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L’INCONTRO.
Chi esce dal luogo dove ha, per lunghe ore, lavorato con intensità senza requie, ha molte volte lo stesso aspetto disfatto di chi esca da un’orgia.
La figuretta magrolina che nella luce rossa di quel tramonto milanese sbucava dall’ufficio postale di via Boccaccio, appoggiandosi al battente come se l’urto dell’aria aperta la colpisse in pieno petto, portava nel piccolo volto trasognato il pallore, lo smarrimento, l’abbandono quasi mortale che son pure le stimmate della voluttà.
Ella infilava, con gesto meccanico, nei guanti di filo rattoppati, le mani sporche d’inchiostro da timbri. Quante ricevute di lettera raccomandata aveva firmate?... Quanti moduli staccati dal mastro, quanti spiccioli contati e dati per resto, nella pesante giornata che pareva non dovesse finir più?...
Quante volte, presa tra il fiato graveolente d’un fattorino affacciato allo sportello, e il tic-tic della macchina Morse posta contro la parete, proprio dietro la sua schiena, ella si era sentita vuotar cuore e cervello, sprofondar nell’annientamento, scorrere alla deriva come un’annegata?...
In quell’ufficio postale ripeteva da dieci anni, ogni giorno, lo stesso lavoro, cogli stessi gesti, gli stessi sorrisi, le stesse parole alle persone che si presentavano, in fila interminabile, al piccolo quadrato aperto nella vetrata opaca.
Non contava più il tempo, non s’accorgeva più delle stagioni. In quella prigione l’inverno somigliava all’estate, la primavera all’autunno. La sera, in gran fretta per non essere strapazzata, tornava a rinchiudersi nella bassa e stretta portineria d’un casamento in corso Ticinese, a fianco delle colonne di San Lorenzo: vi era nata, vi era cresciuta, vi avrebbe, forse, dovuto morire.
Al deschetto da calzolaio posto nella miglior luce sotto l’unica finestra, il vecchio padre di Maria Chiara non lavorava quasi più. Tanto lui che la moglie vivacchiavano sugli scarsi guadagni della portineria e sullo stipendio della figlia: lui, terreo, risecchito, storto d’una spalla, colla bocca nera e fetente di tabacco masticato, colle mani adunche e squamose: lei, grassa, torpida, volgare, troneggiante fra le serve pettegole del casamento e del quartiere.
A trent’anni suonati, Maria Chiara non ricordava d’aver veduto suo padre e sua madre più giovani, e diversi. Il babbo adoperava, adesso, assai meno il trincetto, il cuoio e lo spago: null’altro. La parca mesata dell’impiegatuccia postale, non appena ricevuta, passava nelle mani artigliate del vecchio, o in quelle, attaccaticce come il vischio, della vecchia. Per comprarsi una cintura, una veletta, un fiore pel cappello, doveva chieder denaro alla madre; e la madre nicchiava, e lesinava persino i due soldi del tram, borbottando che i tempi eran duri.
Maria Chiara indossava da più di due estati un meschino abito grigio a giacchetta, di così goffo taglio che non riusciva a nascondere il difetto della spalla destra un poco più sporgente dell’altra, ereditato dal padre: difetto che un’abile sarta avrebbe certamente potuto attenuare. Le scarpe di falso capretto andavano scalcagnandosi: il feltro nero a piccola tesa, sui capelli folti ma già scoloriti alle tempie, mostrava la corda. Ella aveva l’aspetto sdruscito, incerto e disarmonico di chi vorrebbe essere elegante e non può, l’aria grama e penosa di chi vorrebbe sorridere e non riesce che a fare una smorfia, per nascondere l’irreparabile stonatura dei denti guasti.
Passata la prima impressione di stordimento, si mise a camminar lesta; ma con passo automatico. Il suo viso era d’una sonnambula. Giunta in piazza Nord, in luogo di voltare a destra come sempre faceva, prosegui diritta davanti a sè.
Dove andava?... Non lo sapeva. Davanti a sè. Questo solo sapeva, con assoluta certezza: che a casa sua non sarebbe ritornata più, nè quella sera, nè mai.
Una ributtante scenata del padre contro di lei, avvenuta la sera prima a proposito d’un nulla, non poteva essere la sola diretta provocazione alla fuga. Troppe ne erano accadute già. Ma la forza di pazienza, di resistenza della fanciulla — da tempo insidiata in un organismo nervoso giunto al parossismo della stanchezza — era caduta. Ella se ne era sentita spoglia, s’era trovata ignuda, priva d’ogni difesa morale nella viltà senza scampo d’una vita simile ad un budello cieco.
E s’era detta: Basta.
Basta, della sudicia casa dove sempre, rientrando, ella aveva ritrovato lo stesso puzzo di soffritto, di cuoiame e di detriti di gatto, gli stessi visi conosciuti in ogni grinza, lo stesse voci note in ogni inflessione, lo stesso basto, la stessa nausea.
Eran pure, quei volti e quelle voci, di suo padre e di sua madre. L’amavan pure, costoro, a proprio modo: con gretto, incosciente egoismo, ma l’amavano; pensando: noi t’abbiano fatta; e tu aiutaci adesso, e vivi per noi.
Perchè dunque ella voleva sfuggire alla legge, che era legge comune di vita?... Accadeva dell’anima sua come della carne viva d’una spalla costretta per supplizio a sfregarne incessantemente un’altra: si piagava, mandava sangue e marcia, minacciando la cancrena.
Ma non aveva mai trovato un uomo che volesse sposarla?... Cos’è al mondo una donna che non sappia nemmeno trovarsi un uomo?... Ahimè!... Quella gracile flguretta miserella, nè operaia, nè signorina, non tentava alcuno. Orlatrice di scarpe, cravattaia, guantaia o tessitrice, mille volte meglio!... Un facchino dai muscoli bronzei, o un macchinista dall’allegra faccia color fuliggine se la sarebbe forse sposata; e l’avrebbe resa madre di molti figlioli, senza pensare al poi.
Ella, invece, possedeva la licenza tecnica. Cianfrugliava in francese. Occupava un impiego. Che ironia, che tristezza!... L’impiego non metteva un soldo nella sua tasca, non la liberava dalla schiavitù familiare, non avrebbe più potuto esser tenuto da lei, se avesse preso marito: non faceva che spostarla, inaridendola come un terreno senz’acqua.
E ammalata d’aridità lo era al punto che i genitori e i colleghi d’ufficio le eran divenuti estranei, il loro contatto fastidioso come lo stridere della penna sui foglietti delle ricevute, come il tic-tic della macchina Morse, penetrante nella sua schiena col lavorio d’un trivello.
Dove avrebbe passata la notte?... Non lo sapeva. Chiuse nella logora borsetta appesa al polso, teneva le settantacinque lire dell’ultima mesata, ricevute quel giorno. E andava.
Il tramonto, avvolgendola di vampate snervanti, smoriva nel primo sbocciare delle lampade elettriche. I comignoli e i cornicioni dei tetti serbavano un ultimo purpureo riflesso di sole, mentre le vetrine e i marciapiedi accendevano i loro strani fiori di cristallo. Tram carichi di gente passavano scampanellando, suscitando dalle rotaie scintille azzurre subito spente.
E carrozze e automobili e biciclette e carri: a Maria Chiara pareva di veder tutto per la prima volta. Quanta vita!... Ma non era per lei. Perchè nessuno e nulla era per lei?... Tutti quegli occhi di cose e d’uomini non la guardavano, non la conoscevano.
Non avvertiva più affatto il peso del proprio corpo. Stanca era; e pur fluida, immateriale, sollevata da terra, senza fame, nè sete, nè sofferenza, nè punto d’appoggio. La sua piccola persona dalle spalle leggermente asimmetriche, il suo visino scarno dagli occhi allucinati le balenavano a tratti dinanzi, dagli specchi delle vetrine; e allora si sentiva pervasa da un fuggevole brivido, da un improvviso terrore.
Era dunque Maria Chiara?... O non piuttosto un’altra, un essere staccato da tutto, lontano da tutto, indifferente a tutto?...
Lei, forse, sarebbe tornata indietro, avrebbe ripreso a testa bassa la strada mille volte percorsa, e così nota, che le erano ormai familiari le venature d’ogni pietra. L’altra, no. Fuggiva, fuggiva dal controllo dispotico delle consuetudini, dei doveri. Avrebbe potuto fuggir da se stessa?...
S’era lasciata alle spalle la piazza del Duomo: rasentando senza guardarlo il possente fianco del tempio, aveva infilato il Corso, tra una fiumana di gente e un accecante barbaglio di lumi elettrici.
Lo smarrimento della demenza ingrandiva i suoi occhi fissi. Non le pareva più di camminare. Senza avvedersene aveva rallentato il passo. Ma i suoi piedi le appartenevano ancora?... Era la folla, adesso, che la sospingeva, portandola, come le onde dell’oceano un avanzo di naufragio; e mai più, mai più sarebbe apparsa la riva.
Non riva, non approdo, nè salvezza. Nè passato, nè avvenire. L’attimo la rapinava nella sua vertigine. Sola, sperduta, anonima. Gli iridescenti riflessi delle vetrine, fulgide di gioielli, damaschi, velluti, cuoi dorati, l’assalivano con la sensuale sonorità delle loro musiche gialle, argentee, violette, purpuree. E belle donne lentamente passavano, per le quali quelle belle cose eran fatte; e tutte s’appoggiavano all’uomo che le amava e le proteggeva (per un giorno, per un mese o per la vita, che importa?...) e nell’ora lusinghevole ogni loro movimento, sotto i grandi cappelli a piume e nella carezza delle morbide vesti, era grazia, gioia, seduzione, luce.
Due pensieri incoerenti, usciti dai meandri dell’istinto femminile, zigzagavano nell’ondeggiante cervello di Maria Chiara: essere nella carne della flessuosa creatura che la rasentava a sinistra, col visetto serrato in un capriccioso tòcco bianco, col corpo scolpito in una guaina bianca: vivere la dolce vita della giovanissima mammina dall’aria di bimba, che l’incrociava a destra, tenendo per mano un amore di fanciullo tutto riccioli, trine e sorrisi.
Del resto — e molte volte l’idea liberatrice era venuta a consolarla, nelle ore di buio fitto — del resto bastava un tuffo nell’ombra, un volontario disparire: ed ella avrebbe, dopo, potuto rinascere in bellezza, forza, felicità.
La morte?... La morte non esiste. Non è che una parola. Nulla va distrutto. Si scompare, ci si trasforma, si rivive, diversi. In qual libro aveva letto questo?... Era stanca di soffrire della sua spalla sporgente, del suo viso di topino spaurito, de’ suoi genitori sudici ed avidi, del suo ufficio saturo d’odor d’inchiostro e di ceralacca, del vuoto in cui l’anima le boccheggiava d’asfissia.
Avesse almeno un ricordo d’amore, fosse pur lontano, lieve, illusorio, per custodire il quale le sembrasse necessario sentir battere il proprio cuore!... Ma chi s’era mai accorto ch’ella fosse una donna?...
Vagò ancora qua e là, per un tempo indefinito. Un tram, un’automobile avrebbero potuto passarle sul corpo, senza che si scansasse. AI limite dei bastioni di porta Venezia, ombra nell’ombra, credette svegliarsi da un sogno; e si domandò che mai facesse lì, dinanzi agli enormi profili degli ippocastani, fermi in ascolto. Si domandò: Dunque?... — E si vide com’era, nella vita e fuor della vita; e capì che bisognava o rientrar nell’ordine, o morire. Meglio morire.
Tornò sui propri passi, rifece il cammino, più leggera e più sinistra d’un pipistrello; ma solo fino all’angolo di via Senato. Là, mosse verso il Naviglio, s’appoggiò alla spalliera di granito. La notte era calata completamente: non passava nessuno, o le parve. Guardò l’acqua taciturna. Si assorbì nella vertigine. Già l’atto dell’abbandonarsi alla morte era compiuto in lei, prima che le membra obbedissero all’estrema volontà; quando una voce d’uomo, vicinissima, pacata, le disse:
— Anche lei, signorina, vuol morire?...
Si volse di scatto: vide e non vide un omuncolo alto poco più di lei, meschino sotto un cappellaccio nero: lo sentì, più che non lo vedesse; e rispose:
— Sì.
— Non ne vale la pena, signorina — proseguì la voce pacata. — Da circa un mese io torno qui tutte le sere, coll’intenzione di finirla con la vita. Guardo l’acqua, penso che è fredda, e mi dico: Dopo non c’è più niente.... perchè non c’è più niente, ne stia pur sicura. E mi dico: Ancora un giorno!... Chi sa che il nuovo mattino non mi porti quel tal dono essenziale che mi faccia amare la vita.... Così, tiro avanti. Ho udito, non so più da chi, che l’abisso attira. Per me non è precisamente così: mi attira, e mi respinge. S’intende che, per un ometto come me, l’abisso è rappresentato da un braccio del Naviglio.... Siete sola?... non avete nessuno, voi?... (le dava del voi, adesso). Siete sola, come me?...
Ella ebbe il fugacissimo pensiero de’ suoi vecchi che l’attendevano; ma le parvero irraggiungibili, cancellati, rimasti sull’altra riva. E rispose, di nuovo:
— Sì.
— Esser soli è impossibile. È mostruoso. Soffrire, sta bene; ma in due. Io presi moglie, qualche anno fa. Era gaia, graziosa, troppo giovine: una passeretta. È scappata. Forse ero troppo brutto per lei.
Sporse il volto caratteristico, divorato dagli occhi intelligenti, un po’ folli. E fissò la donna.
— Voi non siete bella come Mariannina. Non siete giovine come lei. Tanto meglio. Mi assomigliate, voi. Credete al destino?... Era scritto che noi dovessimo incontrarci sulle soglie della morte, per continuare insieme la vita. Venite con me. Io posseggo una modesta casetta. Non bevo, non fumo, non sono violento. Mi piace cantare, la sera, accompagnandomi sulla chitarra. Sarete sempre a tempo a gettarvi nel Naviglio, se non riuscirete a volermi bene. È l’unica cosa che aiuti a vivere, l’esser sicuri che si può sempre, quando si voglia, morire.... Ma chi sa!... Riuscirete forse ad amarmi. Avete gli occhi soavi della capretta bianca che si trova ai giardini pubblici.... Non l’avete mai vista?... Vi andremo insieme, domani che è domenica.... Venite, venite con me.
Le prese il braccio, l’infilò sotto il suo, familiarmente. Al calore di quel contatto maschile, Maria Chiara ebbe un sussulto; ma dolce.
Era venuta sin lì, col proposito di finirla con la vita. Ed ecco, bastava la presenza, la parola d’un uomo, del primo che si fermasse sul suo cammino, per trattenerla. Il primo e l’unico che le avesse parlato di amore.
Da quell’ignoto, l’ignoto dell’amore stava per esserle rivelato. Per conoscerlo, ella moveva incontro all’inverosimile: agiva come una donna da strada: uccideva Maria Chiara, per dar vita ad un’altra donna. Suicidio per suicidio, dunque....
Chiuse gli occhi, e si lasciò condurre.