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ANIMA BIANCA.
Gli occhi di Rosanna erano piccoli e trasparenti, d’un azzurro d’aria, d’una limpida serenità; la sua voce aveva la serenità e la trasparenza de’ suoi occhi.
Angolosa nel corpo — che non aveva perduta mai la scarna goffaggine dell’adolescenza — di lineamenti comuni, ma non volgari, coperte le guance ed il mento d’una pelurie biondetta che i maligni del paese chiamavano, nel loro bastardo dialetto, la barba dla maästra, non possedeva di bello che le trecce: due inverosimili trecce di color rosso rame, a striature d’oro, così folte che ogni tanto s’allentavan sul collo e parevano crollar giù. E sorrideva bene, rialzando gli angoli della bocca ancor fresca su denti dallo smalto più azzurrognolo che candido; e le bastava sorridere, per ottenere da’ suoi scolari ciò che voleva.
Di scolari, ne aveva ogni anno una sessantina, tutti piccoli, dai sei agli otto, gagliardi e sporchi, svelti come caprioli, più pronti a scalar muri, a sgorbiar banchi e a lanciar petardi, che a scrutare i misteri della tavola pitagorica. Venivan dal villaggio, e dalle cascine sperdute nella pianura: l’inverno, assidui, portando nella scuola odor di stalla e manciate di neve, cogli scarponi incrostati di fango e le dita gonfie pei geloni: ma disertavano in primavera, pei lavori dei bachi e dei campi, con grande disperazione della signora maästra.
E scorrevan le annate; ma a lei i ragazzi parevan sempre gli stessi, pel miraggio di un’affettuosa illusione, e anche pei nomi dì casato che sempre si ripetevano: come avviene nei villaggi, dove le poche famiglie capostipiti si suddividono in innumerevoli ramificazioni: Friggi, Caserio, Conti, Corbetta, Mazzoni, Salvestri.
Ella conosceva profondamente l’attitudine ereditaria dei Conti a scrivere con le dita contratte ad uncino, tenendo il collo rientrato nelle spalle e il testone piegato a sinistra. I Friggi eran quasi tutti laschi d’un occhio, pronti a sferrar pugni, e ribelli alla grammatica. Nel piccolo Guido Corbetta ritrovava, con emozione tenerissima, la stessa morbosa facilità d’arrossire, la stessa mobilità di bocca e di sguardo dell’altro Corbetta, il maggiore, ormai soldato; che le mandava sempre, dal suo distretto in Basilicata, certe cartoline di celluloide che a lei sembravan del più squisito gusto.
Li adorava, — e l’adoravano. Nata in paese, non se n’era staccata che per infilare alla meglio gli studi magistrali nella più vicina città: e che fatica, mio Dio, che fatica, per riuscir ad afferrare un meschinissimo diploma, tutto di “sei!...„ E buon per lei che il professore di matematica s’era mosso a compassione; ma non capiva proprio perchè esistessero al mondo le dimostrazioni algebriche, le radici cubiche e quadrate. Davanti alla Divina Commedia rimaneva terrorizzata come un uccelletto immobile sul ramo, vinto dalla fissità magnetica degli occhi dello sparviero, che gli piomba addosso a rapidi giri concentrici. Quanto alla storia, ella non aveva mai saputo chiaramente distinguere Alboino da Teodorico, Pipino da Carlomagno, la Marchesana di Mantova da Caterina Riario-Sforza. Erano morti e sepolti, tutti coloro, Dio li abbia in gloria!... A che scopo farli rivivere per lei, che pensava a ben altro?...
Verso la fine del terzo anno di corso, il cervello di Rosanna si sarebbe potuto paragonare ad un caldaione in cui andasse ribollendo il più inverosimile guazzabuglio di cognizioni, a dispetto del senso comune. Ma che importava?...
Ella non voleva che questo: tornare, ad ogni costo, maestra al suo villaggio, dove già il posto l’attendeva. Maestra dei piccini della prima classe elementare: non sognava diversa fortuna. Nella timida e goffa campagnola, zimbello delle normaliste di stile moderno, ma sana come il fieno e fresca come le margherite dei prati, ardeva il puro spirito religioso della maestra rurale. Nel semplice cuore ella custodiva ignuda ed intatta la vocazione, portandola in sè come un inestimabile bene che nessuno, che nulla, fuor della morte, avrebbe potuto toglierle.
Quando pose per la prima volta il piede nella rustica aula un po’ buia, fra i banchi neri d’inchiostro e i vecchi cartelloni sbiaditi, Rosanna si trasfigurò; e tanto fu felice, che ne divenne quasi bella. Mai ferma, sempre tra le file dei ragazzi, agile, pronta, insegnava con la stessa naturalezza colla quale si respira e si cammina. Rapidissimi trapassi da una materia all’altra: novità, gioia, freschezza: la luce della parola e del gesto si trasfondeva negli alunni, per incanto.
Portava nella classe fiori vivi, insetti vivi, per lezioni che somigliavano a scorribande in campagna. Oh, così avesse potuto portarvi i passeri e le rondini, gli alberi e le acque, le stelle e le nubi!...
Fröbel, Pestalozzi, il metodo?... Se lo creava lei come lo sentiva, il metodo.
Quando le pareva che i fanciulli fossero stanchi, distratti, irrequieti, si metteva a raccontar favole, seduta in mezzo a loro sull’angolo di un banco, colle mani incrociate sul grembo e le spalle un po’ curve, nella loro gracile linea rimasta adolescente. Ingenue favole, semplici e bianche come l’anima sua, che i fanciulli bevevano a bocca aperta, immobili sotto il fascino di quegli occhi d’aria, di quella voce d’aria.
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Ma la scuola di Rosanna non finiva alle tre del pomeriggio. Senza padre, senza madre, sola, ella si sentiva portata dal cuore a viver la vita de’ suoi piccini. Paoluccio De-Giuli, lo zoppetto dal furbo musino di scoiattolo, tornava spesse volte a casa con un’ombra di febbriciattola: via, dunque, in grembiale, in capelli — quei bei capelli color di ramo, troppo pesanti!... — su pei sassi di via de’ Monaci dietro la chiesa, fino alla casupola dove la madre, giallognola, arcigna, sdentata a trent’anni, si lasciava indurre da lei a mettere il bimbo a letto, a fargli ingollare una pillola di chinino. La sorella maggiore di Marco Friggi, della Cascina Rossa, era alla vigilia delle nozze, e si cuciva il corredo da sè: ed ecco la maestra in cammino, con tele, pizzi, modelli di biancheria, fra magri campi di grano, tristi canali, boschi di frassini e di querce. La Cascina Rossa pareva isolata dal mondo, fra sterpeto e fiume. Il Ticino, rapido, azzurro e violento, mangiava e rimangiava le rive frananti di color d’ocra. Silenzio selvaggio: solitudine d’acque: solitudine di foreste. Ma ella non temeva di nulla. Era di quella terra, ne conosceva ogni albero, ogni macchia. Che avrebbe potuto accaderle?...
E il buon Mazzoni aveva la nonna paralitica; e Pietro Sabbia, tardo e cocciuto, non sarebbe certo riuscito a risolver da solo il problema....
Così Rosanna si componeva, per la propria vita, un’armonia di maternità paziente e vigile; che, ignara degli spasimi fisici, non conosceva se non le dolcezze, le trepidanze, gli orgogli dello spirito. E di ciò era paga; e le sue giornate non avrebber potuto essere più colme.
Amiche, non ne aveva. Le altre maestre del paese, dei vicini villaggi?... Niente, niente. Legate al loro lavoro dalla catena di ferro della necessità. Ma spostate, tutte, o quasi.
Chi sa perchè nelle campagne la maestrina è, il più delle volte, una spostata?...
Maria Barili, che si era sposata ad un fornaio, e metteva al mondo un figlio all’anno, si rifiniva fra la scuola e la casa, arrossendo dell’inferiorità di suo marito, che non sapeva nemmeno leggere. Ginetta Paloschi, pallida ed affilata sotto il casco turchiniccio dei crespi capelli d’araba, esalante odor di carne profonda e di rosa disfatta, si trovava ogni sera, dietro l’oratorio, col nuovo direttore del setificio, che aveva moglie e figliuoli. Margherita Massimi, alta, imperiosa, elegante, dagli occhi obliqui sottolineati con la matita blu, andava una volta la settimana a Milano, e i meglio informati ne raccontavano, sogghignando, il perchè; ma a voce bassa, per non esser citati in pretura a risponder d’ingiuria e diffamazione, da quella bella donna che non aveva certo paura dello scandalo.
Per ognuna, la scuola era il mezzo di guadagnarsi il pane; ma l’anima loro ne viveva lontana, come quella d’un incredulo dal raggio della grazia. Le più giovani sdottoreggiavano, sì, talvolta; quasi avessero giocato ai birilli con Guido Cavalcanti e messer Agnolo Poliziano. Ma la classe!... i ragazzi!... che peso, che catena, che galera!... Rosanna, nella sua innocente semplicità, avrebbe voluto accogliere, fra immense carezzevoli braccia, quei ragazzi e quelle bambine che, per lei, erano senza maestra. Ah, ne avrebbe trovato, dell’amore, anche per loro!... Si sentiva il cuore inesauribile, fresco d’uno zampillo perenne. Amore, sì. A tal parola non sapeva dare altro significato: lei, che aveva riso sulla faccia al fittabile del Castelletto, il quale l’avrebbe tolta dalla scuola per sposarsela in letizia: lei, che non entrava mai senza un brivido nella casa di Vanni Conti, il suo piccolo prediletto, pel terrore d’incontrarvi lo sguardo e la bocca del fratello maggiore, Mariano. Sguardo e bocca che le si appiccicavano addosso, avidi e beffardi, succhiandole sangue e pensiero, ferendola sin nelle viscere.
Mariano Conti teneva volentieri le mani in tasca. Forse vi nascondeva un coltello, per tirarlo fuori, di sorpresa, quando meno uno se l’aspettava.
E dava, invero, la sensazione di una lama di coltello, nel corpo allampanato, nel volto triangolare, nelle pupille taglienti. Scarno, ma di forza erculea: ribelle ad ogni arte, ma intelligente: di quell’intelligenza cavillosa, torbida e negativa che forma i vagabondi, i furfanti e gli anarchici. Spariva a tratti, a tratti ricompariva in paese, misterioso, glabro e sinistro. Aveva tentato tutti i mestieri; ma a tutti preferiva portar sassi e legname nella sua barca sul Ticino, dal villaggio alle opposte terre di Vigevano: seminudo, libero, remando a gran forza e cantando canzonacce.
La madre aveva terrore di lui, e tremava e perdeva il sonno quando se lo vedeva ricomparir davanti, dopo lunghe, tenebrose assenze, come sbucato di sotterra. Egli era senza labbra: la sua bocca pareva una cicatrice. Se guardava in faccia qualcuno, lo sforacchiava fin nell’anima con due punte di succhielli.
Gli sarebbe piaciuto tenersi la maestrina nella barca, vederla rannicchiata a poppa, bianca bianca nel vestito nero, colle mani aggrappate agli orli e le grosse trecce fulve rallentate, pel troppo peso, sulla nuca. Oro e rame in quei capelli: quanta ricchezza!... Glielo aveva detto, un giorno; e le aveva anche offerto un posticino nella sua “carcassa„, sogguardandola, fra il rispettoso e l’ambiguo. Ma Rosanna, pallida come un giglio d’acqua, non aveva nemmeno risposto. Allora il beffardo giovine, colle mani in tasca secondo il solito, e la testa viperina affondata nel collo tutto corde e nodi, s’era allontanato obliquamente, fischiettando sull’aria: “Son spagnola e danzo il bolero„ un suo pensiero venefico: Te la voglio fare, monachella: vedrai!...
In un nebbioso crepuscolo di novembre, la signora maästra tornava, sola, dalla Cascina Rossa. — Cric-cric — facevano sotto i suoi piedi le foglie morte. Pensava: Il bosco è un letto di foglie morte.... D’un balzo, qualcuno le fu sopra.
Non aveva avuto il tempo di scorger l’uomo sbucar da una macchia; e già boccheggiava nella sua morsa. Urlare non poteva. Si dibattè, gorgogliò qualche mozza parola disperala, cacciò le unghie nel collo dell’assalitore, cieca, demente. Fu la lotta originaria — senza pietà nel forte, senza speranza pel debole — che forse, nei tempi dei tempi, quelle selvagge foreste avevan vista combattere fra il maschio avvolto di pelli caprine e la femmina solo coperta dal manto de’ suoi capelli. Tale si rivelò l’amore alla maestra di prima elementare, che aveva l’anima candida d’un bimbo appena nato, e gli occhi ascetici delle madonne di Giotto.
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Il giorno dopo, i sessanta scolari di Rosanna non seppero riconoscere la loro dolce signora nella creatura terrea e disfatta, con lo sguardo assente e la bocca tormentata da un tic convulso, che sedette dinanzi a loro; anzi, parve cader sulla poltrona per non rialzarsi mai più.
Non era più lei.
Parlò, con voce rôca: si forzò di svolgere, come di solito, il corso delle lezioni; ma a tratti le si spezzava la frase sulle labbra. Forse era ammalata. Ognun d’essi lo pensò, non potendo, non sapendo trovare altra ragione al mutamento. E se ne stettero impressionati e quieti, sperando che l’indomani l’avrebbero ritrovata, gaia e ridente come sempre, la loro maestra: quella che nessun’altra poteva sostituire, quella che amavano ed alla quale erano avvezzi, come alla presenza materna.
Ma costei era morta.
Al suo posto si moveva, parlava, insegnava l’abbaco e l’alfabeto un’altra donna, lontana, diversa, indifferente, — inutile. — Rosanna non si sentiva più degna de’ suoi bambini. Sul corpo e sull’anima qualcuno le aveva gettata una veste infame. Non poteva ormai rimanere al suo posto, vivere accanto ai fanciulli, splendere della loro luce, parlar loro del bene, della bontà, della speranza, delle bellezze terrene e celesti. Non v’era bene, non v’era bontà, non v’era speranza: non rimaneva che lasciarsi cadere a terra, sotto le ruote d’un carro, e morire.
I fanciulli, a poco a poco, le sfuggirono: divennero indisciplinati, impararono a chiacchierare, a ridacchiare durante le lezioni, a tagliuzzare i banchi coi temperini, a rispondere con spallucciate e atti di dispetto. — Il fluido magnetico era svanito. — Beppe Salvestri portò, un giorno, un rospo in classe. Punito, fece le corna dietro le spalle della maestra; e tutti scoppiarono a ridere.
Un terrore folle gelò il sangue della disgraziata, le offuscò la vista, le diede il senso dell’agonia.
Sapevano, forse, la cosa tremenda: ed ecco, la schernivano, non avrebbero più potuto rispettarla, lasciarle la loro piccola anima nelle mani: mai più, mai più!...
Deperì, deperì. Le donnicciuole susurravan fra loro che alla maestra Rosanna s’era guastato il sangue, in conseguenza d’uno spavento preso, del quale nessuno conosceva la causa, del quale lei stessa taceva ostinatamente la causa; e le più superstiziose parlavano di stregoneria.
Ridotta al puro scheletro, tutta denti e capelli, scarnita al punto che il corpo non riusciva a sollevare il lenzuolo, non potè più alzarsi dal letto. Pel miracolo che nelle malattie di consunzione rende così belli gli agonizzanti, ritrovò negli ultimi giorni il suo viso verginale, la sua espressione pacata, la carezzevole dolcezza del suo sorriso. Chiamava sottovoce, per nome, gli allievi: faceva l’appello: “Ma come? non c’è?... sarà malato....„. E poi: “Attenti: la lettera U....„.
Ma sulla lingua ingarbugliata il sillabario si confondeva con Pinocchio dal lungo naso, e la fiaba di Cappuccetto Rosso balzava nel Giardino delle Tre Melarance, per morire soavemente nei versi che tutti i fanciulli sanno a memoria:
Il bimbo dorme e sogna i rami d’oro,
gli alberi d’oro, le foreste d’oro....
Finalmente il delirio cessò, la donna si spense, tentando con le diafane dita il gesto di tener la penna; e morte la compose in perfetta serenità.
Mai funerale fu più bianco; ma sulla neve di gennaio, dura, gelala, scintillante di piccoli cristalli, la coltre virginea gettata sulla bara e i veli delle figlie di Maria mettevan macchie stranamente torbide. Portata a braccia, la bara fu deposta nella fossa, fra cadenzato litaniare di donne.
Vanni Conti, ch’era stato il prediletto e che piangeva vere lagrime nel piccolo ignaro cuore, gettò sulla cassa le prime manate di terra mista a neve. Poi fu un succedersi di palate brutali come insulti; e tutti si allontanarono, e Rosanna rimase in pace. Di notte cadde altra neve: il fresco tumulo spari sotto il bianco: tutto il cimitero divenne una grande, sola, anonima tomba fatta per l’estasi, cinta di silenzio.
Per qualche tempo, nelle case rustiche, nelle stalle pettegole e fumose, fu un parlottare, un incrociarsi di domande e di supposizioni, un bisbigliar misterioso ed inquieto sulla morte di colei che per tant’anni era vissuta così felice. Vi fu pure chi pregò per lei, semplicemente. Ma presto sopravvennero i primi lavori nei campi e nelle vigne; e quando primavera fece per incanto brillare come smeraldi le folte erbe fra le croci, Rosanna era già dimenticata.