< Le mie prigioni
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Capo XCIX
Cap XCVIII


Capo XCIX.

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Dirimpetto a Buffalora è San Martino. Qui il brigadiere lombardo parlò a’ carabinieri piemontesi, indi mi salutò e ripassò il ponte.

— Andiamo a Novara, dissi al vetturino.

— Abbia la bontà d’aspettare un momento, disse un carabiniere. —

Vidi ch’io non era ancor libero, e me n’afflissi, temendo che avesse ad esser ritardato il mio arrivo alla casa paterna.

Dopo più d’un quarto d’ora comparve un signore, che mi chiese il permesso di venire a Novara con me. Un’altra occasione gli era mancata; or non v’era altro legno che il mio, egli era ben felice ch’io gli concedessi di profittarne, ec. ec.

Questo carabiniere travestito era d’amabile umore, e mi tenne buona compagnia sino a Novara. Giunti in questa città, fingendo di voler che smontassimo ad un albergo fece andare il legno nella caserma dei carabinieri, e qui mi fu detto, esservi un letto per me nella camera di un brigadiere, e dover aspettare gli ordini superiori.

Io pensava di poter partire il dì seguente, mi posi a letto, e dopo aver chiacchierato alquanto coll’ospite brigadiere, m’addormentai profondamente. Da lungo tempo non avea più dormito così bene.

Mi svegliai verso il mattino, m’alzai presto, e le prime ore mi sembrarono lunghe. Feci colezione, chiacchierai, passeggiai in istanza e sulla loggia, diedi un’occhiata ai libri dell’ospite; finalmente mi s’annuncia una visita.

Un gentile uffiziale mi viene a dar nuove di mio padre, e a dirmi esservi di esso in Novara una lettera la quale mi sarà in breve portata. Gli fui sommamente tenuto di quest’amabile cortesia. Volsero alcune ore che pur mi sembrarono eterne, e la lettera alfin comparve.

Oh qual gioia nel rivedere quegli amati caratteri! qual gioia nell’intendere che mia madre, l’ottima mia madre viveva! e vivevano i miei due fratelli, e la sorella maggiore! Ahi, la minore, quella Marietta fattasi monaca della Visitazione, e della quale erami clandestinamente giunto notizia nel carcere, avea cessato di vivere nove mesi prima!

M’è dolce credere essere debitore della mia libertà a tutti coloro che m’amavano e che intercedevano incessantemente presso Dio per me, ed in particolar guisa ad una sorella che morì con indizii di somma pietà. Dio la compensi di tutte le angosce che il suo cuore sofferse a cagione delle mie sventure!

I giorni passavano, e la permissione di partire di Novara non veniva. Alla mattina del 16 settembre questa permissione finalmente mi fu data, e ogni tutela di carabinieri cessò. Oh da quanti anni non m’era più avvenuto d’andare ove mi piaceva senza accompagnamento di guardie!

Riscossi qualche danaro, ricevetti le gentilezze di persona conoscente di mio padre, e partii verso le tre pomeridiane. Avea per compagni di viaggio una signora, un negoziante, un incisore, e due giovani pittori, uno de’ quali era sordo e muto. Questi pittori venivano da Roma; e mi fece piacere l’intendere che conoscessero la famiglia di Maroncelli. È sì soave cosa il poter parlare di coloro che amiamo con alcuno che non siavi indifferente!

Pernottammo a Vercelli. Il felice giorno 17 settembre spuntò. Si proseguì il viaggio. Oh come le vetture sono lente! non si giunse a Torino che a sera.

Chi mai, chi mai potrebbe descrivere la consolazione del mio cuore e de’ cuori a me diletti, quando rividi e riabbracciai padre, madre, fratelli?... Non v’era la mia cara sorella Giuseppina, che il dover suo teneva a Chieri; ma udita la mia felicità, s’affrettò a venire per alcuni giorni in famiglia. Renduto a que’ cinque carissimi oggetti della mia tenerezza, io era, io sono il più invidiabile de’ mortali!

Ah! delle passate sciagure e della contentezza presente, come di tutto il bene ed il male che mi sarà serbato, sia benedetta la Provvidenza, della quale gli uomini e le cose, si voglia o non si voglia, sono mirabili stromenti ch’ella sa adoprare a fini degni di sè.


FINE.

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