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Capo VI.
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Quando non fui più martirato dagl’interrogatorii, e non ebbi più nulla che occupasse le mie giornate, allora sentii amaramente il peso della solitudine.
Ben mi si permise ch’io avessi una Bibbia ed il Dante; ben fu messa a mia disposizione dal custode la sua biblioteca, consistente in alcuni romanzi di Scuderi, del Piazzi, e peggio; ma il mio spirito era troppo agitato, da potersi applicare a qualsiasi lettura. Imparava ogni giorno un canto di Dante a memoria, e questo esercizio era tuttavia sì macchinale, ch’io lo faceva pensando meno a que’ versi che a’ casi miei. Lo stesso mi avveniva leggendo altre cose, eccettuato alcune volte qualche passo della Bibbia. Questo divino libro ch’io aveva sempre amato molto, anche quando pareami d’essere incredulo, veniva ora da me studiato con più rispetto che mai. Se non che, ad onta del buon volere, spessissimo io lo leggea colla mente ad altro, e non capiva. A poco a poco divenni capace di meditarvi più fortemente, e di sempre meglio gustarlo.
Siffatta lettura non mi diede mai la minima disposizione alla bacchettoneria, cioè a quella divozione malintesa che rende pusillanime o fanatico. Bensì m’insegnava ad amar Dio e gli uomini, a bramare sempre più il regno della giustizia, ad abborrire l’iniquità, perdonando agl’iniqui. Il Cristianesimo, invece di disfare in me ciò che la filosofia potea avervi fatto di buono, lo confermava, lo avvalorava di ragioni più alte, più potenti.
Un giorno avendo letto che bisogna pregare incessantemente, e che il vero pregare non è borbottare molte parole alla guisa de’ pagani, ma adorar Dio con semplicità, sì in parole, sì in azioni, e fare che le une e le altre sieno l’adempimento del suo santo volere, mi proposi di cominciare davvero quest’incessante preghiera: cioè di non permettermi più neppure un pensiero che non fosse animato dal desiderio di conformarmi ai decreti di Dio.
Le formole di preghiera da me recitate in adorazione furono sempre poche, non già per disprezzo (chè anzi le credo salutarissime, a chi più, a chi meno, per fermare l’attenzione nel culto), ma perchè io mi sento così fatto, da non essere capace di recitarne molte senza vagare in distrazioni e porre l’idea del culto in obblio.
L’intento di stare di continuo alla presenza di Dio, invece di essere un faticoso sforzo della mente, ed un soggetto di tremore, era per me soavissima cosa. Non dimenticando che Dio è sempre vicino a noi, ch’egli è in noi, o piuttosto che noi siamo in esso, la solitudine perdeva ogni giorno più il suo orrore per me: «Non sono io in ottima compagnia?» mi andava dicendo. E mi rasserenava, e canterellava, e zufolava con piacere e con tenerezza.
- Ebbene, pensai, non avrebbe potuto venirmi una febbre e portarmi in sepoltura? Tutti i miei cari, che si sarebbero abbandonati al pianto, perdendomi, avrebbero pure acquistato a poco a poco la forza di rassegnarsi alla mia mancanza. Invece d’una tomba, mi divorò una prigione: degg’io credere che Dio non li munisca d’egual forza? ―
Il mio cuore alzava i più fervidi voti per loro, talvolta con qualche lagrima; ma le lagrime stesse erano miste di dolcezza. Io aveva piena fede che Dio sosterrebbe loro e me. Non mi sono ingannato.