< Le meraviglie del Duemila
Questo testo è completo.
XVI - Attraverso l’Atlantico
XV XVII


Attraverso l’Atlantico.


Il vecchio Jao non si era ingannato. Se la nuova società del Duemila aveva pensato di relegare in quelle strane città sottomarine gl’individui pericolosi, sopprimendo sui loro bilanci le spese di mantenimento per esseri ormai inutili, aveva però procurato loro degli asili sicuri, d’una solidità a tutta prova per non esporli ad una morte certa.

Così la città sottomarina, strappata dallo scoglio dall’impeto dei cavalloni, non era diventata altro che una città galleggiante, abbandonata è vero ai capricci delle correnti e dei venti, ma che poteva aspettare benissimo l’incontro di qualche nave marina o volante, purchè qualche bufera non la scaraventasse contro qualche ostacolo. Tutto il pericolo stava lì.

L’acqua dolce non poteva mancare, essendovi dei potenti distillatori elettrici che potevano fornirne in grande quantità; i viveri nemmeno, perchè reti ve n’erano in abbondanza e si sa che gli oceani sono ben più ricchi dei mari.

Disgraziatamente l’uragano aveva ben poca intenzione di finire. Nè le onde, nè il vento accennavano a calmarsi, minacciando di trascinare la città galleggiante in mezzo all’Atlantico, poichè la bufera imperversava da levante.

La gigantesca cassa d’acciaio, dopo essere sprofondata, era subito risalita a galla, rollando spaventosamente e girando su se stessa.

Se i piloni d’acciaio avevano ceduto sotto gli urti possenti delle onde, la cupola aveva meravigliosamente resistito al tuffo e meglio ancora avevano resistito i tre americani, il capitano ed il pilota del Centauro e Jao.

Aggrappati tenacemente alle traverse, avevano aspettato che la città ritornasse a galla, opponendo una resistenza disperata alle onde.

— Credevo che la nostra ultima ora fosse giunta — disse Brandok dopo aver respirata una gran boccata d’aria. — E tu, Toby?

— Io mi domando se sono ancora vivo o se navigo sotto l’Atlantico — rispose il dottore.

— Spero che sarai soddisfatto degli ingegneri che hanno fatto costruire questa colossale cassa.

— Gente meravigliosa, mio caro. Ai nostri tempi non sarebbero stati capaci di fare altrettanto.

— Ne sono pienamente convinto. Capitano, dove ci spinge la tempesta?

— Verso sud-ovest — rispose il comandante del Centauro.

— Vi sono isole in questa direzione?

— Le Azzorre.

— Andremo a sfracellarci contro di esse?

— Ciò dipende dalla durata della bufera, signore.

— Non vi pare che si calmi?

— Niente affatto. Infuria sempre tremendamente e temo che ci faccia ballare per molto tempo. Soffrite il mal di mare?

— Niente affatto.

— Allora tutto va bene.

— E se fra un paio di giorni questo cassone si schiaccerà contro qualche scoglio, andrà anche allora tutto bene? — chiese Holker, ridendo.

— Non l’abbiamo ancora incontrato quello scoglio, quindi, finchè non lo incontreremo, non abbiamo alcun motivo per allarmarci — rispose il capitano del Centauro. — Vi è però un’altra cosa che mi preoccupa assai.

— Quale?

— La risposta dovete darmela voi, Jao.

— Parlate, capitano.

— I vostri sudditi posseggono dei viveri?

— Per due o tre giorni, non di più.

— E noi?

— Prima che l’uragano scoppiasse, vi erano molti pesci messi a seccare lungo le balaustrate, ma credo che il mare abbia portato via tutto.

— Ne potremo avere dai forzati?

— Forse, quando si saranno stancati di bere — rispose Jao. — Vi sono però delle reti in un ripostiglio della cupola.

— Ma nessun distillatore per procurarci l’acqua...

— Quassù no.

— Corriamo dunque il pericolo di morire se non di fame, per lo meno di sete, se i vostri sudditi si rifiuteranno di fornirci l’acqua. Ecco quello che temevo.

— Abbiamo l’ascensore, capitano — disse Jao.

— Che ci servirà ottimamente per farci accoppare da quei pazzi. Non sarò certamente io che scenderò nella città per chiedere dell’acqua a quei furfanti. A proposito, che cosa fanno? Che si siano accorti che la loro prigione cammina attraverso l’Atlantico?

— Io scommetterei di no — disse Toby.

— Che dormano? — chiese Brandok. — Non odo più le loro grida.

— Andiamo a vedere — disse il capitano. — Sono curioso di sapere se continuano a bere ed a ballare.

Si spinsero verso il pozzo dell’ascensore.

Le lampade a radium ardevano sempre, ed un profondo silenzio regnava nell’interno della città galleggiante. Sulla piazza, in mezzo ad un gran numero di barili e d’ogni sorta di rottami, dormivano dei gruppi di forzati, fulminati di certo da quelle terribili bevute.

Altri giacevano stesi al suolo entro le case semidistrutte, prive dei tetti. Un orribile tanfo saliva sempre.

— Dormono come ghiri — disse Brandok.

— Sfido io, dopo una simile orgia! — rispose Toby — Un barile di ammoniaca non basterebbe a rimetterli in piedi.

— E noi approfitteremo del loro sonno — disse Jao.

— Per fare che cosa? — chiese il capitano del Centauro.

— Per fare la nostra provvista d’acqua, signore.

— Voi siete un uomo meraviglioso. Chi scenderà?

— Io.

— E se vi accoppano?

— Non vi è alcun pericolo — disse Toby. — Quei furfanti non si sveglieranno prima di ventiquattro ore.

— Ed i miei marinai? — chiese il capitano — Che siano stati uccisi?

— Ne vedo qualcuno steso sulla piazza — disse il pilota. — Essi non hanno potuto resistere alla tentazione di fare una colossale bevuta, ed hanno fatto causa comune coi forzati. Non contate più su di loro.

— Miserabili!

— Sono tutti irlandesi; voi sapete quanto me se quella gente beva, quando si presenta l’occasione.

— Non perdiamo tempo — disse Jao. — Aiutatemi, signori.

L’ascensore fu sbloccato e l’ex governatore scese nella città accompagnato dal pilota.

La sua prima preoccupazione fu di sfondare tutti i barili pieni d’alcool che non erano stati ancora vuotati, e così por fine a quell’orgia pericolosa; poi s’impadronì d’una cassa di pesce secco e di un caratello d’acqua dolce.

Nessun forzato si era svegliato. Quei trecento e più furfanti non si erano mossi e russavano con un fragore tale da far tremare perfino i vetri della cupola.

L’ascensore risalì e fu subito bloccato perchè non potessero servirsene quelli che stavano sotto.

— Ora — disse Jao — possiamo aspettare l’incontro di una nave. Per quindici giorni almeno non correremo il pericolo di morire di fame e di sete.

— Ed i vostri sudditi ne avranno abbastanza per resistere tanto? — chiese Brandok.

— Che crepino tutti! Sono dei miserabili che non destano alcuna compassione — rispose Jao con rabbia. — Io non mi occuperò più di loro.

— Eppure io temo invece che noi saremo costretti ad occuparcene e molto — disse Brandok.

— Quando si risveglieranno e sentiranno la loro città ballare vorranno salire anche loro e ci daranno non pochi fastidi.

— Ed io condivido il vostro pensiero, signore — disse il capitano. — Avremo la tempesta sopra le nostre teste e quei pazzi sotto di noi. La nostra passeggiata attraverso l’Atlantico, prevedo che non sarà troppo divertente. Chissà! Aspettiamo che il sole si mostri per poter meglio giudicare la violenza e la durata di questo ciclone.

Emergendo assai la città galleggiante dopo il suo distacco dalla roccia, e non essendovi alcun pericolo che le onde giungessero fino al culmine della cupola, i sei uomini si sdraiarono presso l’orifizio del pozzo, per concedersi, se era possibile, qualche ora di sonno.

L’enorme massa metallica subiva però dei soprassalti così terribili e così bruschi da rendere impossibile una buona dormita.

Le onde che si succedevano alle onde con furia sempre maggiore, la scrollavano terribilmente e la facevano talvolta girare su se stessa, essendo sprovvista di timoni.

Di quando in quando sprofondava pesantemente negli avvallamenti, come se dovesse scomparire per sempre nei baratri dell’Atlantico; poi si risollevava bruscamente con mille strani fragori che impressionavano specialmente Brandok, i cui nervi, già da qualche tempo, sembravano fortemente scossi.

Talvolta s’alzava sulle creste dei cavalloni con un dondolio spaventoso, quindi scendeva, scendeva, con rapidità vertiginosa, roteando come una trottola.

E l’uragano intanto, invece di calmarsi, aumentava sempre.

Lampi accecanti si succedevano senza tregua con un crescendo terrorizzante, seguiti da tuoni formidabili che si ripercuotevano sinistramente perfino dentro la città, facendo vibrare le pareti di metallo, senza riuscire a svegliare gli ubriachi.

Tutta la notte, l’enorme massa oscillò e girò, percossa incessantemente dai cavalloni, i quali la spingevano verso il Mar dei Sargassi piuttosto che verso le Azzorre, come dapprima aveva creduto il capitano.

Finalmente, verso le quattro del mattino, un barlume di luce apparve fra uno squarcio delle tempestose nubi.

L’Atlantico offriva uno spettacolo impressionante. Masse d’acqua, coperte di spuma, si accavallavano rabbiosamente, urtandosi e spingendosi.

Nessuna nave, nè aerea, nè marittima, appariva. Solamente dei grossi albatros volteggiavano fra la spuma e la caligine, grugnendo come porci.

— Nessuna speranza di venire salvati, è vero, capitano? — chiese Brandok.

— Per ora, no — rispose il comandante del Centauro.

— Dove ci spinge il vento?

— Verso sud-ovest.

— Lontano dalle rotte tenute dalle navi?

— Purtroppo, signore.

— Dove andremo a finire dunque?

— Sarebbe impossibile dirlo, poichè il vento potrebbe anche cambiare da un momento all’altro.

In quell’istante delle grida spaventevoli scoppiarono nell’interno della città galleggiante.

I tre americani, il capitano, il pilota e Jao si affrettarono a raggiungere la bocca del pozzo.

I forzati si erano svegliati e, presi chissà da quale furioso delirio, si azzuffavano ferocemente fra di loro armati degli attrezzi da pesca e di coltelli.

I miserabili cadevano a dozzine, immersi in veri laghi di sangue, coi crani spaccati da colpi di rampone o coi petti squarciati da colpi di coltello.

— Disgraziati, che cosa fate? — gridò Jao inorridito.

La sua voce si perdette fra i clamori spaventevoli dei combattenti.

Il capitano sparò alcuni colpi della sua rivoltella elettrica, sperando che quelle detonazioni, troppo deboli, però, attirassero l’attenzione di quei furfanti.

Nessuno vi aveva fatto caso: forse nemmeno un colpo di cannone sarebbe stato sufficiente ad impressionarli.

— Lasciate che si scannino — disse Brandok. — Tanti pessimi soggetti di meno.

— D’altronde, noi nulla potremmo fare per calmarli — disse il capitano del Centauro. — Se scendessimo, ci farebbero a pezzi.

— Io vorrei sapere per quale ragione si scannano a quel modo — disse Holker.

— Sono ancora ubriachi, non lo vedete? — disse il capitano. — Vomitano sangue e alcool insieme.

— Finitela! — gridava intanto, con quanta voce aveva in gola Jao! — Basta, miserabili! Basta!

Era fiato sprecato.

La strage orrenda continuava con maggior rabbia fra i due partiti, formatisi chissà per quale motivo.

Combattevano sulla piazza, nelle viuzze, perfino dentro le case, fra urla e bestemmie. Di quando in quando dei gruppi si staccavano e correvano a rinforzarsi ai pochi barili che il pilota e Jao non avevano veduto e sfondato; poi, vieppiù eccitati, si scagliavano con furore nella mischia.

Quella battaglia spaventosa durò più di una mezz’ora, con grande strage da una parte e dall’altra; poi i superstiti un centinaio appena, esausti, si separarono, rifugiandosi chi nelle baracche semisfondate, chi negli angoli più oscuri della città, lasciandosi cadere al suolo come corpi morti.

— È finita — disse Brandok. — Che ricomincino e tramutino la città galleggiante in una città di morti?

— Ecco un nuovo pericolo per noi — disse il capitano del Centauro. — Chi getterà in mare quei tre o quattrocento morti? Col calore che regna qui si corromperanno presto e scoppierà fra i superstiti qualche malattia che finirà per distruggerli.

— E che forse non risparmierà nemmeno noi, — disse Toby — se non troveremo qualche mezzo per lasciare questa città di morti.

— Per ora rassegnatevi, signori — disse il capitano. — Non vedo alcuna terra sorgere all’orizzonte.

— Il Centauro deve essere stato costruito quando brillava una cattiva stella, mio caro capitano — disse Brandok.

— Così pare. Non è stato che un continuo succedersi di disgrazie. Chissà, aspettiamo la fine di questo poco allegro viaggio. La città per ora non minaccia di affondare, quindi abbiamo diritto di sperare.

Sembrava però che le speranze dovessero diventare ben magre, poichè l’uragano continuava sempre ad infuriare, sconvolgendo l’Atlantico per un tratto certamente immenso.

Nondimeno la città galleggiava sempre benissimo, ora sollevandosi ed ora sprofondandosi fino a metà della cupola.

Talvolta i cavalloni giungevano quasi fino presso i sei uomini, i quali si tenevano bene aggrappati all’orlo del pozzo, per paura di venire portati via.

La spuma talvolta li avvolgeva così fittamente che non potevano distinguersi l’uno dall’altro, quantunque si trovassero molto vicini.

Il sole era sorto da qualche ora, però i suoi raggi non riuscivano ad attraversare l’enorme massa di vapori, sicchè sull’oceano regnava una semioscurità spaventosa.

A mezzodì i naufraghi mangiarono alla meglio qualche boccone; poi, dopo essersi assicurati con delle reti alle traverse dei vetri, cercarono di dormire qualche ora sotto la guardia del pilota del Centauro.

Tutta la notte non avevano chiuso un solo istante gli occhi, e specialmente Brandok e Toby si sentivano estremamente stanchi ed in preda a dei tremiti convulsi, che li impressionavano non poco.

Verso sera uno splendido raggio di sole ruppe finalmente le nubi, illuminando di traverso le onde, essendo l’astro prossimo al tramonto.

Il capitano, avvertito dal pilota, si era affrettato ad alzarsi per cercare di conoscere, almeno approssimativamente, dove l’uragano aveva spinto la città galleggiante. Rimase subito colpito dalla presenza di enormi masse di alghe che fluttuavano in mezzo alle onde.

— Lo temevo — disse aggrottando la fronte.

— Che cosa avete? — chiese Brandok con apprensione.

— Miei cari signori, noi corriamo il pericolo di venir fermati per sempre nella nostra corsa ed imprigionati.

— Da chi? — chiesero ad una voce i tre americani.

— Dai sargassi. Se questo enorme cassone si caccia fra quegli ammassi di alghe, non ne uscirà più, ve lo assicuro io, a meno che un’altra tempesta non scoppi soffiando in senso inverso.

— Ma voi capitano, avete la iettatura — disse Brandok.

— Si direbbe davvero, purchè invece non l’abbia Jao o la sua città.

— Ci spinge proprio sui sargassi il vento? — disse Toby.

— E le onde anzi lo aiutano — rispose il capitano, che diventava sempre più inquieto.

— Tempesta, alghe, morti e persone pericolose sotto i piedi — mormorò Brandok. — Non valeva proprio la pena di ritornare in vita dopo cent’anni per provare simili avventure.

— Ed i vostri amministrati che cosa fanno Jao? — chiese il capitano.

— Russano in mezzo ai morti.

— Ancora! Meglio per noi. Se non si svegliassero più sarei ben contento, poichè sono certo che ci daranno non pochi fastidi quando finalmente apriranno gli occhi e non troveranno più alcool per continuare la loro indecente orgia. Attenzione! L’urto sarà abbastanza forte per scaraventarvi in acqua se non vi terrete ben saldi.

L’Atlantico, che si trovava fermato nella sua corsa furibonda, sferzato poderosamente dal vento che lo incalzava senza tregua, raddoppiava la sua rabbia, cercando di sfondare, ma invano, quelle interminabili masse di alghe, saldamente intrecciate le une colle altre per mezzo d’un numero infinito di radici.

Le ondate, non trovando sfogo, si ritorcevano su loro stesse, provocando dei contrassalti d’una violenza indescrivibile.

Immense cortine di spuma vagavano al di sopra dei sargassi abbattendosi di quando in quando e lacerandosi sotto i vigorosi soffi delle raffiche.

La città galleggiante rollava in modo inquietante, tuffando i suoi fianchi nelle onde.

Tutte le sue balaustrate erano state strappate, però le traverse d’acciaio delle invetriate resistevano sempre. Guai se avessero ceduto sotto il peso immane dei cavalloni. Nessuno dei forzati sarebbe di certo sfuggito all’invasione delle acque.

Gli ultimi bagliori del crepuscolo stavano per scomparire, quando la città galleggiante che continuava la sua corsa verso il sud-ovest si trovò in mezzo alle prime alghe.

— Ci siamo! — gridò il capitano, dominando per un istante, colla sua voce tonante, i mille fragori della tempesta. — Tenetevi saldi!

Una montagna liquida sollevò la città, la tenne un momento come sospesa in aria, poi la scaraventò innanzi con forza inaudita.

Si udì un rombo sonoro, prodotto dalle pareti d’acciaio, poi l’enorme massa rimase immobile, mentre le onde attraversavano velocemente la cupola lasciando cadere entro il pozzo dei torrenti d’acqua, i quali precipitarono sulle teste degli ubriachi come una gran doccia salutare.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.