< Le mie prigioni
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Capo LXXXVIII
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Capo LXXXVIII.

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I chirurgi aveano creduto che l’infermeria di Spielberg provvedesse tutto l’occorrente, eccetto i ferri ch’essi portarono. Ma fatta l’amputazione, s’accorsero che mancavano diverse cose necessarie: tela incerata, ghiaccio, bende, ecc.

Il misero mutilato dovette aspettare due ore, che tutto questo fosse portato dalla città. Finalmente poté stendersi sul letto; ed il ghiaccio gli fu posto sul tronco.

Il dì seguente, liberarono il tronco dai grumi di sangue formativisi, lo lavarono, tirarono in giù la pelle, e fasciarono.

Per parecchi giorni non si diede al malato se non qualche mezza chicchera di brodo con torlo d’uovo sbattuto. E quando fu passato il pericolo della febbre vulneraria, cominciarono gradatamente a ristorarlo con cibo più nutritivo. L’Imperatore avea ordinato che, finchè le forze fossero ristabilite, gli si desse buon cibo, della cucina del soprintendente.

La guarigione si operò in quaranta giorni. Dopo i quali fummo ricondotti nel nostro carcere; questo per altro ci venne ampliato, facendo cioè un apertura al muro ed unendo la nostra antica tanai a quella già abitata da Oroboni e poi da Villa.

Io trasportai il mio letto al luogo medesimo ov’era stato quello d’Oroboni, ov’egli era morto. Quest’identità di luogo m’era cara; pareami di essermi avvicinato a lui. Sognava spesso di lui, e pareami che il suo spirito veramente mi visitasse e mi rasserenasse con celesti consolazioni.

Lo spettacolo orribile di tanti tormenti sofferti da Maroncelli, e prima del taglio della gamba, e durante quell’operazione, e dappoi, mi fortificò l’animo. Iddio, che m’avea dato sufficiente salute nel tempo della malattia di quello, perchè le mie cure gli erano necessarie, me la tolse allorch’egli poté reggersi sulle grucce.

Ebbi parecchi tumori glandulari dolorosissimi. Ne risanai, ed a questi successero affanni di petto, già provati altre volte ma ora più soffocanti che mai, vertigini e dissenterie spasmodiche.

— È venuta la mia volta, diceva tra me. Sarò io meno paziente del mio compagno? —

M’applicai quindi ad imitare, quant’io sapea, la sua virtù.

Non v’è dubbio che ogni condizione umana ha i suoi doveri. Quelli d’un infermo sono la pazienza, il coraggio e tutti gli sforzi per non essere inamabile a coloro che gli sono vicini.

Maroncelli, sulle sue povere grucce, non avea più l’agilità d’altre volte, e rincresceagli, temendo di servirmi meno bene. Ei temeva inoltre che, per risparmiargli i movimenti e la fatica, io non mi prevalessi de’ suoi servigi quanto mi abbisognava.

E questo veramente talora accadeva, ma io procacciava che non se n’accorgesse.

Quantunque egli avesse ripigliato forza, non era però senza incomodi. Ei pativa, come tutti gli amputati, sensazioni dolorose ne’ nervi, quasiché la parte tagliata vivesse ancora. Gli doleano il piede, la gamba ed il ginocchio ch’ei più non avea. Aggiungeasi che l’osso era stato mal segato, e sporgeva nelle nuove carni, e facea frequenti piaghe. Soltanto dopo circa un anno il tronco fu abbastanza indurito e più non s’aperse.

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