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Traduzione dal latino di Ettore Verga (1921)
Nota bibliografica | ► |
FRA BONVESINO
I.
Sulla vita dell’umile fraticello milanese ben poche notizie son giunte a noi; ma non v’è ragion di dolersene: egli è tutto ne’ suoi scritti: quando avremo letto un saggio delle sue candide poesie e l’affettuoso elogio della sua città, lo avremo pienamente conosciuto e ce lo sentiremo vicino come un amico di cui ci sian noti e cari i più riposti sentimenti.
Fino allo scorcio del passato secolo le uniche fonti per la sua biografia erano alcuni vaghi accenni nelle cronache milanesi di Galvano Fiamma, un epitaffio sulla sua tomba nella chiesa di S. Francesco in Milano, tramadatoci da scrittori del secolo XVII che lo avevano potuto leggere prima della sua dispersione avvenuta probabilmente nel 1698 quando la vecchia chiesa rovinò, e due cronache dei frati Umiliati del secolo XV riferite dal Tiraboschi.
Il Fiamma, pur avendone saccheggiato l’operetta sulle grandezze di Milano, non seppe o non volle dir altro di lui se non che era frater tertii Ordinis, senza neppur aggiungere di qual Ordine monastico sia stato terziario. L’epitaffio suona così:
Johannes de Ripa P. — hic jacet — F. Bonvicinus de Ripa — de Ordine tertio Humiliatorum — doctor in gramatica — qui construxit hospitale de Legniano — qui composuit multa vulgaria — qui primus fecit pulsare campanas ad Ave Maria — Mediolani et in Comitatu — dicatur Ave Maria pro anima eius.
Secondo questa iscrizione, posta sul sepolcro da quel Giovanni Riva, Bonvesino, dottore in grammatica, avrebbe appartenuto all’Ordine degli umiliati, avrebbe fondato l’ospedale di S. Erasmo in Legnano, avrebbe pel primo introdotto nella città e nel contado di Milano il segnale dell’ave Maria dato dalle campane. Le due cronache, in un rapido accenno, concordano coll’epitaffio chiamando Bonvesino frate del terz’Ordine degli Umiliati.
Ma nel 1886 vennero in luce due suoi testamenti i quali apportarono qualche notizia nuova e precisa, offrirono argomenti per rettificare quelle tramandate dalle fonti anteriori, e delinearono in certo modo la figura morale di lui: l’uno del 18 ottobre 1304, l’altro del 5 gennaio 1313. Poichè in quest’ultimo Bonvesino, figlio di Pietro della Riva, si dice senex et aeger, vecchio ed ammalato, possiam supporre abbia allora avuto settant’anni, poco più poco meno, e, per conseguenza, sia nato intorno al 1240. Si rileva inoltre che egli era maestro (magister si chiama non doctor) di grammatica, che era frate terziario, di qual Ordine pur troppo non è detto, il che non gli impedì d’ammogliarsi due volte, dapprima con madonna Benghedisia, morta prima del 1304, poi con madonna Floramonte, morta sicuramente prima del 1313; si rileva che doveva godere d’una certa agiatezza possedendo una casa in porta Ticinese nella parrocchia di S. Sisto, e tre fuori di porta Tosa nel luogo detto la Brera del Gallo; case per altro modeste come eran quasi tutte a quel tempo in Milano, dacchè una di queste ultime era affittata per quaranta soldi di terzoli all’anno1. Negli ultimi anni dovette ritirarsi dall’insegnamento; infatti non son più menzionati nel secondo testamento la cattedra e i banchi ricordati nel primo, nè i libri di sua proprietà che nel primo ordinava si vendessero a profitto del convento dei frati minori (francescani) nè quelli lasciatigli in pegno da scolari in arretrato coi pagamenti, che destinava all’ospedale della Colombetta insieme coi danari da quelli dovutigli.
Un istrumento del 1290, pubblicato insieme ai testamenti, dimostra come il nostro Bonvesino godesse fama d’uomo devoto e generoso. I frati della Colombetta, non avendo denari per comperare un certo molino, ricorsero a lui tamquam ad hominem devotum et spetialle amicum illius domus ed ebbero quanto loro occorreva. Le sue disposizioni testamentarie confermano questa fama. Egli lasciava eredi universali de’ suoi redditi i poverelli vergognosi (pauperes verecundi), erogatari i frati della Colombetta ai quali assegnava la proprietà dei suoi beni stabili. Destinava un legato di quindici lire di terzoli al convenlo de’ frati minori di S. Francesco, ed altri legali di venti soldi fino a sette lire ai conventi dei Predicatori, degli Eremitani, di S. Maria del monte Carmelo, di S. Maria mater Domini, del terz’Ordine degli Umiliati in porta Comasina, dei frati della Penitenza, alle monache di S. Apollinare, all’ospedal nuovo dei frati di S. Maria, e al cappellano di S. Sisto in porta Ticinese, nonchè venti soldi all’anno agli Ordinari del duomo affinchè facessero dire una messa in pro dell’anima sua sull’altare della Vergine.
Prescriveva infine che il suo corpo fosse sepolto nel monumento da lui stesso fatto erigere nella casa dei franti minori ai quali assegnava quindici lire per le spese de’ suoi funerali.
Nel primo testamento Bonvesino ricorda un fitto pagatogli dai frati dell’ospedale di S. S. Erasmo in Legnano, parte in denaro, cinque lire di terzoli, parte in natura, due staia di noci, tre carri di vino e qualche altra cosa, e lo assegna alla consorte Floramonte finchè viva, riservando solo un carro di vino ai frati a compenso d’una messa settimanale da dirsi per l’anima della sua prima consorte Benghedisia; nel secondo questo fitto appare consolidato in cento soldi di terzoli e lo si lascia a quei frati perchè dicano una messa settimanale a suffragio dell’anima del testatore, colla riserva che, non osservandosi quest’obbligo, il fitto passi alla Colombetta.
Qui taluno domanderà: come mai, avendo fondato quell’ospedale di Legnano, Bonvesino lo esclude dai suoi lasciti e neppur gli condona senza condizioni il fitto di cui era creditore? Già il Tiraboschi aveva espresso il dubbio che quell’ospedale potesse essere stato fondato da lui, avendone trovato menzione in documenti anteriori; ora i due testamenti autorizzano ad escluderlo in modo assoluto. Il buon fraticello lo avrà sussidiato, come sussidiò nel 1290 quello della Colombetta, o, se si vuole interpretare alla lettera la parola construxit dell’epitaffio, gli avrà fatto erigere a sue spese una sede più comoda e decorosa.
Un’altra domanda si affaccia spontanea: se Bonvesino apparteneva al terzo Ordine degli Umiliati, come sulla fede dell’epitaffio sono andati ripetendo quanti han parlato di lui, perchè s’è fatto costrurre il sepolcro nella chiesa dei Francescani, mentre a Milano, la città classica degli Umiliati, eran di quest’Ordine cospicui conventi? La monca espressione «tertii Ordinis» di Galvano Fiamma, che ricorre tal quale nel testamento, non potrebbe riferirsi come espressione antonomastica al terz’Ordine di S. Francesco che era in auge a quei tempi mentre quello degli Umiliati andava declinando? E meritano fede assoluta le due cronache riferite dal Tiraboschi dove esplicitamente lo si dice degli Umiliati, cronache posteriori a Bonvesino di quasi due secoli, quando ad esse si possono contrapporne due altre, sia pur di minore autorità, conservate nelle biblioteche Trivulziana e Ambrosiana di Milano, dove è detto del terz’ordine fratrum minorum? Non si può dare una risposta decisiva escludendo senz’altro che agli Umiliati appartenesse, ma si può ragionevolmente supporne che, pur essendo stato terziario di quell’Ordine, abbia poi trovato più confacente al suo spirito veramente francescano la regola dei frati minori che non quella degli Umiliati dediti da gran tempo all’industria e al commercio della lana dove andavano accumulando ricchezze, e si sia fatto terziario di S. Francesco.
Avveniva in questi tempi un singolare risveglio della coscienza nazionale. Affascinato dall’ardente parola del fraticello d’Assisi, il laicato si andava in Italia infervorando alle opere di misericordia subentrando al troppo tepido clero sia secolare che regolare, coi suoi consorzi, le sue confraternite, le sue associazioni soggette solo nelle forme esteriori alle discipline ecclesiastiche, nel resto con piena libertà di iniziativa e di movimento; così era sbocciato il terz’Ordine francescano detto dei frati della Penitenza, così un terz’Ordine era venuto a rinsanguare la vecchia industriosa compagine degli Umiliati; niuna meraviglia che Bonvesino, così acceso di carità e di fede, si accostasse a più d’uno di questi collegi di laici devoti: e infatti s’ha notizia d’una terza associazione alla quale era inscritto, la confraternita dell’ospedale di S. Croce di Gerusalemme fuori di porta Romana, che solennemente lo accoglieva nel suo seno il 9 settembre del 1296.
L’autorità dell’epitaffio è ormai molto scemata e si può concludere non esser esso contemporaneo bensì collocato molto tempo dopo la morte di Bonvesino da un lontano parente, quel Giovanni dalla Riva, molto lontano dacchè non se ne parla nei testamenti; collocato quando dell’essere di lui non si aveva più notizia sicura ed esatta. E’ infatti in tutto vago e impreciso; non ricorda l’anno della nascita e della morte, dice che Bonvesino scrisse «multa vulgaria» mentre ha ccritto anche opere latine. L’unica cosa di cui non poteva perdersi o confondersi la memoria era l’uso di suonar l’Ave Maria, al quale doveva esser legato il suo nome; e questa notizia possiamo tener per sicura.
II.
Avviciniamoci ora all’arte ed alla scienza di Bonvesino dalla Riva.
I poeti francesi e provenzali, che in gran numero percorsero l’Italia nei secoli XII e XIV, ebbero, a seconda dei luoghi, vicende diverse: attratti dallo splendore e dalla protezione della Corte di Sicilia, si fermaron colà fondandovi una scuola nel cui seno sbocciò una poesia indigena foggiata sui loro schemi, ma non priva di vita propria e adatta alla lingua paesana che allora cominciava ad assurgere alla dignità di lingua letteraria.Questa poesia prevalentemente cavalleresca, signorile, cortigiana, irradiò ben presto dalla Sicilia e da Napoli nella già colta Toscana e nell’Emilia. Nell’Italia settentrionale, al di qua del Po, questi poeti non trovarono una reggia potente ove raggrupparsi e ridurre a disciplina le loro creazioni, e andaron vagando di città in città, di castello in castello cantando i provenzali versi d’amore e di sdegno, i francesi le imprese gloriose degli eroi carolingi, e trovaron seguaci e imitatori che, pur essendo quelle due lingue intese dal popolo, le modificaron talora, per esser meglio compresi, col patrio, ancora povero e rozzo vernacolo. Si tentò anche di rivestire per intero degli idiomi paesani quei motivi poetici d’oltr’alpe, ma siffatto tentativo, che ebbe un esito trionfale negli idiomi più evoluti, più ricchi e più venusti della Sicilia e della Toscana, qui non riuscì: i dialetti non rispondevano e si ritornava per forza alle lingue straniere.
Ma altri ostacoli impedivano alla poesia franco-provenzale di fruttificar fra noi: essa era avversata dai dotti, tenaci nella difesa del latino, e dalla chiesa paurosa del sensualismo ond’erano improntate le eleganti canzoni d’amore e delle fantasiose leggende cavalleresche così lontane dalla contemplazione delle cose spirituali. L’avversione della chiesa trovò alleati nel sentimento religioso, diffuso e profondo in tutte le classi, e nel conflitto, allora mollo acido, fra Roma e gli Svevi: poichè la maggior parte di que’ poeti, vivendo intorno alla Corte Siciliana, eran naturalmente portati a sostener la causa ghibellina, lo spirito guelfo prevalente in Lombardia era ostile all’arte loro e procurava di farla scadere nella estimazione popolare.
Così avvenne che i girovaganti trovatori nella lingua d’oc ed in quella d’oil non fossero tra i migliori che trovavano altrove più degne accoglienze e degenerassero in modi e in atteggiamenti più da buffoni che da poeti: buffoni infatti il popolo li chiamava, di che un dei più autorevoli, Girard de Ricquier, lagnavasi nel 1275 dicendo:
Hom les apel bufos |
Frattanto col progressivo migliorare della condizione delle plebi, i dialetti indigeni s’erano a poco a poco disimpacciati dagli involucri del latino, si erano lentamente affinati e predisposti a soppiantare la letteratura d’oltr’alpe cercando di eliminare le differenze che distinguevano l’un dall’altro per convenire in un tipo in certo modo uniforme come uniformi erano i sentimenti predominanti nell’anima del popolo dal Piemonte a Venezia, dalla Liguria a Milano. Si formò così una lingua letteraria diversa dai dialetti parlati nei singoli territori, con caratteri comuni quantunque in certe parti tenesse or dell’uno or dell’altro secondo la patria dello scrittore.
Trovata la lingua sgorgò dal cuore del popolo una larga vena di poesia nuova, differente non solo da quella cortigiana e cavalleresca, ma anche da quella popolare che anche in Sicilia e in Toscana si faceva strada sempre inspirandosi all’amore e ai piaceri: una poesia prevalentemente religiosa e morale. E i poeti furon parecchi: un anonimo genovese volgeva nel novello idioma le vite dei santi, fra Giacomino da Verona faceva una di quelle descrizioni del paradiso e dell’inferno che tanto piacquero al medio evo, non priva di qualche bellezza, specialmente per l’avvicendarsi di scene ora spaventose ora grottesche come quella, per esempio, dove son descritti i diavoli occupati a martoriare i dannati:
Li cria li diavoli tutti a somma festa:
«Astica, astica fogo! dolenti ki n’aspeta».
Mo ben dové saver en que modo se deleta
li mise peccaor c’atendo cotal festa.
L’un diavolo cria, l’altro ge respondo,
l’altro bato ferro e l’altro cola bronco,
E altri astica fogo et altri corro entorno
Per dar al pecaor rea noite e reo corno.
Un anonimo bergamasco versificava la salve regina e il decalogo:
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Gerardo Patecchio a Cremona, Uguccione a Lodi, Cola di Perosa a Bergamo, Arpino Broda a Pavia seguivan tali esempi. A Milano, Pietro da Bescapè nel 1274 componeva un poema di lunga lena in versi ora alessandrini, ora ottonari, storia rimata del nuovo e del vecchio Testamento:
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E, dopo aver invocato Iddio e lo Spirito Santo, s’avvia a raccontare:
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Infatti, sulle traccie della Bibbia, ei tesse la palingenesi dell’umanità; narra la creazione dell’universo e dell’uomo, il peccato originale e le sue conseguenze culminanti nella lotta dell’anima colle passioni, passa in ordinata rassegna i sette vizi capitali: svolge quindi la storia del riscatto divino con un succedersi di scene che vanno dall’Annunciazione alla fuga in Egitto e al ritorno in Nazaret dopo la strage degli innocenti; quindi la vita e la passione di Cristo intercalata di aneddoti e di episodi d’un ingenuità sorprendente, la risurrezione, l’ascensione e le successive apparizioni agli apostoli: infine traccia un commovente quadro del Giudizio universale.
⁂
Di tutti questi rimatori di gran lunga il maggiore è Bonvesino. La sua produzione poetica, di circa ottomilacinquecento versi, chè tanti ne son giunti a noi, quantunque suffusa di un denso spirito di religione e di carità, non si ispira solo all’ideale religioso o al fine di raccogliere i lettori o gli ascoltatori nella contemplazione divina, ma persegue anche intenti morali ed educativi: in lui non parla solo l’asceta, ma l’uomo pratico, l’osservatore attento che vive nel mondo e dal contrasto dei vizi e delle virtù ricava e, con commovente ingenuità, esprime un alto ideale etico.
È per di più, a differenza degli altri, un uomo colto, conoscitore di quelle forme di poesia che avevano avuto in passato molta efficacia sul popolo, sicchè l’uso di quelle forme adattate a un contenuto nuovo, originale, dànno all’opera sua una varietà di temi, d’immagini, d’atteggiamenti che manca agli altri. La coltura e la sensibilità artistica si fondono in quest’umile maestro di grammatica sì da farne il più cospicuo rappresentante della primitiva letteratura volgare nell’Italia del nord.
Le sue composizioni poetiche così insolitamente varie si possono dividere in due gruppi: le dialogiche, sul modello di quei contrasti che per tutto il medio evo furon cari al popolo, dove due o più personaggi erano introdotti a disputare, e i volgari, poemetti dall’andatura più calma ed uniforme, di indole narrativa o didattica. Ma anche entro queste divisioni la materia si atteggia in differenti modi.
Nel contrasto, o tenzone, che nei poeti provenzali si ispira sempre a soggetti amorosi, Bonvesino chiama a disputare le più svariate cose: l’uomo, la divinità, il demonio, gli animali, le piante e perfino i mesi dell’anno; fatti per esser recitati nei trivii, questi poemetti hanno in sè tutti gli elementi per interessare e commuovere le credule plebi or raccogliendole in cupo terrore, or muovendole al riso.
Il più originale e drammatico è quello tra il diavolo e la Vergine. Il diavolo si lamenta perchè la Vergine lo perseguiti strappandogli la preda dei peccatori:
Lo meo guadanio per forza me tolle a mal meo grao.
Quand’eo me crego un misero haver aguadenao,
Maria me tolle la predha; quella nom lassa in stao;
da quella femena sola eo no posso esse aiao:
oi guai a mi dolente, com sont vituperao.
La Madonna ribatte che ella non fa ingiustizia ma opera di misericordia,perchè il peccatore, quantunque traviato, è sempre figlio di Dio:
Adoneca s’eo te tolio l’hom k’è partio da deo
no tolio, segondo justisia, se no pur quel k’è meo...
donca no te fazo eo torto, tu Satanax traitor,
s’eo tro a penitentia quel miser peccaor...
Satanasso fa il loico svolgendo, per altro, una logica sì calda e appassionata da lasciar trasparire come un vago rammarico d’esser dannato, una vaga aspirazione allo stato di beatitudine che il suo peccato gli ha fatto perdere: anch’io, esclama, son creatura di Dio e tu dovresti rispettarmi, per un peccato fui maledetto in eterno mentre l’uomo, peccasse mille volte, trova sempre il perdono:
anc’eo sont creatura del creator verax,
tuto zò k’eo scapuzasse, tuta zò k’eo sia malvax,
tu nom devrissi far guerra, ni far zò kem desplax.
Per un solengo peccao sont al postuto perdudho,
ni posso fi recovrao, mi mixer confondudho,
ma lo peccaor del mondo, ke tanto sia malastrudho,
tu ge dè speranza e aidha, anc sia el desperao,
e sì me tò per forza se ben eo l’ho acquistao...
lo peccaor del mondo plu t’ha offeso ka mi,
per lu fo morto to fijo, ma no miga per mi...
«Va via punax, va via serpente antigo» risponde la Vergine, il tuo peccato fu sì iniquo che non può trovar remissione: tu non fosti spinto da alcuno, ma per superbia offendesti Dio, e per sopraggiunta hai sempre continuato ad offenderlo; il peccatore invece è soggetto a mille tentazioni, e innanzi tutto alla tua, è esposto a mille pericoli ed e giusto che il pentimento lo redima: tu
sempre he menao orgojo e guerra e tradizon
ke vada de mal in pezo la toa dampnation.
E qui sentite un po’ a quali argomenti ricorre il loico: se io non avessi fatto mangiar il pomo ad Adamo non esisterebbero i tanto da te prediletti peccatori, nè Cristo sarebbe stato da te concepito perchè venisse al mondo a salvarli. Poi, vedendo che non riesce a spuntarla, se la piglia con Dio, il vero colpevole perchè non lo ha creato buono:
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Ma Dio, ribatte la Vergine, ti ha fatto bello e buono al par degli altri angeli e ti ha dato l’arbitrio sì che tu potessi scegliere, com’essi han fatto, tra il bene e il male, e tu solo hai peccato: come potrebbe esistere la gloria eterna se uno, avendo la possibilità di far il bene, non avesse anche quella di far il male?
E l’altro: sta bene, mi ha dato l’arbitrio, ma egli sapeva che avrei peccato e non doveva crearmi.
Con questa convinzione impreca e giura che farà sempre peggio. E Bonvesino conclude: non avendo potuto convincer la Vergine, «lo Satanax»
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Ma l’homo k’è pro e savio sempre guarnio starà |
Come si vede il Satana di Bonvesino è ben diverso da quello in cui la fantasia popolare del medio evo aveva trasformato il superbo angiolo rivale di Dio della poesia semitica, facendone come il servitore dei maghi e delle streghe, un personaggio per lo più grottesco e stupidamente goffo, o, se pur talora terribile, d’una terribilità volgente al ridicolo: Bonvesino, elevandosi al di sopra delle puerili concezioni de’ suoi contemporanei, ne ha fatto un serio ragionatore, un logico inflessibile, gli ha dato un senso di umanità che lo rende capace di commuoversi e di deplorare la sua perdizione: l’umile rimatore sapeva talora assurgere all’altezza di un vero poeta.
Alcuni degli argomenti sottili portati da Satana in questo contrasto ricompaiono in quello del peccatore e della Vergine. Al peccatore pentito che le si rivolge invocando picca dice Maria:
com te debl’eo receve, ti miser mal pario? |
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La Vergine perdona; e il poeta continua svolgendo per proprio conto gli argomenti del peccatore pentito e le ragioni che inducon la Madonna ad arrendersi a chiunque disperato sinceramente la invochi; e racconta la novelletta d’un contadino il quale, desolato per l’ingratitudine del figliuolo, invoca Satana perchè lo aiuti a darsi la morte: Satana viene e lo impicca; ma, quando sente stringersi il collo, il misero pronuncia il norme di Maria: Satana fugge, la corda si spezza ed egli è salvo.
Fresco, originale, ed anche denso di pensiero, è il contrasto dell’anima col corpo. Il Creatore esorta l’anima ad essergli fedele; — ma come lo poss’io, quella risponde, se il corpo mi fa continua guerra?
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E il Signore: frenalo questo corpo e dirigilo; questa lotta ci vuole per guadagnare la ricompensa eterna:
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L’anima confortata si rivolge al corpo:
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Ma io, protesta il corpo, son creato di lotta «e in terra vojo mete cura»: la natura lui ha dato le orecchie per udir belle canZoni,
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Finalmente, stretto dalle argomentazioni e dagli inviti ora affettuosi, or minacciosi dell’anima raduna a consiglio le membra e a ciascuno raccomanda di far giudizio:
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Senonchè le membra dan la colpa dei loro trascorsi al cuore che le governa, il cuore la dà agli occhi, i quali scattano seguiti da tutti i compagni che s’accordan nel dargli addosso:
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Come appendice a questo contrasto la visita dell’anima del peccatore e di quella del giusto ai rispettivi corpi sepolti: la prima impreca contro il "companion malvax" che l’ha perduta e data al demonio, e il corpo le risponde accusandola a sua volta di non essere stata abbastanza energica per ritrarlo dal peccato, l’altra loda, benedice e ringrazia il proprio corpo che ricambia i complimenti.
Meno filosofico ma pieno di leggiadria è il contrasto fra la rosa e la viola. La rosa superba, usurpando la priorità nel prender la parola che spetterebbe alla violetta, prima a fiorire, decanta la sua beltà, il suo profumo, la sua maggior grandezza per contro la viola:
no sont per quel men bona anc sia eo piceneta
ben po sta grand tesoro in picenina archeta...
«No sai que tu te dighi», zò disc la rosorina,
«no è fior k’ habia honor sor la rosa marina,
in i orti et in li verzerij eo nasco so dra spina,
olta da terra, e guardo inverse la corte divina,
Ma tu si nasci in le rive, tu nasci entr’i fossai»
E l’altra:
... eo sont tutta amorevre,
eo sont comuna a tugi, e larga e caritevre.
S’alcun villan no m guarda et cl me met set pei,
s’el fa zo k’el no dè lo dexnor non è meo...
Eo sto aprovo la terra, humel, no dexdeniosa,
ma tu ste olta in le rame, e bolda et orgojosa...
E così via a botta e risposta fino a che interviene il casto giglio a giudicar la contesa proclamando, non occorre dirlo, vittoriosa la viola. Bonvesino, d’accordo col giglio, ricava dal dibattito la sua morale:
La violeta bella, la violeta pura
alegra e confortosa sen va cola venzudha;
ki vol esse cum viora e tra vita segura
sia comun et humel et habia vita pura.
Quel è si com viora, lo qual no vol mete cura
d'orgojo ni d'avaritia, ni dra carnal sozura ;
ki pregarà l'altissimo e la regina pura
per mi fra Bonvesin habia bona ventura.
Del medesimo tipo è il contrasto fra la mosca e la formica: anche qui nelle opposte argomentazioni sono una varietà, una grazia e anche una significazione morale notevoli. La mosca, dopo avere rimproverato alla formica il suo perenne travaglio e vantato i propri ozi, continua:
co sto su per li dischi per haver mejoramento,
de molte guise condugi eo mangio al meo talento,
Eo vo suver le golte de le donne e de li segnor,
al men deo quand'illi dormano de stac quand'è lo calor,
e sì ghe pegazo le golte e li mordo senza temor ;
da mi nons e po guardar nirrex, ni imperador.
Eo sto in gran sozerno cole done e coli baron,
co sto consego in camera, consego in soa mason.
E quando la formica le ha dimostrato la gran differenza che passa tra il faticare e il non far nulla, "ma tu vivi di furto" esclama, al che la formichetta: Dio m'ha creata per servir d'esempio all'uomo,
Eo sont predicadris, de zascun homo vivente.
E poiché la mosca esalta le sue ali ed ha la sfrontatezza di simboleggiare in esse lo amor di Dio e del prossimo indispensabili all'uomo per montare in cielo, le rinfaccia l'adoperar quelle ali solo per dar fastidio al prossimo, quindi contrapponendo simbolo a simbolo:
eo lavorando fortemente sì do lox al segnor...
... eo amo lo proximo et amo lo creator...
ancora eo lago sta l'ordio, e sì acolio del fromento,
per lo formento s'intende lo novo testamento
là, o se conten la fè del nostro salvamento...
Il contrasto dei mesi, di cui Bonvesino lasciò una doppia redazione, in volgare e in versi latini, è forse il notevole in quanto si riconnette a un genere di componimenti le cui origini risalgono all'antichità e il cui soggetto, prima ancora che nella poesia, ebbe espressione nelle arti figurative in occidente e in oriente: simboli di stagioni e rappresentazioni di mesi trovansi persino nei monumenti egizî. Il medio evo elaborò gli antichi tipi di mesi secondo il suo gusto, specialmenle in Francia, in Inghilterra e in Italia e li disseminò in chiese e in monumenti pubblici, come nella stupenda fontana di Perugia, e nelle miniature dei libri d'ore. Se ne impadronì poi la poesia popolare: il conflictus veris et hiemis del IX secolo, se non pur della della fine dell’VIII, attribuito a Beda, è un vero contrasto fra le due stagioni che ebbe molte derivazioni nei secoli XIII e XIV nelle lingue romanze e anche in inglese e in tedesco. Analogamente alle stagioni si misero in contrasto i mesi in numerosi poemetti destinati anch'essi alla recitazione in mezzo al popolo come le bosinade lombarde, tra i quali questo di Bonvesino è forse il migliore.
I mesi riuniti e in capitulo cioè a dire a consiglio, rinfacciano l'un dopo l'altro al gennaio i suoi vizi e le sue colpe. Dice febbraio:
El fa tremer li poveri...
Gran brega e gran fadiga Zenere m'à sempre dato,
lo zero k'el fa venir me strenze com un gato...
molto ben zenere consente sol godando al bon fogo,
maron e pome e pere el manza con so cogo...
de mi no à-l zà cura benchè sia presso al zogo...
ma io certo penso ke son de lui più degno
e squasso giaza e neve k'el me lasa per pegno...
E marzo:
Sempre el m'à tenuto com servo despresiado,
con le me man podo le vide e multo li so ben tende
da le que in abundantia sì n'exe quel vin k'el spende
e de ziò ni gra, ni gratia el no me-n vol pur rende...
con soa sapa lulio ven tuto polverento,
avosto, mese infermizo, con so lomentamento
a piglià un baston ke go dà sustentamento...
settembre ha la mazza con cui stringe le botti, ottobre la pertica delle castagne, novembre un coltello da beccaio, dicembre la scure d'acciaio con cui spacca la legna. Gennaio li affronta tutti con una mazza in mano e, quando li vede atterriti buttar le armi, si sfoga a ribattere tutte le accuse, ad una ad una, e decanta i propri meriti, tra gli altri quello di combinar matrimoni :
tuto zo ke no lavora intro lavor terren,
o fazo grand ovramento segundo ke me porten,
multi maridozi e fazo però ke apairo ben,
e son mulplicadore de quel ordine generale
ziò è lo matrimonio k'à fagio lo re eternale...
I mesi, un po' persuasi, un po' impauriti, se ne stan muti a testa bassa: finalmente aprile s'avanza e invoca a nome di tutti il perdono dal calunniato signor dell'anno:
Segnor regal, dis quelo, intende-me s'el te piase,
lo nostro prego è questo ke tu ne perdone in pase,
se nu am fagio on digio cosa ke te despiase,
nu vomo sta a mendare e fa tut ziò ke-t piase...
e seguita con paroline amabili si da intenerirlo: il perdono è concesso e Bonvesino, al solito, ricava la sua morale:
l'ystoria de gli misi ki vor udì cuntare
se dà sembianza a l'omo s'el vor grand'ovra fare,
ke saviamente inanze si debia ben pensare
com el de trar a fin ziò k'el vol adovrare.
⁂
I "volgari" sono o religiosi o morali o l'uno e l'altro ad un tempo.
Il poemetto delle lodi alla Vergine non è, come avrebbe fatto un de' poeti minori di questa scuola, una pura versificazione delle litanie, ma è anche intessuto di graziose narrazioni di miracoli. Racconta Bonvesino di un castellano che, circondato da una masnada di bricconi, ne fa d'ogni colore, pur avendo l'abitudine d'invocar ogni giorno il nome di Maria e per questo, senza saperlo, s'era tenuto per quattordici anni il diavolo in casa in funzione di "canaver" o cantiniere, impotente, in causa di quella invocazione, a farsi conoscere e perderlo com'era sua intenzione; racconta d'un pirata che aveva pregato Maria di non farlo morire senza confessione: travolto in un naufragio, quando già tutti i suoi compagni eran morti, il suo corpo fu interamente roso dai pesci, e solo la testa rimase intatta e viva galleggiando fino a che, passata vicino una nave ov'erano alcuni frati minori, questi non la ebbero confessata; racconta con ingenuo garbo la drammatica storia di Maria egiziaca, ed altre novelle fra le quali è veramente ammirabile quella di frate Ave Maria: un cavaliere va in un monastero a far penitenza, ma il monaco datogli per istruirlo non riesce a fargli entrar nella testa che l'Ave Maria : null'altro egli sa dire nella lunga vicenda delle ore di preghiera. Dopo la sua morte ecco germogliare sulla sua tomba una pianta:
sover zascuna folia de quella pianta ornadha
scrigio sera ave Maria con letera sordoradha.
Accorrono i monaci stupiti e, datisi a cercar le radici della pianta, le trovano abbarbicate al cuore del defunto. Quanta poesia in questo particolare!
La novella s'intreccia così al canto lirico e gli dà novità e varietà. Ouantunque eccellente narratore, Bonvesino non ha certo inventato queste storie; in parte eran comprese nelle vite dei santi, in parte s'erano andate formando nel più recente medio evo e correvano per le bocche del popolo; ma i suoi racconti, a giudicare da quelli di cui si conoscon le origini, han sempre una freschezza e una schiettezza che li distinguono da tutte le altre redazioni.
Men varia è la vita di S. Alessio dove l'autore segue passo passo il testo in prosa che noi leggiamo negli atti dei santi pubblicati dai Bollandisti; ma di gran lunga a quesla superiore, per varietà di motivi e forza drammadica, è il racconto della passione di Giobbe: con innegabile senso di arte Bonvesino esprime il graduale precipitar del disgraziato di sventura in sventura sino all'estrema rovina e la sua rassegnazione che di mano in mano si trasformna in una vera voluttà del soffrire.
Pregi ben diversi che nelle pedestri rime del Bescapè ha il poemetto sul giudizio universale preceduto dalla descrizione dei quindici miracoli destinati a prannunziarlo. Bonvesino ha tocchi delicati là dove dipinge lo smarrimento dei peccatori davanti a Dio che sta per giudicare: la loro pena non gli inspira un rude compiacimento, ma un mite senso di pietà e si direbbe talora che egli soffra con loro:oi, que faran li miseri ke così seran comprisi? illi no porran asconderse, no g'ha valer amisi, e trop g'ha esser greve illoga astar parisi ni ne porran fuzir, ni mai firàn defisi;
no g'ha valer amisi, parenti ni companion, ni filij, ni grange richeze, castelle ni dominion
staran stremidhi e grami in grand confusion.
Oi grand confusion a li miseri peccaor stagando in tal vergonza, stagando a tal dexnor!
li dengi g'han bate insema d'angosa e de tremor
illi han querir la morte, ni la porran trovar,
diran a le montanie ke i deblan covergiar...
illi odiran la vox: "partiven maledigi, partiven coli demonij entro l'infernai destrigi "...
oi angoxosa angustia, oi spagurivri digi
dond'ha li descumiao li peccator affligi l...
Quindi, udita la condanna, ecco fra le turbe un tragico insorgere di recriminazioni, onde il poeta sa trarre efficaci contrasti : il padre investirà il figliuolo maledicendo al troppo amor paterno che lo ha indotto in peccato:
...mal habia l'ora ke tu fusi zenerao,
per ti fu usurario, frodoso e renegao,
perk'eo te vosse fa rico venu sont affollao...
per to amor eo ardo entra preson fondadha,
mato è ki per fiol ten l'arma impantanadha...
e il figlio si farà contro al padre:
mal habli tu, reo patre, por ti sont apenando...
quando rezerme devivi, monir e castigar,
azò ke li peccai dovesse abandonar...
lo patre col so fijo dolenti et angoxusi
se roeràn entrambi com have fa can rabiusi,
blastemaran l'un l'oltro com homini maniusi...
Nel « volgare delle elemosine il nostro poeta insegna che s'ha da fare per onorar Dio e salvar l'anima; tre cose specialmente: amare la Vergine, confessarsi spesso, far elemosina; ma il soggetto predoninante è quest'ultimo che si svolge dal verso 105 al 1050. Anche qui, nonostanti quelle ripetizioni talora stucchevoli che ricorrono in tutte le sue composizioni, è varia la vicenda degli argomenti, frequente il succedersi di graziosi apologhi seguiti ciascuno dalla consueta « amoralità ». L'elemosina va fatta con criterio, particolarmente ai religiosi che van per il mondo a predicare, ai poveri frati rhe vivono in contemplazione, ai propri vicini bisognosi:
specialmente plu anche andar a reguerir
quilli k'en infirmi o poveri ke no se pon mantenir...
quest'è lemosina drigia ki vol ben implegar...
Nè s'ha da dar solo il savrabbondante :
multi homini fan a li poveri lemosine reçitae
de quel mangià ke g'avanza, dre peze resmuliae
pur quelle cosse solenghe k'en vile on rezitae
voler donar a Criste per soa brutedhae;
ma saplan ben per certo i avari descognoscenti
ke pur a Jesu Crist si dex li belli presenti;
e quilli ke 'l volen pasce de vili avanzamenti
meten deo per negota, usar de schernimenti...
Benemerita elemosina è quella che si fa a certi ospedali dove i frati curano ammalati infetti, fuggiti dagli stessi lor cari che ne hanno schifo: in quegli asili del dolore
li infirmi vermenusi da li vermeni fin mondai,
quilli k'han pustème on piaghe illò fin medicai,
quellor ke se pegan soto, k'en fortemente amalai,
a modho de fantin piceni sovenzo fin netezai...
Il poeta porta l'esempio di S. Gioachino che dava ai poveri i due terzi delle sue entrate, quello della donna caritatevole risuscitata da S. Pietro per ridonarla ai poveri, quello di S. Bonifacio fanciullo che vuotò il granaio per distribuirne il grano ai poveri, e, quando vide la madre per ciò desolata, pregò il Signore che la consolasse, e d'un tratto il granaio si ritrovò colmo come prima. Narra la leggenda di S. Donato bambino, fatto cuocere nel caldaio dal demonio e risuscitato da due angeli che sedevano in veste di poverelli alla mensa ospitale del padre del bimbo, e quella del re che abbracciava tutti quanti sapeva colpiti da malanni e da miserie e, accortosi che tale abitudine spiaceva al fratel suo, mandò un giorno alla casa di lui il tubatore a suonar clamorosamentle come soleva fare coi condannati a morte; e, quando il fratello ebbe mandato molti suoi amici a intercedere per lui, che, dopo tutto non aveva fatto nulla di male, gli disse : - tu hai mandato i tuoi amici a intercedere perchè li risparmi la vita; io faccio lo stesso: mi procuro molti amici perché intercedano per me presso il Re del cielo: la differenza sta in ciò, che tu ti preoccupi della vita corporale, io della celeste.
⁂
Lo spirito pratico di Bonvesino e la sua esperienza della vita si rivelano nei tre poemetti « della vanità », delle « zinquanta cortesie da tavola », e della vita scolastica, quest'ultimo scritto in versi latini, ed anche nel volgarizzamento dei distici di Catone sui costumi (de morihus), diffusissimi nelle scuole medioevali, che il buon maestro di grammatica aveva tradotto certo per uso de' suoi scolari e de' suoi colleghi.
Il volgare della vanità è un sermone in dispregio delle vanità umane, tema comune alla letteratura medioevale, corredato dai due apologhi esopiani del cane che, rincorrendo la propria ombra, lascia rimboscare la lepre, e dell'altro cane che, specchiandosi alla fontana, si lascia cader la carne di bocca per addentare quella della propria immagine.
Trattati sul modo di contenersi a tavola e in altre contingenze furon frequenti nel medio evo e nell'età moderna; ve n'ha di latini, di francesi, di tedeschi, d'italiani. Questo di Bonvesino ha, come tutte le cose sue, una nota fresca e originale e per di più ci presenta un interessante documento dei costumi del tempo. Infatti alcuni di que' consigli potrebbero valere tali e quali anche oggi, per esempio :
.. no sii trop presto
de corre senza parolla per assetar al desco...
s'alcun t'invidha a noze, anze ke tu sii assetao
per ti no prende quel asio d'ond tu fizi
descaçao...
...sta conzamente al desco,
cortese, adorno, alegro e confortoso e fresco;
no di' sta cuintoroso, no gramo ni travaçao,
ni cole gambe incrosae, ni torto ni apodiao...
ki fa dra mensa podio, quel hom no è cortese,
quanti el gh'apodia le gomedhe, on ghe ten le brace destese...
no trop impir la boca, ni trop mangiar in pressa...
...quand tu strainudhi
on k'el te prende la tosse, guarda com tu te lavori:
in l'oltra parte, te volze...
azò ke dra saliva no zese sor la mensa.
...quand l'homo se sente ben san
no faza, o k'el se sia, de companadegho pan...
...no biama li condugi,
quand tu è a li convivij, ma dì ke illi en bon tugi ;
digando: « quest'è mal cogio, ori quest'è mal salao >> ; ma allorchè dice : ...quand tu dì prende la copa con due man la receve, e ben te furbe la boca; col'una conzamente no se po 'la ben receve; azò k'el vin no se spanda con due man sempre beve... oppure ...no di' mete pan in vin se tego d'un napo medesmo bevesse fra Bonvesin... ...no mastruliar per tuto com have esse carne, on ove, on semejant condugio ; ki volze e ki mastrulia sor lo talier cercando è bruto e fa fastidio al companion mangiando. ...tu no di' lenze le die, quel bom ke se caza in boca le die impastruliae le die non en plu nete, anze en plu brutezae...
ci presenta un caratteristico quadretto degli usi conviviali d'allora, quando uno stesso bicchiere, naturalmente molto grande si che occorreva prenderlo con due mani, e un sol piatto servivano a due o più commensali che al piatto comune attingevano colle mani non essendovi allora forchette, ma solo cucchiai per i cibi liquidi e il coltello con relativa guaina; usi pittorescamente riprodotti anche in miniature del tem po. Il poemetto " de vita scholastica" è anch'esso, in certo modo, un documento di costumi. Bonvesino vuol offrire agli scolari « le cinque chiavi della sapienza » che sono: il timor di Dio, l'onorar il maestro, l'assidua lettura, il frequente domandare e, l'esercizio della memoria. Ecco qualche esempio de' suoi insegnamenti: fuggire i cattivi pensieri, frenare la lingua, essere umile ...ad juga doctrinae qui se vult dedere recte in forman servi flettere colla paret; essere casto, giacchè "doctrinae zelo carneus obstat amor", guardarsi dalla sodomia, frenar la gola, astenersi dal giuoco, dai balli, evitar le male compagnie, onorare i genitori, ascoltar frequentemente la messa, distribuire saviamente durante la giornata le preghiere, onorare il maestro, il che si può fare in diversi modi : tenendo nella scuola e fuori un contegno decoroso, offrendogli qualche volta fiori o frutti, standogli, nell'accompagnarlo per via, un po' indietro, non mai a pari o davanti, studiando con latte le forze per fare anche a lui buon nome, sopportando con pazienza le frustate anche quando non sembrino giuste est doctoris amor verus non parcere virgae, pagandogli puntualmente la mercede per non metterlo nella necessita di espellerlo o di prendersi in pegno i libri dello scolaro moroso (il che Io stesso Bonvesino fu talora costretto a fare come rilevasi dal suo testamento), facendogli frequenti doni. Allo stesso nodo che agli scolari, Bonvesino vuol offrir buoni consigli ai maestri cui spetta dar in tutto il buon esempio: non portino vesti corte, come gli zerbinotti, ma lunghe e larghe quali usan portare i chierici, non siano effeminati nel modo di pettinarsi, non cedano ai trasporti dell'ira nel percuotere con la verga gli scolari disubbidienti, non ricettino nella scuola giovani tinti d'eresia (pullulavano a quel tempo, com'è noto, le sètte religiose), trattino con amorevolezza ed aiutino gli scolari che pagan la mercede e fan loro grati doni, ma non disprezzino i poveri incapaci a pagare, facciano un po' da padri a quelli che son lontani dai loro genitori, sian chiari e ordinati nelle lezioni, non gestiscano nè dimenino la persona quando parlano alla scolaresca, parlino sempre in latino e pretendano che altrettanto facciano gli scolari...
- *
Quella che per molli rispetti può ritenersi la principale opera poetica di Bonvesino è venuta in luce per le stampe solo un vent'anni or sono. E' il "libro delle tre scritture", la scrittura rossa, la scrittura negra e la scrittura dorata, comprendente 596 stanze e 2384 versi; una trilogia di cui la prima parte tratta della nascita e della morte dell'uomo e delle dodici pene dell'inferno, la seconda della Passione di Cristo e la terza della morte del giusto e dei dodici gaudi del paradiso. L'uomo è generato in un intruglio
de sangue che è mesgio de puza e de sozore, in bruta albergaria permane albergatore...;
nasce ignudo e debole, piccino dà fastidio a chi deve curarlo, cresciuto, anche se bello di fuori, di dentro è pien di sozzure: fora per la bella boca se fa scharcalij e spuda per lo naso e per le oregie e per li ogi pur brutura... ;
i più preziosi cibi ch'ei mangia, entrati nello stomaco, diventar marciume; brighe e travagli lo angustiano durante tutta la vita, quindi la morte lo agguanta:
le membre si ge reciliano, le golte have sienele (1) raxe,
desfigurato e sozo lo corpo ge romaxe.
Ma l'uomo é giusto o peccatore : il poeta comincia da quest'ultimo e ne descrive la
(1) Parola che non s'incontra altrove: sarà forse da leggere : fievele = flosce. morte miseranda coi diavoli fianco in attesa di portarselo via. Spirato, eccolo all'inferno a subir le dodici pene, cioè: « la flama scura ke abraxa in quella tana », « la puza grande ke lo peccatore circunda », « lo zelo fregissimo de quella terra inversa », « li vermi veninenti ke ge stano con grande orgoio », « vedere le faze de li miseri ke stano in la cathena e dentro li diavoli apresso », « le grame voxe, lo pianto e lo rumore», gli strazi che i diavoli fanno dei peccatori, la fame e la sete, « la asperitate gravissima de la vesta e del giaxere », la pestilenza e ogni altro genere di malattie, « la grande grameza de zò kel ha perdudo », cioè le gioie del paradiso, la disperazione di non poter mai uscire. Nel quadro mediano del trittico si svolge la Passione di Cristo dall'arresto fino al colpo di lancia vibrato da Longino. L'ultimo quadro è l'antitesi perfetta del primo: il giusto morendo vede intorno sé gli angeli che ne aspettan l'anima e pregusta gli eterni gaudi. Eccolo in pardiso:
quella, Città soprana si è pure de oro lucente; le piaze, delectevole, le miura resplendente, li prati, li verzeri ornati e avenenti, de strabianchissimi lilij e de altri fiori olenti; de prede pretiosissime le mure son lavorade, a zeme splendidissime e molte aprexiade, le camere sono depente de strafino azuro, è facto lavore mirabile a oro lucente e puro... Lassù il giusto gode dodici allegrezze perfettamente rispondenti alle dodici pene infernali: « la grande beltade de la terra de li viventi », « lo odore soave », « la grande richeza e lo honore », il « grande conforto d'essere uscito de la presone mundana », « remirare le faze de li angeli placenti », udire «li canti con dilectevole acordo », essere serviti « de soa man » da Cristo, « i cibi delectabili », « le veste prezioxe », « la grande beltade, la spetie del justo, la pura claritate », l'essere scampato dai grandi tormenti dell'inferno, « la confermanza » ossia la certezza di restar sempre in paradiso.
In un sermone finale Bonvesino ribatte le false scuse addotte da coloro che perseverano nel male. Il poema è così essenzialimente didattico e profondamente morale dacchè mira alla perfezione dell'uomo. Come nel concetto ispiratore, così è organico nella struttura esterna in quanto applica quel principio ternario che era il simbolo della perfezione e la divisione, come osservò il Bartholomaeis, non è solo in senso orizzontale, ma anche in senso verticale: prologo, poema, sermone finale, Ciascuno dei tre poemetti, nero, rosso e dorato, è in tre parti con introduzione propria e una propria chiusa, e di tre parti si compone pure ciascuna delle rubriche trattanti delle pene e dei gaudi, vale a dire di una descrizione, da un confronto "a fortiori" con un tormento o un piacere terreno, e delle parole di dolore o di giubilo del peccatore o del giusto.
Pur non essendo facile definire le fonti di Bonvesino, ben si vede non tutta la materia di questo poema essere sua invenzione: nel descrivere il corso della vita umana egli ha sfruttato il "de contemptu i mundi » e forse ha avuto sott'occhio il « fasciculus » di S. Bonaventura, raccolta di meditazioni sulla miseria dell'uomo, sulla morte, sulla Passione di Cristo, sull'inferno e sul paradiso; ma da queste e da altre scritture congeneri si dilunga nel numero delle pene e dei gaudi, e nella loro contrapposizione che può avere attinto a qualcuna delle numerose descrizioni in voga nel medio evo. Comunque il merito del nostro poeta è nell'averle integrate intramezzandole colla Passione di Gesù e d'aver fuso il tutto in un'armonica unità. Bonvesino ci ha dato la prima trilogia veramente organica che abbia la letteratura italiana avanti la Divina Commedia. L'avere per la prima volta intercalato la descrizione delle pene dell'inferno e dei gaudi del paradiso con un'altra occupante materialmente il posto del purgatorio dantesco, basterebbe già a dargli il diritto d'essere annoverato fra i precursori di Dante; ma probabilmente non è solo questa rispondenza materiale che fa pensare al divino Poeta: l'avere introdotto nel trittico la Passione di Cristo può non essere uno spediente adottato tanto per fare una trilogia; Bonvesino può aver anch'egli pensato a descrivere il purgatorio ed avervi rinunciato come tema scarso di contenuto poetico per una fantasia povera come la sua. Le pene infatti vi sono su per giù le stesse dell'inferno, e la speranza, quasi la certezza del loro fine è un motivo troppo astratto e metafisico perchè l'umile rimatore potesse concretarlo. Scelse così, ben argomenta il Salvioni, il Purgatorio di Cristo, quale è invero la Passione sostenuta per espiare le colpe degli uomini, ma non per questo è venuta a mancare alla trilogia un'intima ideale unità.
⁂
I poeti dell'ltalia settentrionale, già lo avvertimmo, hanno adottato un tipo di lingua relativamente uniforme e convenzionale. Errarono di gran lunga quanti credettero ravvisare in Bescapè e in Bonvesino i primi poeti meneghini; altra cosa doveva essere il vero dialetto milanese da essi adoperato nel quotidiano conversare. La loro, al pari di quella di tutti gli altri, è una lingua illustre formatasi nell'alta Italia contemporaneamente alla illustre toscana e a quella dei poeti siciliani, lingua in cui confluivano elementi letterari tradizionali ben antichi e comuni a tutta l'ltalia del nord, e in parte anche all'intera penisola, elementi del latino, del francese, del provenzale, e, lo ripetiamo, elementi dei dialetti locali; e però il linguaggio di Bescapè e di Bonvesino è in tanto milanese in quanto elementi milanesi intervengono nella sua composizione; vale a dir parole e modi come : cadrega, ferguia, folcion, galon, magon, negota; far stragio per sprecare (trasà), molare per aguzzare, boconare per mangiucchiare, calare per importare, sorare per raffreddarsi, stremiti e stremirsi per spavento e spaventarsi, sont per io sono, scoso per grembo, mantile per tovagliolo, in pressa per affrettatamente, rampegà per arrampica, ed altrettali.
Si è per qualche tempo creduto da studiosi valenti come il Biondelli, il Bartoli ed altri che questo volgare letterario nella sua lenta elaborazione sia andato uniformandosi a un tipo comune, il dialetto veneto : di ciò a prima veduta si ha senza dubbio la sensazione, e, d'altra parte, la congettura era verosimile dacchè per una legge universale congenita a tutte le favelle, dopo il periodo del loro sviluppo, una finisce sempre a prevalere sulle altre, come avvenne del toscano impostosi a tutti i dialetti italiani. Ma l'Ascoli ha poi dimostrato come il basarsi sulla fisionomia attuale dei dialetti possa indurre in errore poichè essa non dà la misura di quella d'una volta. Nei dialetti settentrionali le forme che oggi si conoscono come caratteristiche dell'uno o dell'altro erano al principio più generali ed esistevano accanto a forme differenti, cosicchè lo scrittore poteva scegliere tra esse. Le forme di quelle poesie furor perciò realmente parlate, senonchè col tempo sparirono, mentre le altre rimasero nel dialetto. La scelta e la preferenza di certe forme su altre è appunto la via per la quale rampolla quell'idioma letterario che sempre si forma quando si pone in iscritto il dialetto. Qui, secondo l'Ascoli, la norma della scelta non era tanto il veneziano quanto il provenzale che esercitava dappertutto grande influenza, e il francese: si preferivano quegli elementi dialettali che più s avvicinavano ai due idiomi letterariamente formati.
III.
Due cose Bonvesino amò sopra tutte, la Madonna e la sua Milano. Ei descrive da erudito le grandezze della sua città collo stesso entusiasmo e la slessa fede con cui da poeta canta le lodi della Vergine. L'opera storica di lui non è diversa dalla poetica, bensì la integra; ne ha i medesimi caratteri ratteri; come ai poetici "volgari", pur trattando argomenti comuni al suo tempo, seppe dar un'impronta originale che dagli altri li distingue, così in questa operetta, che ora per la prima volta si presenta tradotta in italiano, ha dato vita nuova a un genere letterario usato ed abusato da scrittori ben lontani dal possedere le sue doti di studioso e la sua coscienza di cittadino.
Gli elogi di città furon tema favorito nell'antichità, favoritissimo nel medio evo. Riavutesi dalle invasioni barbariche le città italiane sentirono il bisogno di magnificare in prosa o in poesia gli sforzi fatti per cancellare le traccie di tante rovine : fin dall'Ottocento un anonimo chierico glorificava in un rozzo ritmo latino la magnificenza di Milano. Il Rinascimento non interruppe, anzi alimentò questa tradizione, chè gli umanisti trovarono in que' soggetti un campo opportuno per sfoggiare eleganze di stile e argute, sottili argomentazioni. Ne nacquero componimenti pieni di venustà come le lodi di Firenze di Leonardo Bruni, ma poveri di contenuto. Altri, meno preoccupati della forma, si attennero ai modelli tramandati dal medio evo, solo sostituendo al volgare il latino e preferendo la forma poetica, e non si accontentarono di decantare i soli pregi e le bellezze materiali, ma vollero anche illustrare le condizioni fisiche, economiche e politiche; ciò non ostante tali scritture il più delle volte si riducono a indigesti zibaldoni.
L'operetta di Bonvesino, a malgrado di alcuni fronzoli, di qualche errore, di talune deficienze, e per copia e per varietà di notizie precise, e per l'ordine che la informa, si differenzia da quelle congeneri dei contemporanei e dei tardi continuatori. Scritta nel 1288, essa rispecchia uno dei momenti più solenni della storia milanese. E' il periodo di transizione tra il Comune e la Signoria : scampato dopo le guerre con Federigo II l'ultimo pericolo di divenir preda dello straniero, si riaccendono gli odii di classe, e l'avvicendarsi di urli tra il popolo e la nobiltà scrolla l'antica compagine repubblicana, il popolo, smanioso di conservar la supremazia, si stringe attorno ad un capo che ne difenda i diritti, e prepara la strada al tiranno.
L'evoluzione per la quale un ordine nuovo, senza dubbio più progredito quantunque ottenuto a prezzo della libertà, scaturì dal disordine non è compiuta : le coscienze sono ancora turbate ed incerte; freschi sono i ricordi delle guerre cmbattute per l'indipendenza e Bonvesino si esalta narrandole, acri ancora le discordie tra i cittadini e Bonvesino si commuove nel ricordarle e raccoglie tutto il suo spirito di carità cristiana per ammonire i concittadini che cessino di dilaniarsi a vicenda: le guarentigie della libertà comunale, già intaccate dai Torriani, stanno per essere cancellate dai primi Visconti, Ottone e Matteo, per quanto abbian essi cura di mantener intatte le apparenze; e Bonvesino, ignaro della meta a cui si tende, si affanna a dichiarare che Milano è sempre stata gelosa della sua libertà e niun tiranno potrà mai soggiogarla, cosicchè il Novati ha potuto domandarsi se egli parli da senno e concludere che, nè cieco, nè sordo, sa e vede molte cose, ma le tace per carità verso la patria amareggiata.
Ciò io non credo: Bonvesino è disorientato come i suoi concittadini: s'infiamma ai ricordi del passato e non s'accorge delle insidie nascoste sotto la paterna protezione dei capi del popolo, la quale invece, ben lontana dall'insospettirlo o disgustarlo, avviva il suo sogno di supremazia di Milano sulle altre città della Lombardia.
Nè ritengo per carità di patria abbia egli omesso di parlare degli ordinamenti civili e politici della sua città, egli che con tanta sagacia ha pur raccolto sì numerose minuziose notizie statistiche, quasi volesse tacere lo strazio che si andava facendo delle antiche libertà comunali: ma preferisco supporre ch'ei non abbia voluto addentrarsi in un esame difficile e mal sicuro giacchè nell'evolversi degli antichi ordinamenti verso la formazione di un più ordinato e più solido Stato monarchico, tutto era incerto e mutevole : gli organi antichi si dissolvevano, i nuovi non avevano ancora preso forma decisa nè consistenza, e si viveva alla giornata secondo le direttive imposte dalla volontà più o meno larvata dei protettori del popolo.
Nel De magnalibus civitatis Mediolani si distinguono due parti di diversa natura e di diverso valore, una statistica e descrittiva e una storica. In quest'ultima il fecondo autore dimostra buon senso, retto criterio, amor del vero, coltura per il suo tempo notevole: aveva a sua disposizione una discreta libreria, lo sappiamo dal suo testamento, e conosceva le fonti migliori, se non forse per la storia romana, certo per quella dei tempi a lui più vicini, Paolo Diacono, Arnolfo, Landolfo, il Liber tristitiae et doloris dove son narrati i patimenti della patria oppressa dal Barbarossa, e, tra le storie ecclesiastiche, il de situ urbis mediolanensis e il cerimoniale di Beroldo, e il liber notitiae sanctorum, di Goffredo da Bussero; e dà così al suo dire una impronta di verità. La quale più acquista valore in quanto, a differenza dei cronisti contemporanei, si astiene dall'intercalar favole nel racconto: due sole volte indulge a tal costume, quando narra di Viviano da Lecco e quando ricorda un favoloso Lamberto che avrebbe soggiogato Milano pri prima di Alboino. Nè come fole gli si posson rimproverare le strambe etimologie del nome di Milano che la sapienza filologica del suo tempo non andava più in là.
Tuttavia queste pagine di storia, se si eccettuino quelle dove narra le due spedizioni tentate da Federigo II contro Milano, inspirandosi probabilmente a racconti di testimoni, hanno per noi minor importanza che non la parte statistica e la descrizione demografica, topografica ed edilizia di Milano.
Qui Bonvesino non poteva far assegnamento su fonti scritte come per la storia volendo descrivere, come fece, con tanti particolari la sua situazione demografica, topografica e edilizia di Milano, il territorio palmo a palmo, enumerare i laghi, i fiumi, le ville, i castelli, le varietà dei prodotti, conteggiare il consumo di vettovaglie, le professioni, i mestieri, bisognava affidarsi ad indagini personali, e ricorrere all’autorità altrui quando quelle risultassero insufficienti, scegliendo per altro con accuratezza i propri informatori. Questo fece Bonvesino e non manca di dichiararlo spesso come preso dal timore che qualcuno non gli presti fede: o dice d’aver egli stesso verificati i fatti o accenna alle persone che glieli hanno comunicati: così per sapere quante stria di sale e di grano si consumano in Milano s’è rivolto ai più competenti quali potevano essere gli esattori dei dazi alle porte; ai beccai ed ai pescatori ha ricorso per consumo delle carni da macello e della pescheria.
Certo l’essere egli addetto agli Umiliati dovette facilitar di molto le sue ricerche, giacchè alla potente organizzazione di quei religiosi praticanti l’industria e il commercio, quasi tutte le comunità lombarde addossavano, anche per forza, gran parte dell’amministrazione de’ pubblici affari. Sappiamo dal Giulini che in Milano il Podestà e il Comune li costringevano ad esigere i dazi, a pesare e misurare alle porte della città le farine e i grani si che Innocenzo IV nel 1251 intervenne a frenare quello che oramai era divenuto un vero abuso. Negli Umiliati, sia che egli fosse loro terziario, sia che lo fosse dei francescani, trovò senza dubbio informatori sagaci e fidati e, all’occorrenza, collaboratori animati da un cordiale spirito di colleganza.
Si può domandarsi se il desiderio di magnificare la propria città non abbia per avventura indotto Bonvesino in qualche esagerazione. Ciò è certamente avvenuto nella valutazione ideale di alcuni fatti: tutto quanto egli crede di dover ammirare dichiara esser unico al mondo: richiama in ciò alla mente uno scrittore distante di sei secoli da lui, straniero ma innamorato quanto lui di Milano; Stendhal: questi conosceva il mondo assai più che non lo conoscesse il povero fraticello del secolo XIII, non mai forse spintosi al là del borgo di Legnano, eppur fece altrettanto. Sono iperboli comuni a temperamenti impressionabili e facili all’entusiasmo. Ma che nei dati di fatto e nelle cifre egli o i suoi informatori esagerassero al punto di alterarne il significato non credo. Troppo è Bonvesino preoccupato di dire il vero, troppo retta appare in ogni manifestazione la sua coscienza.
Tentò di screditarlo Pietro Verri, ma egli non conosceva dell’operetta su le meraviglie di Milano che i pochi brani tramandati da Galvano Fiamma il quale li inserì alla rinfusa nelle sue farraginose cronache, ne alterò il testo, sbagliò le cifre e per di più disse corna dell’autore. Mal si raccomandava senza dubbio Bonvesin dalla Riva alla fiducia dei posteri presentato da un cronista troppo spesso spacciatore di inverosimili fole. Ma noi che, grazie al compianto Francesco Novati, possiam leggere il testo integrale dell’opera sua, accettiamone i dali pur giudicandone con qualche riserva gli apprezzamenti. Essa è senza dubbio alcuno una fonte di preziose notizie che invano si cercherebbero altrove.
Ettore Verga.
- ↑ La lira di terzuoli, secondo i calcoli del Martini, valeva, tra il 1240 e il 1277 la metà della lira imperiale, la quale ragguagliata alla nostra moneta si può considerar pari a 12 lire italiane. Poi, dopo il 1277 e durante il sec. XIV il valore dell’una e dell’altra si ridusse quasi alla metà. Bisogna però considerare che il denaro aveva allora molto maggior valore che in oggi.