< Le mie prigioni
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Cap LXIV Cap LXVI


Capo LXV.

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Ne’ primi giorni fu stabilito che ciascuno di noi avesse, due volte la settimana, un’ora di passeggio. In seguito questo sollievo fu dato un giorno sì, un giorno no; e più tardi ogni giorno, tranne le feste.

Ciascuno era condotto a passeggio separatamente, fra due guardie aventi schioppo in ispalla. Io, che mi trovava alloggiato in capo del corridoio, passava, quando usciva, innanzi alle carceri di tutti i condannati di Stato italiani, eccetto Maroncelli, il quale unico languiva dabbasso.

— Buon passeggio! mi susurravano tutti dallo sportello de' loro usci; ma non mi era permesso di fermarmi a salutare nessuno.

Si discendeva una scala, si traversava un ampio cortile, e s’andava sovra un terrapieno situato a mezzodì, donde vedeasi la città di Brünn e molto tratto di circostante paese.

Nel cortile suddetto erano sempre molti dei condannati comuni, che andavano o venivano dai lavori, o passeggiavano in frotta conversando. Fra essi erano parecchi ladri italiani, che mi salutavano con gran rispetto, e diceano tra loro: — Non è un birbone come noi, eppure la sua prigionia è più dura della nostra. —

Infatti essi aveano molta più libertà di me.

Io udiva queste ed altre espressioni, e li risalutava con cordialità. Uno di loro mi disse una volta: — Il suo saluto, signore, mi fa bene. Ella forse vede sulla mia fisionomia qualche cosa che non è scelleratezza. Una passione infelice mi trasse a commettere un delitto; ma, o signore, no, non sono scellerato! —

E proruppe in lagrime. Gli porsi la mano, ma egli non me la poté stringere. Le mie guardie, non per malignità, ma per le istruzioni che aveano, lo respinsero. Non doveano lasciarmi avvicinare da chicchesifosse. Le parole che quei condannati mi dirigevano, fingeano per lo più di dirsele tra loro, e se i miei due soldati s’accorgeano che fossero a me rivolte, intimavano silenzio.

Passavano anche per quel cortile uomini di varie condizioni estranei al castello, i quali venivano a visitare il soprintendente, o il cappellano, o il sergente, o alcuno de’ caporali. — Ecco uno degl’Italiani, ecco uno degl’Italiani! dicevano sottovoce. E si fermavano a guardarmi; e più volte li intesi dire in tedesco, credendo ch’io non li capissi: — Quel povero signore non invecchierà; ha la morte sul volto. —

Io infatti, dopo essere dapprima migliorato di salute, languiva per la scarsezza del nutrimento, e nuove febbri sovente m’assalivano. Stentava a strascinare la mia catena fino al luogo del passeggio, e là mi gettava sull’erba, e vi stava ordinariamente finchè fosse finita la mia ora.

Stavano in piedi, o sedeano vicino a me le guardie, e ciarlavamo. Una d’esse, per nome Kral, era un boemo, che, sebbene di famiglia contadina e povera, avea ricevuto una certa educazione, e se l’era perfezionata quanto più avea potuto, riflettendo con forte discernimento su le cose del mondo e leggendo tutti i libri che gli capitavano alle mani. Avea cognizione di Klopfstock, di Wieland, di Goethe, di Schiller e di molti altri buoni scrittori tedeschi. Ne sapea un’infinità di brani a memoria, e li dicea con intelligenza e con sentimento. L’altra guardia era un polacco, per nome Kubitzky, ignorante, ma rispettoso e cordiale. La loro compagnia mi era assai cara.

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