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UNA POETESSA
Saffo dalle chiome di viola. Chi se l’immagina rediviva? I secoli l’hanno circonfusa in una nebbia leggendaria di ardente impurità. Immaginate dunque il suo spirito riemerso dall’onda Egea, trasmigrato verso un’ansimante metropoli moderna, vestito un’altra volta di membra giovanili e di panni che non ondeggiano intorno al libero corpo, come il peplo della fanciulla greca, ma lo stringono dentro una morbida guaina, come la moda di Parigi comanda. Non passeggia, circondata di alunne e coronata di fori, sul margine delle rupi ascoltando il singulto del mare, ma solitaria e frettolosa, sepolta nell’ombra dell’immenso cappello piumato, sguscia nel trambusto crepuscolare della città rosseggiante sotto le lampade appena accese, prestando orecchio al confuso romorio delle cupidigie che si risvegliano nell’ombra. Brutta, come Giacomo Leopardi la pensò, ed amorosa della morte perchè respinta da un crudele Faone? No. Leopardi cercava ingenerosamente, per consolarsi, una compagna della sua miseria. Se gli occhi foschi e profondi di Saffo rediviva sogguardano dalle palpebre reclini, tutta la figura s’accende in un improvviso lampo di bellezza. Ma, se in fantasia l’accecate, se per un momento la considerate come una statua diserta dalla luce della sua passione e del suo dolore, ecco vi sorprende in quella femminilità non so che di troppo rude e mascolino ed aspro. Forse troppo larghe e potenti le mascelle, forse troppo secca e diritta la sagoma dall’occipite al tallone e troppo lunghe le dita ed un po’ roca, come per un fremito perenne, la voce. Bella, ma di una bellezza aspra e funesta; immagine di nemica formidabile sebbene inerme, che soffre ella medesima della sua ostile solitudine, ma pur non sa piegarsi, e non vuole, ad amare come gli uomini vogliono essere amati. Abbandonandosi, tninaccia; abbracciando, respinge. Ha un sorriso di felicità che sembra ghigno di scherno; se promette la fedeltà la sua promessa trema sulle labbra con la febbrile vibrazione della colpa. Non nasconde uno stiletto nella manica sinistra? E Faone non l’ama, quantunque ella lo cerchi con smisurato ardore. Ha paura. Non dello stiletto, ma dell’ardore con cui la donna l’ama. Preferisce le facili galanterie o i sonnolenti vincoli matrimoniali a questo vortice di fiamma, ove l’anima sua s’incenerirebbe. Passa oltre, desiderando e tremando. E passa oltre anche Saffo, non per osare il salto suicida dalla rupe di Leucade, ma per cantare, irridendo, un canto di selvaggia sfida e di crudele impudicizia.
Io non so, nè credo che a questa immaginazione corrisponda la persona di Amalia Guglielminetti. Io parlo della sua poesia. In una incredibile concentrazione fantastica, questa fanciulla ha vissuto la vita della peggiore femmina moderna; amante, attrice, adultera, cortigiana. Essa ha letto, al chiarore perverso d’una lampada incerta, i grandi romanzi francesi.
Romanzi letti con anima piena |
Ed ecco la lettrice si trasfigura in protagonista. Che cos’è la donna vera e vivente? Una costola strappata dal fianco di Adamo. Essa è la materia plastica, nella quale la volontà mascolina si foggia la figura visibile del suo desiderio. Ester, Medea, Alceste, Lalage, Beatrice, Laura, Francesca. Ogni grande poeta ha fabbricato nella solitudine del suo sogno il simulacro dell’amore e della bellezza, perchè le donne viventi gli s’affollassero con ansia dintorno imitandone le fogge ed i modi. Sanguinaria e frodolenta affermatrice del sesso e della razza nei libri biblici, crudele dominatrice, “urna di tutti i mali„, nella primitiva immaginazione greca, sale o decade alla funzione di schiava domestica in Roma, che fila la lana incuriosa degli intellettuali splendori in cui folgoreggiano le venali nipoti di Aspasia. Le figure contraddittorie della superdonna, della sposa e della cortigiana s’incrociano ancora indecise nell’antica poesia, ma le letterature moderne si dividono nettamente il compito. Sorge in Italia la donna angelicata, la radiosa creatura di perfezione che “al ciel conduce„, e si chiama Beatrice, ma subito dopo s’umanizza alquanto in madonna Laura. Rimane ai tedeschi l’eredità di Giuditta, di Medea, perchè l’indomabile e perfida eroina rinasca nella Crimilde dei Nibelunghi e seicent’anni dopo generi un’intera prosapia di meravigliose criminali nell’opera di Hebbel e di Ibsen, cui non da lontano somiglia quella di Wagner. La pura e devota compagna dell’uomo soffre tessendo corone di disperata fedeltà nel dramma e nel romanzo inglese; mentre la letteratura francese, sviluppando l’esile germe che Catullo aveva deposto nelle sue tenere ed irose odicine a Lesbia civetta e bugiarda, dimentica le sottili smancerie di Gianfredo Rudel, seppellisce le taciturne e pazienti compagne dei paladini, ed elabora alla perfezione quella che per antonomasia si chiama la donna moderna: quella che Molière inventò in dimena per vendicarsi della moglie, quella che si chiama Jacqueline in De Musset e Michelle de Burne in Maupassant, che percorre col nefasto fruscìo delle sue sete la scena di mille drammi e di mille romanzi e strappa come gocce di sangue le rime al cuore di venti poeti lirici. Questa donna non ha ancora trent’anni, ma li ha quasi, è ricca ed ha un marito ricco, non è bella, ma splende di una grazia irregolare e capricciosa non ama, ma si dà; non abbandona, ma tradisce. Non sposa e non cortigiana, non dominatrice nè schiava, ma semplicemente anarchica, essa è la donna libera nella famiglia costituita, la creazione pili singolare della Francia, un incomparabile strumento di piacere, un inimitabile oggetto di lusso, un detestabile arnese di tortura. Bergeret l’ha chiamata “la parigina„. Essa è parigina di nascita ed è il segreto e palese tormento di tutte le provinciali, francesi od italiane che siano.
Quando le donne si riconobbero in madonna Laura, ne vennero fuori i sonetti di Vittoria Colonna e di Gaspara Stampa; quando si riconobbero nelle candide spose shakespeariane, germogliarono le rime di Elisabetta Barret-Browning. Ma nessuna ebbe il coggio di proclamarsi l’eguale di Beatrice Portinari.
Ci voleva troppo orgoglio. E nessuna fin’oggi aveva osato di foggiare la sua femminilità secondo il modello della Parigina di Becque. Era anche più arduo, perchè l’orgoglio non bastava senza un’inconcepibile dose di umiltà, essendo la donna francese una creatura dell’amore e del disprezzo degli uomini.
Ecco ora Amalia Guglielminetti. La protagonista di Notre cœur ma più sensuale ed ardente, è uscita dalle pagine del romanzo, è divenuta poetessa, si canta e si confessa da sè, quale Guy de Maupassant invano l’amò. Poetessa di qual valore? Evitatemi la pena di tentare una comparazione. Costei è un’artista di tale strepitosa forza che bisogna lasciarla sola.
Le Seduzioni sono il romanzo autobiografico di questo tipo ideale di donna moderna. Romanzo senza intreccio; tutto quanto di momenti psichici, fissati in una settantina di strofe, ciascheduna di tredici versi ordinati in terzine.
La protagonista vive nel suo sogno di folle giovinezza, solitaria e superba, senz’altra gioia fuor di quelle che ad ogni ora le finge la sua voluttuosa immaginazione.
Non vale piangere, v’è la Giovinezza, sua unica amica che l’accompagna e la consola.
Tenti la lode e mormori: — Sei bella! |
Altre volte ella ha cantato pene d’amore, nei Canti della Giovinezza, nelle Vergini Folli, che attraverso l’aspra fatica del sonetto, in cui l’alunna di Vittoria Alfieri tormentava la sua cocciuta libertà subalpina desiderosa di classici freni, trasparivano i primi segni della futura perfezione. Aveva cantato la sua pura passione. Pagina:Guglielminetti - Le seduzioni - Le vergini folli, Torino, Lattes, 1921.djvu/17 Pagina:Guglielminetti - Le seduzioni - Le vergini folli, Torino, Lattes, 1921.djvu/18 Pagina:Guglielminetti - Le seduzioni - Le vergini folli, Torino, Lattes, 1921.djvu/19 Pagina:Guglielminetti - Le seduzioni - Le vergini folli, Torino, Lattes, 1921.djvu/20 Pagina:Guglielminetti - Le seduzioni - Le vergini folli, Torino, Lattes, 1921.djvu/21 sono impudichi, la nostra vita è pura — ; poiché l'opera d’arte dev’essere accettata o respinta com’opera d’arte, e non malignamente travisata in un documento autobiografico.
Essa è ben degna di riconoscere se medesima e di percorrere la sua via.
G. A. Borgese.
Da «La Vita, e il Libro». Editore Bocca. Torino.