungemmo a ricacciarli lontano assai, e a bruciar loro le barche.
Sicuri che non ci darebbero noia per un pezzo ci rivolsimo verso Rio Ferreires, quando a mezzo cammino si trovò un corriere che ci dava molta fretta, per esser la città minacciata dagli Indiani. Ad onta che i soldati fossero stanchissimi, sforzammo disperatamente le marce perchè molti aveano lasciato nelle caserme le loro mogli e si viveva in grandissima ansietà. Io temeva assai del dottor Ciampoli, il quale per essere molto fiero e risoluto, poteva arrischiare sè ed i suoi a qualche tristo cimento. La prima cosa che mi colpì gli occhi quando giungemmo in vista di Rio Ferreires, fu la Sopraintendenza tutta quanta in fiamme. Il furore, la rabbia ci raddoppiarono le forze, e per tutte quelle cinque miglia che restavano fu una corsa sfrenata. Gli Indiani infatti avevano assaltato di nottetempo le caserme, inchiodato i cannoni, e scannati per sorpresa gran parte degli uomini, facendo prigioniere le donne.
I pochi superstiti si erano rifugiati alla residenza; ma colà appunto si era rovesciata proprio nel momento del nostro ritorno la rabbia dei selvaggi. Gridavano di voler uccidere i capi bianchi, ch’erano venuti a spodestarli della pianura e della riva del Gran Fiume, e lanciavano contro le mura frecce e macigni. Il dottore coi suoi pochi soldati si difendeva gagliardamente, e dava tempo ai coloni del paese di armarsi e di correre in aiuto; fors’anco noi potevamo capitar a tempo e tutto era salvo. Ma a quelle fiere rabbiose capitò in mente il ripiego dell’incendio; grande ammasso di canne delle vicine fattorie furono cacciati intorno alla Sopraintendenza, e per opposizione che facessero i rinchiusi, in breve un immenso vortice di fuoco invase i fabbricati. Allora furono veduti prodigi di valore e di disperazione; donne che si precipitavano nelle fiamme, uomini che si gettavano dalle finestre, e usciti semivivi dall’incendio si facevano strada col pugnale traverso ai selvaggi, schiavi e schiave che facevano schermo del proprio petto ai padroni, soldati che si piantavano le spade nel cuore piuttostochè correre il pericolo di esser arrostiti vivi.
Il dottor Ciampoli uscì dalla porta laterale, dinanzi alla quale le fiamme erano meno dense; aveva intorno una scorta di sei uomini disperati e fedeli, dietro il Fabietto che con coraggio maggiore dell’età sua si trascinava per mano e quasi portava la Gemma. Il padre procedeva innanzi, colla spada in una mano e il pugnale nell’altra. Sperava aprirsi un varco fra i nemici, ma usciti tutti a salvamento dall’incendio, tosto fu loro addosso una frotta tumultuosa di pelli–rosse. Parevano demonii guizzanti alla rinfusa nelle fiamme dell’inferno, e noi scendendo dal monte lontano un miglio appena, ne vedevamo allora le sinistre apparizioni. Il dottore cadde in ginocchio colpito da una freccia, ed ebbe il coraggio di volgersi ad attirare a sè il garzoncello che stringeva la Gemma fra le braccia, e continuava a difender sè e loro roteando la spada. Ma la ferita zampillava sangue come una fontana, e cadde riverso mentre cresceva intorno la rabbia degli assalitori. Allora il Fabietto, fanciullo miracoloso, brandì la spada del padre, e abbandonando la sorella svenuta sul cadavere di lui, sostenne per qualche minuto una battaglia terribile e senza speranza. Oh perchè il corriere non ci avea incontrati un’ora prima!... Il fanciullo, colpito da molte frecce, stramazzò mormorando il nome di Maria, e i selvaggi si precipitarono sopra quei corpi benedetti per adornare il loro mostruoso trionfo; ma in quella il vecchio prete portoghese che avea saputo dell’eccidio della Sopraintendenza, accorse in camice e stola col crocefisso in mano. L’aspetto di quell’uomo disarmato che parlava loro di pace nel linguaggio nativo, e che si esponeva senza paura ai loro strazii per salvar i fratelli, arrestò un momento i selvaggi!... Intanto ci si diè tempo di giungere.
Quello ch’io vidi, quello che soffersi e operai nel resto di quella notte, lo sa Iddio; io non me ne ricordo più. Al mattino, trecento cadaveri indiani s’ammucchiavano qua e là sullo sterrato dei forti; ma il povero dottore, suo figlio e duecento dei nostri, tra soldati e coloni, ci avean lasciato la vita. La Gemma non era tornata in sè che per cadere nella pazzia, e d’allora in poi il suo delirio durò quasi due mesi. Le caserme rovinate, gli stabilimenti incesi, le tribù indiane che s’ingrossavano intorno sempre più, mentre noi eravamo assottigliati di numero e di forze, ci persuasero di ritirarci a Villabella. Qui la guarigione della Gemma sembra quasi assicurata; e mi riprometto entro l’estate di giungere a Buenos Aires, ove essendosi stabiliti i Martelli, io la consegnerò a loro, od anche dietro loro consiglio la condurrò io stesso in Europa. Dio secondi le mie buone intenzioni!...
Buenos Aires, ottobre 1852.
Tre mesi di viaggio, ma sempre vago, pittoresco, in paesi di bellezze quasi favolose. La distrazione guarì affatto la Gemma; ella mi sorrideva quasi per ringraziarmi delle molte brighe ch’io mi assumeva per lei. Giunti a Buenos Aires, i Martelli n’erano partiti per una città dell’interno a stabilirvi i rudimenti d’una colonia; ma un capitano amicissimo dell’ingegnere, che salpava per Marsiglia, avrebbe fatto il piacere di condurre la Gemma a Genova presso una sua zia; egli aveva moglie a bordo, e il partito era per ogni verso convenientissimo. Quanto a me, voleva tornare a Rio Janeiro per prendere di là la mia rivincita su quegli Indiani maledetti. Senonchè, quand’io scopersi queste mie idee alla Gemma, ella chinò il mento sul petto, e due fiumi di lagrime le sgorgarono dagli occhi.
— Cosa avete? — le chiesi, — forse vi dispiace lasciar l’America?
— Oh tanto! — mi rispose ella singhiozzando, e guardandomi con occhi pieni di preghiere. — Il resultato si fu, che ci sposammo quattro settimane dopo, e si pensò a partire in compagnia per l’Europa; allora non le dispiacque più abbandonar l’America, e quanto a me, rinunciai per amor suo alla vendetta sugli Indiani.
Oh qual creatura adorabile è la Gemma! Dio mi dia bene, ma da due mesi che siamo marito e moglie non ho pensato ad altro che ad amarla. Ci fermammo qui, sperando di salutare i Martelli, ed anche un Partistagno che ci si dice esser con loro; ma siccome pare che tarderanno, penso d’intraprendere una gita nell’interno per salutarli. Intanto fui utile al governo col disegnare i piani d’una nuova colonia sulla spiaggia oltre il Rio, la quale sarà composta tutta d’Italiani, e pel luogo più opportuno riescirà certo assai meglio dell’altra, alla quale invano attendono da un anno i Martelli. Anche vorrei abboccarmi con loro prima di partire, per dar loro qualche ragguaglio in proposito; e soltanto mi spiace che essendosi sollevate le provincie del Mezzogiorno, mi toccherà allungare d’assai il viaggio per trovarli.
Saladilla, febbraio 1855.
Son prigioniero da ventotto mesi, nelle mani di questi insorgenti, che mi trascinano dietro al loro campo come un misero schiavo. Ho due bambini, figliuoli della schiavitù e della sventura; la loro povera madre mi accompagna sempre, e sconta amaramente l’audacia di aver voluto unire il suo destino al mio. Pur troppo, dopo aver lasciato il padre e il fratello, sopra questa terra vorace di America, ci lascerà anco il marito!... La febbre mi consuma e domani forse sarò cadavere.
O padre, o madre mia! o miei dolci fratelli, quanto sarebbe lieto il mio spirito di spiccar d’infra voi il suo volo pel cielo!... Benedetto peraltro Iddio che anche sugli ultimi confini del mondo, seppe circondar la mia morte di affetti soavi. Tre angeli intorno al letto mi fanno fede, notte e giorno, della eterna beatitudine!...
O padre mio, sento che la morte si avvicina, e che i miei patimenti terreni sono al loro termine! Tu, verso del quale io ebbi sì gran torti, perdona al mio spirito fuggitivo la sua ingratitudine, consola di qualche compianto la penitenza ch’egli si è imposta, rendi pura e onorata la mia memoria, se non all’ossequio, alla compassione della patria, e raccogli fra le braccia questa vedova infelice, questi innocenti orfanelli che la mano di Dio proteggerà, guidandoli per mari e per terre fino alla soglia della tua casa!... Quand’essi picchieranno umilmente alla tua porta tremino di commozione i vostri cuori!... Che non ci sia neppur bisogno di pronunciare i vostri nomi!... Io vi farò conoscenti l’uno dell’altro, io vi spingerò l’uno all’altro fra le braccia! Ma il pensiero di Giulio aggiunga e non tolga dolcezza alle vostre lagrime!...»
Così finiva di scrivere il mio sventurato figliuolo, e morì il giorno appresso fra le braccia della moglie. Costei non sapeva decidersi a partire da quel continente malaugurato, nel quale riposavano i suoi più cari. S’attardò a Saladilla, per quanto gli insorgenti le permettessero di tornare a Buenos-Aires per imbarcarsi: vi tornò finalmente nel giugno, ma la sua vitalità era già corrosa da un cancro immedicabile. I Martelli scrivevano di averla veduta piegarsi sulla tomba ogni giorno più colla rassegnazione d’una martire; soltanto piangeva di abbandonar i suoi figliuoli, ma consolavasi col pensiero che affidati a tali amici, essi sarebbero giunti a salvamento nella famiglia del padre loro. Le parole ch’ella aggiunse di suo proprio pugno, sotto il giornale di Giulio, furono e saranno sempre inondate dalle mie lagrime ogniqualvolta le leggerò.
«Padre, diceva ella, mi rivolgo a voi, perchè altro padre, nè fratello, nè parente io ho più sulla terra; soltanto due figliuoletti mi siedono ora sulle ginocchia, che domani giocheranno su una tomba. Padre mio, divisi da tanto mondo, pure l’affetto o morti o vivi, ne congiungerà sempre. Io ho amato il vostro Giulio come lo amaste voi; ora egli mi chiama dall’alto dei cieli, ed io per volontà di Dio son la prima a seguirlo. Oh perchè non ho potuto bearmi almeno una volta, delle vostre venerabili sembianze? Sconosciuti l’uno all’altra passammo per questa terra, ed eravamo tanto uniti, quanto lo può essere a padre figliuola. Ma anche questa è un’arra, che ci vedremo nel cielo. Dio non può dividere per sempre l’amore dall’amore; e gli spiriti traverso gli spazii dell’universo, si trovano più facilmente che due amici in un piccolo paese. Oh padre mio, voi tarderete a seguirci; tarderete pel bene dei figli nostri. Lo so, ci invidierete, e il tardare vi sarà un tormento, ma per carità, non abbandonateli orfani affatto sopra la terra! Io son donna, io son debole, eppur prego, scongiuro Iddio ch’essi imparino dal vostro esempio, e dalla vostra bocca ad imitare il padre loro. A rivederci, a rivederci in cielo!...»
Così si volgeva a me quell’anima celeste dal suo letto di morte, e posava la penna, per posar insieme i dolori della sua vita mortale. Un altro essere che io non aveva mai incontrato nel pellegrinaggio della vita, e che veniva ultimo a crescere il cumulo delle mie memorie!... Cotale doveva trovarla!... Figlia, fantasma e dolore!... Doveva perderla prima di sapere d’averla avuta!... Doveva cominciare ad amarla per piangere sopra due tombe, invece che sopra una! Doveva sollevare le mie speranze al cielo, perchè là mi si concedesse di rimeritarla presto, dell’amore ch’ella aveva portato a mio figlio!... Il mio cuore ebbro di speranza, i miei occhi sono pieni di lagrime!...
Ed ora vivo coi miei figli, e coi figliuoli dei miei figli, contento di aver vissuto e contento di morire. Sono anche felice di poter far qualche bene a vantaggio degli altri. Raimondo Venchieredo, che è morto qui in campagna durante la rivoluzione, ha avuto l’idea, molto onorevole per me, di raccomandarmi la sua prole. Io ho scordato l’inimicizia d’un tempo, e allargo la mia paternità sopra quest’altra famiglia: così potessi beneficare tutti gli uomini, e che la potenza corrispondesse alla buona volontà!... Luciano mi lusinga d’un’altra visita per questa primavera, e i piccoli sono lieti di avere per compagno di viaggio il loro zio Teodoro, che non si è mai ammogliato ed è la loro delizia. Demetrio, poveretto, datosi anima e corpo alla Russia, s’arruolò per colonnello nella legione Moldava, e morì sui campi di Oltenizza, portando in cielo la speranza dell’impero greco di Bisanzio. Ma la forza delle idee non si spegne; e le anime dai loro misteriosi recessi, seguitano a premere questo mondo riottoso e battagliero. Da ultimo ho ripreso fra mano la famosa opera del conte Rinaldo, e fra un mese ne sarà pubblicato il secondo fascicolo; la somma occorrente è già depositata presso il tipografo, e la stampa non soffrirà interruzioni. Spero che se ne gioverà assai la patria letteratura, e che gli studi critici sul commercio veneto, e sulle istituzioni commerciali dei Veneziani durante il Medio Evo, serviranno di splendido commento alla storia, che va compilando con si profonda dottrina il nostro Romanin. Gli Italiani impareranno a conoscere un altro ingegno grande e modesto, che si consumò oscuramente nella polvere delle biblioteche, e fra le cifre d’una ragioneria; io sarò contento di aver eseguito appuntino gli ultimi desiderii d’un uomo, che meritava più assai di quanto non cercò mai di ottenere.
Le domeniche quando colla carrozza (ohimè! sento anch’io lo scirocco di monsignore!) conduco la Pisana, mio genero, e i quattro nipotini, o alla fontana di Venchieredo od a Fratta, mi passa sulla fronte una nuvola di melanconia; ma la cancello tosto colla mano e riprendo la solita ilarità. Enrico si maraviglia di trovarmi così sereno ed allegro, dopo tante disgrazie, nell’età non tanto allegra di ottantatrè anni. Io gli rispondo: — Figliuolo mio, i peccati affliggono più delle disgrazie; ma quei pochi che aveva io, credo averli scontati abbastanza, e non me ne spauro. Quanto alle disgrazie, non danno più gran fastidio sul limitare della tomba: e senza creder nulla, senza pretender nulla, mi basta esser sicuro che al di là nè mi attende sorte peggiore, nè castigo veruno! Bada a procacciarti una tal sicurezza, e morirai sorridendo!
Sì, morire sorridendo! Ecco non lo scopo, ma la prova che la vita non fu spesa inutilmente, ch’essa non fu un male nè per noi, nè per gli altri. Ed ora che avete stretto dimestichezza con me, o amici lettori, ora che avete ascoltato pazientemente le lunghe confessioni di Carlo Altoviti, vorrete voi darmi l’assoluzione? Spero di sì. Certo presi a scriverle con questa lusinga, e non vorrete negare qualche compassione ad un povero vecchio, poichè gli foste cortesi di sì lunga ed indulgente compagnia. Benedite, se non altro, al tempo nel quale ho vissuto. Voi vedeste come io trovai i vecchi ed i giovani nella mia puerizia, e come li lascio ora. È un mondo nuovo affatto, un rimescolio di sentimenti, di affetti inusitati, che si agita sotto la vernice uniforme della moderna società: ci pèrdono forse la caricatura e il romanzo, ma ci guadagna la storia. Oh, se come dissi un’altra volta, noi non pretendessimo misurare col nostro tempo il tempo delle nazioni, se ci accontentassimo di raccogliere il bene che si è potuto per noi, come il mietitore che posa contento la sera sui covoni falciati nella giornata, se fossimo umili e discreti di cedere la continuazione del lavoro ai figliuoli ed ai nipoti, a queste anime nostre ringiovanite, che giorno per giorno si arricchiscono di quello che si fiacca, si perde, si scolora nelle vecchie, se ci educassero a confidare nella nostra bontà e nell’eterna giustizia, no, non sarebbero più tanti dispareri intorno alla vita!
Io non sono nè teologo, nè sapiente, nè filosofo; pure voglio sputare la mia sentenza, come il viaggiatore che per quanto ignorante, può a buon dritto giudicare se il paese da lui percorso sia povero o ricco, spiacevole o bello. Ho vissuto ottantatrè anni, figliuoli; posso dunque dire la mia.
La vita è quale ce la fa l’indole nostra, vale a dire natura ed educazione: come fatto fisico è necessità, come fatto morale ministero di giustizia. Chi per temperamento e persuasione propria sarà in tutto giusto verso se stesso, verso gli altri, verso l’umanità intera, colui sarà l’uomo più innocente, utile, e generoso che sia mai passato pel mondo. La sua vita sarà un bene per lui e per tutti, e lascerà un’orma onorata e profonda nella storia della patria. Ecco l’archetipo dell’uomo vero ed intero. Che importa se anche tutti gli altri vivessero addolorati ed infelici? Sono degeneri, smarriti, o colpevoli. S’inspirino a quell’esemplare dell’umanità trionfante, e troveranno quella pace che la natura promette ad ogni sua particella ben collocata. La felicità è nella coscienza; tenetevelo a mente. La prova certa della spiritualità, qualunque ella si sia, risiede nella giustizia.
O luce eterna e divina, io affido ai tuoi raggi imperituri la mia vita tremolante e che sta per ispegnersi!..... Tanto sembra spento il lumicino al cospetto del sole, come la lucciola che si perde nella nebbia. La tranquillità dell’anima mia è oramai imperturbata, come la calma d’un mare su cui non possono i venti; cammino alla morte come ad un mistero oscuro imperscrutabile, ma spoglio per me di minacce e di paure. Oh se fosse fallace questa mia sicurezza, la natura si piacerebbe a schernire, a contraddire se stessa! Non posso crederlo; perchè in tutto l’universo non ho trovato ancora nè un principio che sfreddi e riscaldi, nè una verità che neghi ed affermi. Un brivido mi avvisa della vicinanza del pericolo; sarebbero tanto cieche le menti, da non avere neppur l’involontario accorgimento dei nervi?...
Oh no! lo sento dentro di me; lo dissi con fede incrollabile, e lo ripeto ora con ferma speranza. La pace della vecchiaja è un placido golfo, che apre a poco a poco il varco all’oceano immenso infinito, e infinitamente tranquillo dell’eternità. Non veggo più i miei nemici sulla faccia della terra, non veggo gli amici che mi hanno abbandonato ad uno ad uno, velandosi dietro le ombre della morte. De’ miei figli chi se n’è andato con generosa impazienza, chi si è scordato di me, e chi rimane al mio fianco per non farmi disprezzare i beni sicuri di questa vita, mentre aspiro agli ignoti e misteriosi dell’altra. Ho misurato coi brevi miei giorni il passo d’un gran popolo; e quella legge universale che conduce il frutto a maturanza, e costringe il sole a compiere il suo giro, mi assicura che la mia speranza sopravviverà per diventar certezza e trionfo. Che deggio chiedere di più?... Nulla, o fratelli!... Io piego la fronte più contento che rassegnato sul guanciale del sepolcro, e godo di vedersi allargar sempre più gli orizzonti ideali, mano a mano che scompajono i terrestri dalle mie pupille affralite.
O anime mie, sorelle di sangue, di fede e d’amore, trapassate o viventi, sento che non è finita ogni mia parentela con voi!... Sento che i vostri spiriti mi aleggiano carezzevoli d’intorno, quasi invitando il mio a ricongiungersi col loro aereo drappello... O primo ed unico amore della mia vita, o mia Pisana, tu pensi ancora, tu palpiti, tu respiri in me e d’intorno a me! Io ti veggo quando tramonta il sole, vestita del tuo purpureo manto d’eroina, scomparir fra le fiamme dell’occidente, e una folgore di luce della tua fronte purificata lascia un lungo solco per l’aria, quasi a disegnarmi il cammino. Ti intravvedo azzurrina e compassionevole al raggio morente della luna, ti parlo come a donna viva e spirante nelle ore meridiane del giorno. Oh tu sei ancora con me, tu sarai sempre con me! perchè la tua morte ebbe affatto la sembianza d’un sublime ridestarsi a vita più alta e serena. Sperammo ed amammo insieme; insieme dovremo trovarci là dove si raccolgono gli amori dell’umanità passata, e le speranze della futura. Senza di te che sarei io mai?... Per te, per te sola, o divina, il cuore dimentica ogni suo affanno, e una dolce malinconia suscitata dalla speranza lo occupa soavemente.