< Le mie prigioni
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Capo XLVI
Cap XLV Cap XLVII


Capo XLVI.

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Una volta andato a letto, alquanto prima dell’alba, mi parve d’avere la più gran certezza d’aver messo il fazzoletto sotto il capezzale. Dopo un momento di sopore, mi destai al solito, e mi sembrava che mi strangolassero. Sento d’avere il collo strettamente avvolto. Cosa strana! Era avvolto col mio fazzoletto, legato forte a' più nodi. Avrei giurato di non aver fatto que’ nodi, di non aver toccato il fazzoletto, dacchè l’avea messo sotto il capezzale. Convieni ch’io avessi operato sognando o delirando, senza più serbarne alcuna memoria; ma non potea crederlo, e d’allora in poi stava in sospetto ogni notte d’essere strangolato.

Capisco quanto simili vaneggiamenti debbano essere ridicoli altrui, ma a me che li provai faceano tal male, che ne raccapriccio ancora.

Si dileguavano ogni mattino; e finché durava la luce del dì, io mi sentiva l’animo così rinfrancato contro que’ terrori, che mi sembrava impossibile di doverli mai più patire. Ma al tramonto del sole io cominciava a rabbrividire, e ciascuna notte riconduceva le brutte stravaganze della precedente.

Quanto maggiore era la mia debolezza nelle tenebre, tanto maggiori erano i miei sforzi durante il giorno, per mostrarmi allegro ne’ colloquii co’ compagni, co’ due ragazzi del patriarcato e co’ miei carcerieri. Nessuno, udendomi scherzare com’io faceva, si sarebbe immaginata la misera infermità ch’io soffriva. Sperava con quegli sforzi di rinvigorirmi; ed a nulla giovavano. Quelle apparenze notturne, che il giorno io chiamava sciocchezze, la sera tornavano ad essere per me realtà spaventevoli.

Se avessi ardito, avrei supplicato la Commissione di mutarmi di stanza, ma non seppi mai indurmivi, temendo di far ridere.

Essendo vani tutti i raziocinii, tutti i proponimenti, tutti gli studii, tutte le preghiere, l’orribile idea d’essere totalmente e per sempre abbandonato da Dio s’impadronì di me.

Tutti que’ maligni sofismi contro la Provvidenza, che, in istato di ragione, poche settimane prima, m’apparivano sì stolti, or vennero a frullarmi nel capo bestialmente, e mi sembrarono attendibili. Lottai contro questa tentazione parecchi dì, poi mi vi abbandonai.

Sconobbi la bontà della religione; dissi, come avea udito dire da rabbiosi atei, e come testè Giuliano scriveami: — La religione non vale ad altro che ad indebolire le menti. — M’arrogai di credere che rinunciando a Dio, la mente mi si rinforzerebbe. Forsennata fiducia! Io negava Dio, e non sapea negare gl’invisibili malefici enti che sembravano circondarmi e pascersi de’ miei dolori.

Come qualificare quel martirio? Basta egli il dire ch’era una malattia? od era egli, nello stesso tempo, un castigo divino per abbattere il mio orgoglio, e farmi conoscere che, senza un lume particolare, io potea divenire incredulo come Giuliano, e più insensato di lui?

Checchè ne sia, Dio mi liberò di tanto male, quando meno me l’aspettava.

Una mattina, preso il caffè, mi vennero vomiti violenti, e coliche. Pensai che m’avessero avvelenato. Dopo la fatica de’ vomiti, era tutto in sudore, e stetti a letto. Verso mezzogiorno mi addormentai, e dormii placidamente fino a sera.

Mi svegliai, sorpreso di tanta quiete; e, parendomi di non aver più sonno, m’alzai. — Stando alzato, diss’io, sarò più forte contro i soliti terrori.

Ma i terrori non vennero. Giubilai, e nella piena della mia riconoscenza, tornando a sentire Iddio, mi gettai a terra ad adorarlo, e chiedergli perdono d’averlo per più giorni negato. Quell’effusione di gioia esaurì le mie forze, e fermatomi in ginocchio alquanto, appoggiato ad una sedia, fui ripigliato dal sonno, e m’addormentai in quella posizione.

Di lì, non so, se ad un’ora o più ore, mi desto a mezzo, ma appena ho tempo di buttarmi vestito sul letto, e ridormo sino all’aurora. Fui sonnolento ancor tutto il giorno; la sera mi coricai presto, e dormii l’intera notte. Qual crisi erasi operata in me? Lo ignoro, ma io era guarito.



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