< Le madri galanti
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Atto III Atto V

ATTO QUARTO


La Sala dei due primi Atti.

SCENA PRIMA.

Anna, e il Conte.
(Anna è seduta — il conte passeggia agitato)

Conte.

Poco fa per eludere le mie domande evocaste le memorie della luna di miele. — Convenitene, memorie abbastanza lontane; luna sbiadita, sbiadita sull’orizzonte fra le nubi vaporose delle migliaia di merletti, di tessuti e di veli che si successero sulle vostre spalle. Anna! voi non vi sentite scevra di colpe poichè vi ritirate dietro queste trincee: io mi aspettavo armi meno spuntate da una donna del vostro spirito.

Anna.

Il mio spirito? è un’ora che gli gridate la croce addosso: non mi diceste un momento fa che lo spirito è il bersaglio della maldic

Conte.

E lo ripeto....

Anna.

E che bisogna mutar vita? Ebbene, l’ho turato il mio spirito. — Adesso, voi vi burlate, scettico che siete, anche del mio cuore?

Conte.

Il vostro cuore? oh! da molto tempo egli giace dietro la vostra bianca epidermide, precisamente come una libreria nella maggior parte delle case dei nostri amici: tutti i tesori di questo mondo; ma sotto vetrina, vetrina che resta religiosamente chiusa e di cui talvolta va smarrita la chiave.

Anna.

Siete un miracolo di gentilezza. — E tutto per uno scandalo, in cui non ho colpa io.

Conte.

Fu un velo squarciato, Anna. — Voi non siete più sola in società: la riputazione di Camilla sta dietro la vostra,... e quel nome....

Anna.

Domandate a Salvi, a lui che la vuol sposare, perchè lo ha profanato il nome di Camilla.... in una festa da ballo.

Conte.

Voi esagerate adesso: non è profanato il nome della fanciulla se è un onest’uomo che lo pronuncia.

Anna.

Ma in una festa da ballo....

Conte.

Ah! dunque, signora, l’atmosfera che circonda le vostre spalle nude, molto nude, basta sola a corrompere persino il nome di una giovinetta? Tanto peggio!

Anna.

Con qual diritto lo ha pronunciato? Ieri ancora, Camilla era un fiore ignorato: quando il giorno opportuno fosse giunto, avrebbe certo destato ammirazione viva e sincera, ma rispettosa.... Ora eccola sulle labbra di tutta un società ciarliera e curiosa.

Conte.

Quando si tratta di vostra figlia, voi non vedete la società dal solito punto di vista: la smascherate con una strana ingenuità: ah! cercando la chiave del cuore, perdete assolutamente quella dello spirito.

Anna.

Voi me lo fate perdere: e poichè parlate chiaro, parlerò chiaro anch’io. — Sono stanca di scene. Ieri me ne faceste una a proposito di questa vostra sposina appena uscita di fascie.... che volete imparentare col codice, voi che avete un acquila sul vostro blasone....

Conte.

Ah! rimettete la maschera? Ebbene: sappiate che i blasoni ai dì nostri hanno perduta l’indoratura.

Anna.

Sì, come a vostro parere io ho perduto lo spirito e la chiave: voi, voi dimenticaste la vostra dignità non rispondendo a quell’avvocato come meritava, e trattando me come.... come non mer

Conte.

Ebbene: vi do’ parola che oggi a ogni costo saprò come voi stessa trattaste e trattate vostro marito. Quanto a Camilla, lasciatemene il pensiero; io non abdico il mio potere paterno.

Anna.

Ne’ io quello di madre.

Conte.

Ne dimenticaste da molto tempo i doveri.

Anna.

Questa vostra è una crudeltà senza esempio, lasciatemi....

Conte.

No: ascoltatemi, e con tutta attenzione. (Anna siede indispettita) Rimorchiandomi nei vostri convegni galanti, in queste fiere dei vostri gioielli e dei vostri sorrisi, mi menavate a scuola senza saperlo. — Ho veduto sempre e dappertutto l’amore preferito al matrimonio: è un fenomeno spiegatissimo: i romanzi piacciono assai più della storia. Perciò feci quant’era in me perchè la storia in casa mia fosse possibilmente meno noiosa. Era un dovere, nè però mi sarei creduto per questo meno esposto alle sventure.... ai pericoli, se la mia stima illimitata per voi non fosse stata l’armatura che mi preservava nel presente e nell’avvenire dal timore delle.... vicende che mi vedevo accadere d’intorno....

Anna.

Voi parlate come se aveste in mano una prova, come se aveste la certezz

Conte.

Allora non vi parlerei più. — (pausa) Per gli sposi la pace domestica è il fiore che sbuccia dalle attrattive reciproche, dai reciproci vezzi; ma quando il nome di sposi si cambia in quello di marito e di moglie, allora.... gli è pur forza amarsi, per lo meno vivere in buona armonia ad onta delle spine cresciute intorno a quel fiore; la pace diventa il frutto della tolleranza. Questa virtù l’ho praticata, Anna....

Anna.

E credereste forse, Gustavo, che anch’io....

Conte.

L’avrete esercitata anche voi, non nego; però in dose omeopatica; — io all’incontro ho mandato giù delle pillole molto amare, Anna, delle pillole ch’erano....

Anna.

Dosi d’arsenico forse?

Conte.

Quasi. — Voi avete corso il mare magno della vita galante: io sono stato sulla spiaggia ad osservare la vostra candida vela, sicuro che se il vento si fosse fatto pericoloso avreste avuto la prudenza, la forza di ammainarla. — Stanotte è scoppiato l’uragano: voi ci eravate in mezzo, navicella che porta il mio nome....

Anna.

Ed eccomi in porto.

Conte.

Manco male. — L’uragano non vi ha inghiottito.... ma vi sono avar

Anna.

(con dispetto). Voi vi afferrate alle vostre idee con una strana caparbietà.

Conte.

Gli è che qui si tratta di sapere tutta la verità. — Si tratta di sapere s’io ho ingoiato veramente l’arsenico, se la confidenza fu dabbenaggine, e codardia la pazienza. Si tratta di sapere cosa faceste del mio povero nome!...

Anna.

Voi scherzate su cose tali?

Conte.

Potrebbero essere gli ultimi scherzi della mia vita! — Oggi, vo lo ripeto, la luce sarà fatta.

Anna.

Volete ricorrere a un ufficio d’indizi? volete esporre il mio nome al giudizio dei vagheggini maledici? saranno felici di lacerarlo.

Conte.

Perdio! insegnatemi come far la luce ’altrimenti sullo scandalo di questa notte! Voi dite di esserne al buio: vorreste ch’io sfogliassi la margherita come un pastorello per sapere se mi amate o se mi tradite? Sarà tutta vostra la colpa se troverete chi scagli la pietra....

Anna.

Dio mio! voi fate comodamente la morale qui in casa: ma metterla in pratica fuori del guscio non è tanto facile. — Si, datevi attorno; troverete i testimoni dell’accusa; quelli della difesa saranno assenti e d’ignota dimora.

Conte.

E non sapevate voi prima di adesso che l’onestà deve congiungere alla purezza che soddisfa la coscienza, la prudenza che indovina e previene la calunnia? Se non vi troverò colpevole e vi saprò calunniata, sarà una differenza che soddisferà il mio amor proprio: ma il sistema passato non sarà stato buono per questo.

Anna.

E mi bandirete dalla società, non è vero? condannerete la madre al convento cui sottraete la figlia?

Conte.

Farò quello che la dignità e l’amor mio mi ispireranno. — Cercate, cercate, Anna, quella tal chiave smarrita, e le mie parole non vi daranno più l’emicrania.

Anna.

Badate.... giunge vostra sorella. — Ella forse ha tutto udito: ecco come voi mi fate la riputazione! e poi venitemi a parlar di prudenza! (esce).



SCENA II

Maria e il Conte. (Il conte si getta agitatissimo sopra una sedia; entra Maria).

Conte.

Maria! arrivi dalla strada? oggi anticipasti di molto la passeg

Maria.

Appunto. — Rientro con Camilla: ella si è indugiata nella anticamera colla cameriera di tua moglie per chiederle novelle del fratellino malato.

Conte.

Ella è buona, non è vero, buona assai la mia figliuola?

Maria.

Tutta bontà, tutta candore....

Conte.

O Maria! perchè la società ce le guasta col suo alito velenoso queste dolci e ingenue creature.

Maria.

Come ti fai serio, fratello: gli è forse perchè Camilla ha perduto da qualche tempo il suo buon umore?

Conte.

Mi sono accorto, sì, del cambiamento; ignara d’ogni cosa di questo mondo, ella è triste da qualche tempo, come se le avesse già tutte conosciute.

Maria.

Ma, via, fratello.... hai delle idee molto lugubri stamane sulle cose di questo mondo. — La malinconia di tua figlia è ben naturale del resto....

Conte.

Si, perché ella ama.

Maria.

E giacché ti è nota la malattia...

Conte.

Oh! voglio che lo sposi, a ogni costo: andranno a stabilirsi in campagna; e io con loro.... verremo nel tuo villaggio solitario, e vivremo la vita tranquilla, serena, vera.... noi quattro....

Maria.

(inquieta) Oh! certo una sventura, una sventura è passata sulla tua casa.... sopra te stesso....

Conte.

Che! che dici?... sopra di me?..

Maria.

Tua moglie forse!...

Conte.

Ebbene, che ne sai tu? Maria, dimmi....

Maria.

Calmati.... io, io non so niente: ma la tua faccia le tue parole.... tu escludevi tua moglie del sogno della tua vita avvenire....

Conte.

E tu temevi di una catastrofe.... che forse non avvenne. — Ah! mi ricordo, sorella, ed ora più che mai, de’ tuoi consigli: tu non approvasti mai le abitudini di mia moglie, e mi rimproverasti sempre la mia debolezza.

Maria.

Ma pure qualche cosa ti è accaduto.

Conte.

Stanotte fummo a casa del barone Abati, un barone ridicolo, ma una casa molto alla moda. — Mia moglie era bella, corteggiata, ammirata; io annoiato a morirne. — Verso l’alba, il rumore di una disputa mi attira in un gabinetto dove trovo Anna fra il sig. Collalto e l’avvocato Enrico; una provocazione era stata gettata, si parlava di una riparazione d’onore. — Il nome di una moglie è sulle labbra di tutti i benevoli astanti: metto alle strette l’avvocato e mi risponde....

Maria.

Che cosa?

Conte.

Che si batteva per mia figlia! Era una risposta evasiva.

Maria.

Come ci poteva entrare la povera Camilla!

Conte.

Ecco il mistero.

Maria.

Ma tua moglie?...

Conte.

Ella, ella sola deve essere stata la causa dello scandalo!

Maria.

Il signor Enrico avrebbe dovuto venir subito....

Conte.

(pensieroso). Egli fu sempre il migliore de’ miei amici, ma come spiegare il suo contegno?

Maria.

Io mi ci perdo davvero!

Conte.

Voglio uscire di casa; avrò da chi so io la spiegazione di questo enigma. — Ecco Camilla; non sappia parola di tutto questo.

Maria.

Oh no! ha già abbastanza di che tormentarsi.

Conte.

Se venisse Enrico, mi aspetti. — Io vado da donna Matilde.

Maria.

Da colei!... (s’interrompe vedendo entrare Camilla).


SCENA III

Detti e Camilla.

Camilla.

Oh! addio, papà, dammi un bel bacio. — Sta meglio sai, zia, il fratello di Marianna. Le ho regalato l’usignolo nella sua bella gabbia dipinta perchè l’appenda nella stanza del poveretto. Così egli avrà un compagno per cantare le canzonette della convalescenza.

Maria.

(baciandola in fronte) Mia cara....

Conte.

E tu, quando canterai bricconcella...?

Camilla.

Io? ma io canto sempre!

Conte.

A bassa voce allora, e in tal caso le canzonette somigliano ai sospiri. Ah! tu sospiri?

Camilla.

Non ti capisco.

Conte.

Tanto meglio. — Ora, un altro bacio, e addio sorella.

Camilla.

Come! esci di casa, papà? così presto?

Conte.

Per tornar subito: addio. (esce).


SCENA IV.

Camilla e Maria.

Camilla.

Il papà scherzava con una faccia scura scura; ma, cosa vuol dire?

Maria.

Eh! gli uomini hanno tante brighe, tanti affari; mon ci badare. — Ora, dimmi piuttosto: sei contenta della passeggiata?

Camilla.

Certo. Come sorridevano quelle faccie quando aprimmo il sacco pieno di giubboncini e di camiciuole. — Ma dimmi, perchè questi poveri non sanno ringraziare senza ripetere: Signora contessa, signora contessina!? È dunque il nostro titolo che ispira la loro riconoscenza.

Maria.

Le sono debolezze dell’umana natura.

Camilla.

Eppure ho sempre creduto che la vera nobiltà non fosse quella che si trova bell’e fatta nascendo.

Maria.

Sicuro. Tanto più che la maggior parte dei nobili ai dì nostri somigliano ai loro antenati come.... il Cicerone di Brera somiglia all’oratore romano.

Domestico.

(annunziando) Il signor Salvi.


SCENA V.

Camilla, Maria, Salvi poi Anna.

Salvi.

(entrando e salutando) Signora Maria, signorina....

Maria.

Oh! il nostro signor Enrico! — vi aspettavamo.

Salvi.

Lo credo. E senza certi affari di tutta urgenza sarei venuto molto prima. — La signora contessa è visibile?

Camilla.

Sì, sì. Margherita le ha servito poc’anzi la colazione.

Maria.

Le annuncieremo la dí lei visita.

(s’incammina alla porta).

Anna.

(dalla sinistra) Chi c’è? oh! signor Salvi.

Salvi.

Contessa.

(Maria e Camilla escono).


SCENA VI.

Anna e Salvi

Anna.

Davvero che vi aspettavo. E non m’ingannai certo, sperando che dopo un benefico sonno sareste rinsavito?

Salvi.

Ho paura d’esser io l’ingannato, signora, chè davvero sperava, dopo una scena come quella di questa notte, avreste dato qualche giorno di congedo alla vostra ilarità..., e questa ironia...

Anna.

Speravate dunque trovarmi colla emicrania e cogli occhi rossi di pianto?

Salvi.

Perdonate, signora contessa: vi sta davanti un uomo profondamente commosso: i vostri scherzi, credetemi, mi fanno molto male. Lasciate ch’io vi parli seriamente, con la mia franchezza....

Anna.

(con ironia) Oh! la vostra franchezza!

Salvi.

Lo so. Ella è ospite importuna in società.

Anna.

In società?... ma voi vivete nei boschi, voi? la società! via, sento di abituarmi a poco a poco alle prediche. Coraggio, stigmatizzatela anche voi questa mia povera società.

Salvi.

Perdonate....

Anna.

Chiamatela anche voi la fiera, il mercato dove noi portiamo le monete di rame e voi seminate le verghe d’oro, voi!

Salvi.

Se volete attribuirmi boria di predicatore, e orgoglio di moralista, non colpite nel segno. — Sì, posseggo, è vero, un tesoro; sono guidato da una verga magica....

Anna.

Davvero? beato voi! e perchè non mi partecipaste una tanta fortuna?

Salvi.

Ve la partecipai, contessa, quando vi chiesi la mano di vostra figlia...

Anna.

Ah! è dunque Camilla la maga, il tesoro è Camilla? — Perdonatemi a vostra volta, ma, per l’avvenire, non contate che sul vostro scrigno e non lasciatevi guidare che dal vostro cervello.

Salvi.

Cercai di farlo sempre.

Anna.

Non questa notte, per esempio, nè quando vi saltò in capo di impalmare la contessina Camilla.

Salvi.

(serio) Allora, e sempre! — Ma vi prego, signora contessa, abbandoniamo questa scherma di parole, di ironie e di sottintesi. Io vi devo una spiegazione.

Anna.

È da qualche tempo, mi pare, che la sto aspettando.

Salvi.

Ditemi sinceramente, o signora: la scena di questa notte vi parve essa tanto strana? sinceramente, ditemi, non la prevedevate voi?

Anna.

Buon Dio! le cadute degli aereoliti non so se le prevedano neppure gli astronomi.

Salvi.

Eppure con un po’ più di stima per me e per la mia passione, meglio che prevederla, avreste potuto arrestarla nell’aria.

Anna.

Insomma, voi pretendete da me profezie e miracoli....

Salvi.

Le madri sanno farli i miracoli; io ne pretendevo uno dalla madre di Camilla....

Anna.

Ah! ma sapete che questa vostra ostinazione nel chiamarmi la madre di Camilla è molto ridicola, signor avvocato? Io sono la contessa Anna, se vi garba, e non potrò mai essere altro per voi. — Passate sugli ostacoli, sui rifiuti che rendono impossibile questo matrimonio, con una facilità...

Salvi.

Quali rifiuti, signora contessa? quali ostacoli? vostro marito....

Anna.

Il rifiuto mio.... l’abisso che separa la nostra dalla vostra posizione....

Salvi.

Ah! è questo l’ostacolo? Via, alla fine parlaste chiaramente. — Potrei rispondervi che appunto facendo i calcoli col mio scrigno e col mio cervello, come voi dicevate, questo ostacolo non mi parve un abisso. Il mio senso paterno difendeva da ogni sospetto meno nobile la mia domanda: aveva davanti a me una brillante e onorata carriera; ma, poichè per voi gli uomini valgono in ragione degli antenati, poichè la madre, scusatemi, misura la felicità della figlia a stregua di blasone.... ebbene! ogni spigazione sul mio contegno diventa perfettamente inutile: la signora contessa non mi capirebbe. — Mi giustificherò col conte.

Anna.

Sì, congiurate con lui, mettetevi all’ombra di quella sua buona fede adamitica per strappargli un assenso che io non dividerò mai. — Ah! spiegherete il vostro logogrifo a lui? fatelo; ho la coscienza pura, e da voi non temo calunnie.

Salvi.

Ma non potete essere egualmente sicura degli altri vostri amici, dei vostri eleganti amici. — Voi accusate vostro marito di troppa buona fede: eppure la vostra supera di gran lunga la sua.

Anna.

Scherzate?

Salvi.

Quel signor Collalto, davanti a me, a me che vi parlo, dilaniò la vostra riputazione, questo sacro retaggio di vostra figlia; le vostre galanti abitudini non sono esse tali da vestire di verità le sue vili millanterie? contessa, eccovi una lettera di scusa che i miei padrini ottenevano stamane da quel superbo vigliaco.

(le dà una lettera).

Anna.

(senz’aprirla). Ciò che voi dite è vero?... — Lo sia: la mia condotta in fin dei conti fu sempre troppo onesta perchè un vanarello, come quel signor Collalto, di cui mi parlate, possa offuscarmi la riputazione. — È questa dunque la vostra spiegazione? Voi vi battevate per la mia riputazione?

Salvi.

Dietro la vostra sta la riputazione della fanciulla che io amo.... io pronunciai il nome della fanciulla; il vostro non avrei potuto pronunciarlo senza offendervi....

Anna.

Voi usciste, signore, dal vostro diritto.

Salvi.

Obbedii a un dovere.

Anna.

Ebbene, io ho il dovere di disingannarvi sulle vostre illusioni.

Salvi.

E la vostra risposta alla domanda dell’avvocato Salvi è sempre la stessa?

Anna.

Sempre: ma amici sempre, non è vero? (dandogli la mano). Poichè vorrete, spero, far senno e comprendere le mie ragioni.... Dunque amici come prima?...

Salvi.

(con un inchino). Come prima di esservi presentato, signora contessa.

Anna.

Ah! (ritira la mano, s’inchina ed esce).

Salvi.

(al domestico che entra). Fatemi il favore di annunciarmi alla sorella del signor conte; ditele che avrei bisogno di vederla un momento. (domestico esce). — Sì, è necessario. (siede ad un tavolo e scrive con commozione crescente, quindi rilegge lo scritto, e lo piega in forma di lettera).


SCENA VIII.

Maria, Salvi.

Maria.

(entrando frettolosa). Chiedevate di me? volevate parlarmi?

Salvi.

Sì, perdonatemi, signora Maria, se la stima che nutro per voi mi fa abusare della vostra bontà.

Maria.

Caro signor Enrico, i complimenti sono inutili fra noi. Di che si tratta? Mio fratello mi tenne parola della faccenda di questa notte...

Salvi.

Ed io vi pregherei appunto di una ambasciata per lui. Eccovi questa lettera che vi pregherei di consegnargli.

Maria.

(inquieta). Ma, che c’è dunque?

Salvi.

Nulla, nulla che possa sgomentarvi. — Voi amate caldamente Camilla, sapete ch’io l’amo: ho indovinato tutto questo dalla vostra cordialità a mio riguardo: io debbo corrispondervi colla confidenza. Leggete. (le porge la lettera).

Maria.

Se non vi duole, fatemene voi stesso la lettura. Ho due occhi che vogliono ritirarsi dal servizio a ogni costo.

Salvi.

Leggo — (leggendo). «Amico mio — La scena di questa notte fu il signor Collalto che la provocò vantandosi con me della conquista di tua moglie. Dimenticandomi la realtà, risposi al calunniatore come se la donna da lui calunniata fosse già stata la madre della mia sposa. — Mi perdonerai tu d’aver usurpato il tuo diritto? Se non mi illusi, tu mi avevi già concesso quello di amare tua figlia — Or ora la contessa rialzò davanti a me la realtà — La mia passione è troppo profonda perchè ch’io possa dimenticare Camilla, ma la dignità e il dovere m’impongono di non turbare la pace della tua casa per fabbricarmi la felicità. Io mi allontano oggi da queste care pareti, per non ri vederle che fra molto tempo. Al mio ritorno non avrò uno stemma sul mio biglietto di visita, ma gli anni avranno portato via con sè l’ostacolo maggiore che adesso si frappone al mio matrimonio. — La madre sarà succeduta alla donna galante. Addio, addio colla fede e colla speranza.»

Maria.

Povera Camilla! sentite: evitiamole l’asprezza di un colpo improvviso; io so ch’ella v’ama tanto: ma è così facile allo spavento. — Cerchiamo di predisporla, ditele voi stesso una parte del vero, annunziate un viaggio abbreviando il tempo e la distanza. — Sì, sì’, fermatevi ancora un momento: vado da lei, le dico due parole, la conduco quì...

Salvi.

E mi fate partire colla gioia nell’anima! oh! cuor d’angelo...

(Maria esce).


SCENA IX.

Salvi, il Conte.

Salvi.

(il conte entra cupo, accigliato; Salvi si volge, e si scontra in esso). (con sorpresa). Oh!...

Conte.

Voi!... vi maravigliate ch’io entri in casa mia! disturbo forse?...

Salvi.

Tu scherzi?

Conte.

Tu... tu; ebbene! guardami in faccia (gli afferra la mano).

Salvi.

Perdio! tu hai le braccia di ferro.

Conte.

guardami in faccia, ti dico!

Salvi.

Che avvenne? sei tutto stravolto; lascia mi.

Conte.

Che avvenne? che avvenne? Tu non supponi che l’imbecille possa aver un lampo di senno, il cieco un raggio di luce, e mi domandi che avvenne? Giù la maschera scellerata’, la maschera ipocrita dell’amico, e mostrami nuda una buona volta la faccia.... ormai l’impostura non ti giova...

Salvi.

Sei tu impazzito?

Conte.

Non potevi tu uccidermi senza avvelenarmi la piaga? Ma fingersi innamorato di mia figlia, dell’unica mia figlia, e farla complice innocente in questo gioco infernale.... fare di questo amore un pretesto per tradire la ospitalità, per sedurre la madre!

Salvi.

Basta, perdio! non proseguire... Sei pazzo!

Conte.

(con ira crescente). Io ti credevo il migliore degli amici, il tipo della fierezza e dell’onestà; avevi sedotto me pure, ed io ero felice di dare alla mia Camilla un marito che credeva degno di lei.... e tu intanto ne profanavi la casa.... ne tradivi il padre....

Salvi.

Signor conte, per ciò che avete di più sacro...

Conte.

Oh! cose sacre al mondo? e ve ne sono ancora? giuraste anche per le ceneri di vostra madre, non riescireste a rimettermi la benda. Questa notte non trascinaste in publico il mio disonore? Tutti gli ospiti del barone non furono spettatori della tresca? Quel lùngo colloquio, quel fazzoletto, e impedirle di danzar con questo o con quello... oh derisione! eravate geloso della contessa: suo marito non lo fu mai, ma voi, che la conosceste meglio, temevate che quel Collalto mi disonorasse di seconda mano!

Salvi.

Vi ripeto, conte, ditemi chi fu l’autore dell’orrenda calunnia. — Ditelo in nome di Camilla.

Conte.

Taci: quel nome non ti venga più sulle labbra. Chi vi ha calunniato,? una donna che voi avete calunniato davvero, quando venivate a farmi la morale, a illuminarmi sulle amicizie della contessa.

Salvi.

Donna Matilde!... signor conte, un uomo che dimentica lunghi anni di amicizia, di affetto, per una parola velenosa di una donna come quella, merita la compassione e il disprezzo, non altra risposta.

Conte.

(irritatissimo). E avete anche il coraggio di ingiuriarmi?

Salvi.

(al colmo dell’agitazione). Ma voi, siete un uomo voi? credere a quella donna, distruggere tutto un passato per innalzare con una parola un presente ignominioso ad entrambi, a tutti? — Oh! dopo la morte di mia madre, io non piansi più, ma sento che le lagrime non erano inaridite del tutto.

Conte.

Chi non sa piangere di dolore, può piangere di rabbia, può contraffare le lagrime.

Salvi.

Il dolore si aggruppa nel cuore, la rabbia prorompe: io non piango, ma bestemmierò finchè avrò fiato, bestemmierò la turpe credulità, la debolezza ridicola, le ire e gli affetti di un giorno...

Conte.

Cessate, cessate una volta: siete ancora in casa mia e non posso...


SCENA X.

Detti, Anna poi Maria.

Anna.

Che avvenne, per amor del cielo? Cente. Via di quà, signora, via...

Maria.

(entrando affannata). Per carità, fratello! venendo a questa volta io e Camilla abbiamo udito le vostre ultime parole: la povera fanciulla è svenuta: certo tu sei ingannato.

Conte.

Oh sì! atrocemente ingannato.

Anna.

Ma, insomma, che avvenne?

Conte.

Non datevi più la pena di fingere, signora: ormai tutto è alla luce del giorno. Signor avvocato Salvi, la vostra vittima, la più innocente è là, malata in quella stanza. — (Enrico fa per slanciarvisi). — Fermatevi: stava per indicarvi una porta, ma non quella.

Salvi.

Io non partirò, signor conte, per quanti insulti possiate gettarmi in faccia: prima di andarmene voglio vedervi arrossire.

Maria.

Ma, fratello, ti ripeto che devi essere nell’errore: vieni, andiamo da Camilla; ho una lettera, vieni; ella è svenuta, ti dico. (Trascina verso la porta il conte ed esce con lui).

SCENA XI.

Anna, Enrico.

Anna.

Ma che cosa è stato, signor Enrico? non si può sapere nemmeno questo? Il vostro alterco si sentiva per tutto l’appartamento.

Salvi.

Oh! fu un’orribile cosa...

Anna.

(scherzando). Mio Dio! voi mi fate rabbrividire. — Pare che si tratti di un delitto

Salvi.

Diceste il vero.

Anna.

(con leggiera ironia). Da senno? E chi è il colpevole?

Salvi.

Voi

SCENA XII

Detti, Maria, il Conte e Camilla

Conte.

(tiene in mano la lettera di Salvi) Enrico... Enrico....

Salvi.

Camilla...

Maria.

(a Salvi). La posta è arrivata in tempo.... quantunque un po' tardi.

Salvi.

(serio). Troppo tardi, signora Maria.

Anna.

(fra sè). Ma oggi è dunque il giorno degli enigmi?

Camilla.

(commossa, sorridente, con gli occhi bassi). Signor Salvi.... ecco qui il babbo, che m'incarica di dirvi in suo nome.... due cos

Conte.

          (prendendo con trasporto la mano di Salvi). E cioè, che l’amico ti chiede perdono! ecco la prima: poi....

(guardando Camilla).

Anna.

(freddamente). Camilla, la seconda la direte dopo ch’io sarò partita (suona: al servo che si presenta:) avvertite la cameriera di prepararmi subito i bauli: fra un’ora voglio essere in via pel Lago.

(servo esce).

Conte.

(stupito e sdegnoso). Voi partite!....

Maria.

(con dolce rimprovero). In questo momento!

Camilla.

(piangente e supplichevole). Oh! mamma, tu parti?

Salvi.

Ah! no, per ora no; tocca a me di partire! — Addio, Camilla; addio, amico mio! signora contessa, potete rimanere.

(esce rapidamente).

(Camilla cade piangendo fra le braccia di Maria).

Conte.

(ad Anna). Guardate! e siete madre voi?



Cala la tela

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