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Capo LXXV.
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Mi fu portato un foglio di carta ed il calamaio, affinch’io scrivessi a’ parenti.
Siccome propriamente la permissione erasi data ad un moribondo, che intendea di volgere alla famiglia l’ultimo addio, io temeva che la mia lettera, essendo ora d’altro tenore, più non venisse spedita. Mi limitai a pregare colla più grande tenerezza genitori, fratelli e sorelle, che si rassegnassero alla mia sorte, protestando loro d’essere rassegnato.
Quella lettera fu nondimeno spedita, come poi seppi allorchè dopo tanti anni rividi il tetto paterno. L’unica fu dessa che, in sì lungo tempo della mia captività, i cari parenti potessero avere da me. Io da loro non n’ebbi mai alcuna: quelle che mi scrivevano furono sempre tenute a Vienna. Egualmente privati d’ogni relazione colle famiglie erano gli altri compagni di sventura.
Dimandammo infinite volte la grazia d’avere almeno carta e calamaio per istudiare, e quella di far uso de’ nostri denari per comprar libri. Non fummo esauditi mai.
Il governatore continuava frattanto a permettere che leggessimo i libri nostri.
Avemmo anche, per bontà di lui, qualche miglioramento di cibo, ma ahi! non fu durevole. Egli avea consentito che invece d’esser provveduti dalla cucina del trattore delle carceri, il fossimo da quella del soprintendente. Qualche fondo di più era da lui stato assegnato a tal uso. La conferma di queste disposizioni non venne; ma intanto che durò il beneficio, io ne provai molto giovamento. Anche Maroncelli racquistò un po’ di vigore. Per l’infelice Oroboni era troppo tardi!
Quest’ultimo era stato accompagnato, prima coll’avvocato Solera, indi col sacerdote D. Fortini.
Quando fummo appajati in tutte le carceri, il divieto di parlare alle finestre ci fu rinnovato, con minaccia a chi contravvenisse, d’essere riposto in solitudine. Violammo a dir vero qualche volta il divieto, per salutarci, ma lunghe conversazioni più non si fecero.
L’indole di Maroncelli e la mia armonizzavano perfettamente. Il coraggio dell’uno sosteneva il coraggio dell’altro. S’un di noi era preso da mestizia o da fremiti d’ira contro i rigori della nostra condizione, l’altro l’esilarava con qualche scherzo o con opportuni raziocinii. Un dolce sorriso temperava quasi sempre i nostri affanni.
Finchè avemmo libri, benchè omai tanto riletti da saperli a memoria, eran dolce pascolo alla mente, perchè occasione di sempre nuovi esami, confronti, giudizi, rettificazioni, ec. Leggevamo, ovvero meditavamo gran parte della giornata in silenzio, e davamo al cicaleccio il tempo del pranzo, quello del passeggio e tutta la sera.
Maroncelli nel suo sotterraneo avea composti molti versi d’una gran bellezza. Me li andava recitando, e ne componeva altri. Io pure ne componeva e li recitava. E la nostra memoria esercitavasi a ritenere tutto ciò. Mirabile fu la capacità che acquistammo di poetare lunghe produzioni a memoria, limarle e tornarle a limare infinite volte, e ridurle a quel segno medesimo di possibile finitezza che avremmo ottenuto scrivendole. Maroncelli compose così, a poco a poco, e ritenne in mente parecchie migliaia di versi lirici ed epici. Io feci la tragedia di Leoniero da Dertona e varie altre cose.