< Le mie prigioni
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Capo LXXXIII
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Capo LXXXIII.

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L’essermi venuta clandestinamente quella gazzetta non faccia immaginare al lettore che frequenti fossero le notizie del mondo, ch’io riuscissi a procurarmi. No: tutti erano buoni intorno a me, ma tutti legati da somma paura. Se avvenne qualche lieve clandestinità, non fu se non quando il pericolo potea veramente parer nullo. Ed era difficil cosa che potesse parer nullo in mezzo a tante perquisizioni ordinarie e straordinarie.

Non mi fu mai dato d’avere nascostamente notizie dei miei cari lontani, tranne il surriferito cenno relativo a mia sorella.

Il timore ch’io aveva che i miei genitori non fossero più in vita, venne di lì a qualche tempo piuttosto aumentato che diminuito, dal modo con cui una volta il direttore di polizia venne ad annunciarmi che a casa mia stavano bene.

— S.M. l’Imperatore comanda, diss’egli, che io le partecipi buone nuove di que’ congiunti ch’ella ha a Torino. —

Trabalzai dal piacere e dalla sorpresa a questa non mai prima avvenuta partecipazione, e chiesi maggiori particolarità.

— Lasciai, gli diss’io, genitori, fratelli e sorelle a Torino. Vivono tutti? Deh, s’ella ha una lettera d’alcun di loro, la supplico di mostrarmela!

— Non posso mostrar niente. Ella deve contentarsi di ciò. È sempre una prova di benignità dell’Imperatore il farle dire queste consolanti parole. Ciò non s’è ancor fatto a nessuno.

— Concedo esser prova di benignità dell’Imperatore; ma ella sentirà che m’è impossibile trarre consolazione da parole così indeterminate. Quali sono que’ miei congiunti che stanno bene? Non ne ho io perduto alcuno?

— Signore, mi rincresce di non poterle dire di più di quel che m’è stato imposto. —

E così se ne andò.

L’intenzione era certamente stata di recarmi un sollievo con quella notizia. Ma io mi persuasi che, nello stesso tempo che l’Imperatore aveva voluto cedere alle istanze di qualche mio congiunto, e consentire che mi fosse portato quel cenno, ei non volea che mi si mostrasse alcuna lettera, affinch’io non vedessi quali de’ miei cari mi fossero mancati.

Indi a parecchi mesi, un annuncio simile al suddetto mi fu recato. Niuna lettera, niuna spiegazione di più.

Videro ch’io non mi contentava di tanto, e che rimaneane vieppiù afflitto, e nulla mai più mi dissero della mia famiglia.

L’immaginarmi che i genitori fossero morti, che il fossero fors’anco i fratelli, e Giuseppina altra mia amatissima sorella; che forse Marietta unica superstite s’estinguerebbe presto nell’angoscia della solitudine e negli stenti della penitenza, mi distaccava sempre più dalla vita.

Alcune volte assalito fortemente dalle solite infermità, o da infermità nuove, come coliche orrende con sintomi dolorosissimi e simili a quelli del morbo-colera, io sperai di morire. ; l’espressione è esatta: sperai.

E nondimeno, oh contraddizioni dell’uomo! dando un’occhiata al languente mio compagno, mi si straziava il cuore al pensiero di lasciarlo solo, e desiderava di nuovo la vita!


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