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Cap. I | ► |
CENNI BIOGRAFICI
D’ IPPOLITO NIEVO.
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Ippolito Nievo nacque in Padova nel novembre del 1832, da Antonio e Adele nobile Marin.
Passò parte dell’infanzia nella città nativa, e parte in Soave, ridente paesello del Veronese.
Fornì poscia il corso ginnasiale nel Collegio vescovile di Verona, dove lasciò nei maestri, al pari che nei condiscepoli, la più cara memoria del suo ingegno precocemente sviluppato e riconosciuto, e d’una vivacità d’indole non comune, ma pur sempre temperata dalla bontà del cuore, e dalle costanti e feconde occupazioni intellettuali.
Nel 1848 egli passava dal Collegio di Verona al Liceo di Mantova, essendosi appunto in quella città trasferita la sua famiglia, di cui per tutta la vita si mostrò tenero oltre ogni dire.
Scoppiò in quei giorni l’insurrezione della Venezia, e i genitori d’Ippolito, trovandosi quasi impotenti a domare il suo fervido desiderio di correre all’armi, per allontanarlo dalla scena principale degli avvenimenti rivoluzionari, e per fargli apprendere, nello stesso tempo, alle vive sue fonti la lingua nativa, lo inviarono a proseguire in Pisa il corso dei filosofici studi.
Se non che quando, poco più tardi, gli Austriaci invasero la Toscana, egli, non più trattenuto dalla presenza e dal consiglio de’ suoi più cari, corse da Pisa a Livorno, dove apprestavasi una gagliarda benchè vana resistenza allo straniero, e nella breve ma sanguinosa lotta cui volle prender parte, diede prima e bella prova di quell’indomito coraggio, che doveva sì largamente rifulgere nelle future battaglie dell’indipendenza italiana.
Caduta anche Livorno, egli riesciva a sottrarsi ai vincitori con l’intendimento di recarsi a Roma, dove tuttavia sventolava la patria bandiera; e non fu che a grave fatica e quasi usando della forza, che un amico della di lui famiglia (chiedendo ed ottenendo in suo nome, ma a di lui insaputa, un passaporto austriaco) riesciva a rimandarlo ai parenti. Nè devesi maravigliare che l’Austria concedesse al Nievo il libero ripatrio, ove si pensi che se quel governo avesse voluto esiliare, imprigionare od uccidere tutti i veneti ribelli, non avrebbe in quel tempo dominato che sopra un deserto.
I genitori d’Ippolito, cui non pareva vero rivederselo sano e salvo, per preservarlo da nuovi perigli lo inviarono allora a Revere, tranquillo paese del Mantovano, dove finalmente egli compì il corso liceale. Reduce a Mantova nelle autunnali vacanze, la trovò fatta centro alle cospirazioni mazziniane, alle quali egli pure cooperò con tutte le forze della mente e del cuore, talchè fu miracolo, dovuto più che ad altro alla onesta condotta dei complici carcerati, che potesse sfuggire alle pene ed ai supplizi, in quella trista epoca si largamente profusi dall’austriaco governo.
Pure venne un punto in cui si vide per tal modo vigilato e compromesso, che aderì al desiderio de’ suoi trasferendosi tacitamente in un loro ameno possedimento nella campagna friulana, dove condusse una vita tanto isolata, che corse voce si fosse recato fuori d’Italia.
Quei mesi, tolti per necessità alle agitazioni patriottiche, egli li dedicava interamente allo studio, di cui sempre più gli cresceva l’amore.
Pareva presentisse che i suoi anni erano contati, nè doveva perdere infruttuosamente uno solo di quei giorni preziosi!
Scemati alquanto i rigori polizieschi, si recò a Padova per compiere in quella Università la carriera legale. Incominciò allora a pubblicare sull’Alchimista Friulano, giornale reputatissimo nelle venete provincie, perchè redatto dagli egregi Valussi, Giussani e Ciconi, alcune sue poesie, fra il critico e l’umoristico, le quali arieggiavano il fare del Giusti, uno degli autori prediletti dal Nievo. Queste poesie lo fecero in breve conoscere ed apprezzare per tutto il Veneto, e nel chiudersi del 1852 venivano raccolte in un bel volumetto, di cui si fecero cento soli esemplari, e nella dedica del quale si leggevano le iniziali della prima e più cara amica del giovane poeta.
Egli studiava indefessamente e scriveva. Compose un Dramma, Il Galileo, che ottenne in quell’anno un successo, più che di effetto di stima, nelle scene di Padova, ma che, se mancava di quel certo colorito d’onde rampollano gli effetti teatrali, indispensabili alla felice rappresentazione scenica, pure come lavoro storico e letterario, presentasi ricco di pregi non comuni in una prima prova d’un genere sì difficile, tentata da un giovanetto.
Dopo questo dramma volle esperimentarsi anche alla commedia, ed una delle due che allora scrisse venne trovata degna d’una speciale menzione onorevole nel concorso drammatico aperto in Torino nel 1855. Ed in quell’anno appunto il Nievo laureavasi in legge nell’Università patavina.
Nei susseguenti 1856-1857 pubblicò in Milano, dove erasi eletto domicilio, due Romanzi intitolati il primo il Conte Pecoraio, l’altro Angelo di Bontà, entrambi accolti con giusta soddisfazione dai milanesi, ma per le fatali condizioni politiche che dividevano l’Italia non conosciuti punto fuori del Lombardo-Veneto. Erasi fatto intanto corrispondente lodatissimo di parecchi giornali fra i quali Quel che si vede e quel che non si vede, il Pungolo, il Panorama, la Rivista veneta ec., e scrisse molte novelle e poesie varie, le quali tutte andavano adorne di stile e di pensieri elevati, e tutte s’informavano ai più sacri sentimenti di patria.
Nei due anni 57 e 58 incominciò e compì nel Friuli, e precisamente nella sua prediletta dimora al Castello di Colloredo, queste Memorie d’un Ottuagenario, dove giganteggia la potenza narrativa, descrittiva e logicamente imaginosa, di cui l’autore aveva dato bel saggio nelle novelle e nei brevi romanzi antecedenti.
Qualunque fosse la sua dimora, egli fece sempre parte dei comitati patriottici, e nel 1859, credendo ormai più opportuno fare il soldato che non il cospiratore od il semplice letterato, portossi ad Arona sul Lago Maggiore per raggiungere il Generale Garibaldi; e fece sotto i di lui auspici quella brillante campagna, che parve degno prologo alla spedizione dei Mille.
Scioltesi le milizie garibaldine, tornò a Milano, dove diede alle stampe un volumetto, composto di brevi poesie scritte durante la guerra, e che significavano le impressioni più vive riportate dal campo, ed erano un armonico insieme che ritraeva la vita eccezionalmente poetica dei nostri giovani volontari.
È incerta l’epoca nella quale scrisse due tragedie ancora inedite, lo Spartaco ed i Capuani; ma noi facciamo voti perchè anche questi due lavori escano alla luce, persuasi che verranno annoverati fra i migliori che vanti in questo genere la patria letteratura. Così pure rimangono inedite parecchie sue eccellenti versioni dall’Heine, nè ben conosciamo la ragione che, or sono cinque anni, faceva abortire la bella idea sorta in Milano di pubblicare un di lui epistolario, di cui la famiglia e gl’intimi amici aveano di già fornita la materia, prescegliendo le lettere sue più notevoli, ed atte a farci meglio conoscere la tempera di quell’anima e di quell’ingegno. Il Nievo possedeva una tale accurata facilità epistolare, e visse in un’epoca e in una vita così feconde di avvenimenti diversi, che certo quel libro avrebbe trovato in Italia un’accoglienza ed una simpatia, non dissimile forse da quella che vi trovarono i Ricordi dell’illustre e compianto D’Azeglio.
Iniziata appena la spedizione per la Sicilia, il Nievo volle parteciparvi. Dopo il fatto di Calatafimi ebbe il grado di Tenente, di lì a pochi giorni venne eletto Vice-intendente, ed in fine Tenente-Colonnello. Questo rapido succedersi d’onorificenze, a lui da’ suoi stessi colleghi desiderate e plaudite, vale a dimostrare meglio d’ogni parola com’Egli esercitasse quelle faticose incombenze, pur tanto diverse dalle recenti sue studiose consuetudini.
Quando, dopo la presa di Capua, si licenziarono i volontari, ritornò anche Ippolito per qualche mese a Milano; ma sul finire del 1860, nel desiderio di riordinare i resoconti della gestione amministrativa garibaldina, riprendeva volonteroso la via della Sicilia, ed allora ch’Egli, compiuta la dilicata missione, si apprestava al ritorno, la sua salute appariva tanto sensibilmente alterata, che tutti gli amici rimastigli in Palermo lo sollecitarono vivamente a ritardare l’inopportuna partenza.
Ma nè gli avvisi, nè le sofferenze, nè il tempo minaccioso (che a torto si pensava potere sfidare col vecchio e logoro legno a vapore che chiamarono l’Ercole) valsero a rimuoverlo dalla presa determinazione, nella quale forse si ostinava pel timore che il suo fermarsi apparisse viltà, mentre un pericolo c’era, e molti doveano per necessità affrontarlo. Egli insieme agli altri passeggeri partì.
È nota la catastrofe di quel viaggio, e la fine spaventosa dell’Ercole. Nè del legno nè del suo equipaggio si potè mai più rinvenire una sola reliquia.
Così veniva miseramente rapito, nell’età di 29 anni, alla famiglia e alla patria uno degli uomini più leali e generosi, uno degli ingegni più forti, più colti e vivaci che l’onorassero mai.
E qui ci torna opportuno dare pubblicità ad una bella poesia, ancora inedita, che sopra Ippolito Nievo dettava quella gentile poetessa che è la signora Erminia Fuà-Fusinato. Questi versi compiono i brevi cenni biografici raccolti, e sono, come a dire, una degna cornice al quadro meraviglioso di tante vicende che raccoglieva in questi due volumi il Nievo, con felicità di successo straordinario innestando alla fantasia la storia. E non diciamo altro dell’opera, la quale vuol essere presentata senza fronzoli ai lettori, perchè li reputiamo degni d’intenderla da per sè.
Gli Editori.