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UNA SERVA.
Dal grigio, asmatico, miserabile connubio d’uno spazzino pubblico più lercio delle lordure che raccoglieva nei crocicchi suburbani con una sarta da uomo che s’era mezzo rovinata la vista sull’ago, nacque, un giorno, una bambina. Non desiderata, non amata, supinamente subita come la miseria che vuotava del sangue le vene della donna ancor giovine e curvava verso la terra il corpo dell’uomo non ancor vecchio.
Questa figlia di due deboli nacque brutta e crebbe brutta. A dodici anni, tozza di corpo e grossolana di volto, con occhi obliqui di giapponese rilucenti di calda bontà in una maschera sbozzata con l’accetta nella pietra, ella sbrigava già tutte le faccende nell’umile casa. Scopava, rifaceva il letto grande ed il proprio giaciglio che aveva l’aria d’una cuccia, lavava in un mastello i cenci del padre, covava in un tepore di attiva e vigile tenerezza la precoce decadenza della madre canuta, sfasciata a quarant’anni, quasi cieca pel lungo agucchiare, indifferente a tutto fuor che alle trafitture artritiche, che la facevano urlare di spasimo. Si spense, la madre, in un’alba novembrina fasciata di nebbia, quietamente: si spense, alcuni mesi dopo, il padre, di sincope: disparvero entrambi come scompaiono, di solito, gli animali e i poveri, senza rumore, senza lasciar traccia. Anin aveva allora quindici anni. Raccolse la sua poca roba, vendette per un prezzo irrisorio il letto grande e il cassettone, s’infilò al dito l’anello di similoro della povera mamma, — e andò a servire.
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Incominciò allora a disegnarsi, sul duro sfondo d’un lavoro indefesso, il vero stile della vita di Anin.
Ella aveva ricevuto in sorte, da natura, il genio dell’obbedienza gioiosa. Era nata serva come uno nasce pittore, poeta, affarista o ladro. Sottomissione, devozione, pazienza, serenità nella fatica erano pii essenziali caratteri di quell’umile ma compiuto e magnifico modello umano.
Imparò presto, sotto la fèrula d’una padrona meticolosa e dispotica, le più delicate, le più difficili, le più aspre faccende d’una casa borghese: tirar la galera (lo spazzolone di ferro pei pavimenti incerati) senza farla urlare contro i piedi e gli spigoli dei mobili: cucinar con arte e con economia: stirar la biancheria senza ingiallirla: rendere piatti e bicchieri lucidi come specchi, senza incrinarli: rendere simili all’oro gli ottoni delle maniglie e delle serrature, senza aguzzar gli orecchi dietro le porte: scacciar la polvere da ogni gingillo, da ogni angolo, da ogni nascondiglio della casa, con l’accanimento d’un nemico mortale, senza stancarsi mai di ripetere il medesimo gesto maniaco e vano.
Imparò presto, anche, quattro cànoni importantissimi. Quando un abito è ragnato alle cuciture e ha stinto tutto il colore, lo si regala alla serva: — quando la fruita comincia ad andare a male, la si dà in fretta da mangiare alla serva: — quantunque paralizzata dalla stanchezza per l’incessante lavoro della giornata, la serva deve rimanere alzata fino a mezzanotte, in un angolo della cucina, ad aspettare il ritorno dei padroni dal teatro: — mentre in sala da pranzo e in salotto, alla luce di tutte le lampade, si chiacchiera e si gioca, allegramente, intorno al tavolino del thè o al vassoio del marsala, la serva se ne deve star quieta e silenziosa nel suo solitario cantuccio presso i fornelli, abbassando la fiamma del gas per non fare spreco. — Tutto questo non le pesò, nè le fu doloroso.
Era il suo gesto naturale: non avrebbe saputo far altro.
Anima obbediente: non già arida e muta. Ella nutriva in sè un umile, ma irresistibile bisogno di amare. I suoi piccoli, lucenti occhi giapponesi ridevan d’un limpido raggio di simpatia per tutto e per tutti: per la padrona arcigna, pel padrone burbero ed esigente, pel grasso e grosso amico di casa che veniva ogni sera a pranzo e non le dava mai un soldo di mancia: — pel fornaio, pel lattivendolo, per le scarpe che lustrava con ardore, pei rami che rendeva color di sole a furia di ranno, pel gatto tigrato, per la finestrella della cucina, ove aveva posto a fiorire una povera cineraria in una cassetta di latta.
Quegli occhi esotici, ingenui e gai la rendevano quasi bella, malgrado la sgraziata persona, la minuscola treccia color di ruggine attorcigliata sul cucuzzolo senz’ombra di civetteria, il volto brutalmente martellato nel granito rossastro.
Passò il tempo, lento ed uguale. Anin era ormai una donna di trentacinque anni, nerboruta e pelosa come un facchino. Nella casa aveva assunto l’importanza, inavvertita ma assoluta, dell’aria che si respira, dell’acqua che si beve, del pavimento sul quale si cammina. Col suo modesto abito di rigatino azzurro, con le sue piatte scarpe di feltro che le attutivano il rumore del passo, ella era dappertutto, tutto faceva, a tutto si prestava: rimanendo pur sempre l’Anin che, la sera, si eclissava quieta quieta in un cantuccio della cucina a sferruzzar calze, a rammendar strofinacci e lenzuola.
A sposarsi non aveva mai pensato. Nessuno, del resto, aveva mai guardato Anin con turbamento o con intenzione, come si guardano le altre femmine. Apparteneva al numero di quelle donne che attraversano la vita in margine, ignare d’aver un sesso, non avvertendone i languori e le inquietudini, non emanando intorno a sè il fluido che in molte brutte è assai più acre che nelle belle. — La sua instancabile attività le bastava. Ella era stata creata per essere serva.
Quando andò a nozze la figliuola de’ suoi padroni, Liana, — una fragile, diafana giovinetta, simile ad una lampada d’alabastro ove arda una fiammella, col viso troppo lungo, gli occhi troppo fissi, il profilo puntuto ed estatico d’una madonna del trecento — ognuno trovò naturale che Anin la seguisse, fidata domestica.
Liana non avrebbe mai conosciuta l’arte del comando: era una silenziosa che se ne stava ore ed ore appartata ed assorta, tremava ad ogni rumore improvviso, impallidiva per ogni parola più aspra del consueto. Figlia di due despoti, la volontà pareva in lei cancellata. L’ingegnere Carmi l’aveva scelta per questo, egli, così risoluto e intraprendente: pel mistero di fragilità che la rendeva preziosa, impenetrabile e quasi ambigua: per la parola in lei nascosta, che ella non avrebbe mai osato dire.
Anin l’adorava. L’aveva vista nascere. L’aveva aiutata a crescere, vegliata quand’era inferma, accarezzata quand’era triste. Il matrimonio di Liana fu, in certo modo, il matrimonio di Anin.
Mobili, tappeti, cortine, gingilli della nuova casetta felice vennero fatti segno, dalla buona servente, ad una specie di feticismo.
Mai le passò per la mente che quelle leggiadre cose avrebbero potuto esser sue, se la sorte fosse stata più generosa con lei. L’esser chiamata a custode di tali bellezze le piaceva, la esaltava come una deliziosa missione: lucidarle, disporle, riordinarle equivaleva, nel suo semplice spirito, ad averne il possesso. Il senso della proprietà, molto confuso in lei, univa vagamente il tarlato cassettone materno, per poche lire venduto, alla massiccia mobilia di noce scolpita, alle ampie lettiere di palissandro che ogni mattina le sue mani spolveravano, gelose, con piumino, strofinaccio e spazzola.
Coll’andar degli anni ingrossò, si curvò, si appesantì, insaccandosi. Ma nel posare un panchettino sotto i piedi della languida padrona, nessuna certo avrebbe avuto tanta delicatezza di movimenti. Era giunta, a forza d’intuito e d’amore, a comprendere alla muta i desideri de’ suoi signori, da un cenno, da un volger di testa, da un batter di ciglia, da un silenzio improvviso. L’ingegnere, furioso a volte come un temporale di luglio, che romba, tuona, lampeggia, per poi lasciare il cielo più sereno di prima, riusciva più spesso a calmarsi ascoltando una sommessa e sensata parola di Anin, che davanti al tremante pallore, al genuflesso mutismo, all’annientamento morale di sua moglie. Liana Carmi, dopo aver messo penosamente al mondo un cencio di creaturina morta prima ancor d’esser nata, cadde in preda ad una malattia d’esaurimento che la ridusse della trasparenza d’un cero, e la tenne a lungo fra letto e lettuccio, con periodiche crisi di cardialgia, in ciascuna delle quali ella agonizzò senza morire.
Durante quel tempo di dolore, Anin dimenticò sonno, stanchezza, fame. Fu un’infermiera indicibilmente devota, senza mai dipartirsi, con un tatto speciale che aveva del miracoloso, dalla sua schietta umiltà di servente. Le sue grosse mani incallite dalla granata, tagliuzzate dalla soda e dall’acqua bollente, ebbero, nel rimover l’ammalata, nel ravviar le lenzuola, nel disporre i guanciali, nell’offrire i medicamenti, una soavità, una leggerezza di tocco, immateriali.
Gelosa di suore e d’infermiere estranee, la volle guarir lei, la sua signora. E questa guarì; ma rimase come un fiore affidato alle cure di Anin, come una bambina alla quale ella rincalzava le coltri del letto, la sera, mormorando: — Buona notte, madamin — con la stessa infinita tenerezza che scalda il cuore delle madri.
Invecchiando, divenne quasi calva; nè volle mai saperne di parrucca. La sua testa nuda, di un giallo oleoso, solo coperta alla meglio sulla nuca da uno striminzito mazzocchio di capelli grigiastri, s’era fatta più grottesca che mai, nelle guance giallognole, fiorite di bitorzoli, negli occhietti obliqui, sfavillanti di gaia cordialità, nel naso camuso, gonfio per le libazioni — giacchè un difetto doveva pure averlo, povera Anin!... ed era di amare il vino: mai però fino all’ubriachezza. Quando era un pochetto — oh, solo un pochetto!... — alticcia, danzava in cucina un buffonesco, irresistibile fandango, cantando canzonette in un suo gergo tra francese e piemontese; e tutto finiva in una piroetta e in un ritornello: Op là!... vive la galette!...
Un’antica casa di campagna ereditata dall’ingegnere Carmi alla morte della madre — placido asilo rustico, coi monti biellesi alle spalle e l’immensa digradante pianura davanti — formò la felicità degli ultimi anni di Anin. Vi si andava a passare, in quiete, l’estate e l’autunno. V’eran pareti imbiancate a calce, pavimenti di mattoni rossi, balconate di legno, il pozzo in cortile, uno stanzone pieno di pannocchie dorate, di stacci e di còrbole, e un denso pergolato d’uva di Sant’Anna, che cacciava i suoi tralci dentro le finestre. La semplice anima della serva si trovava maravigliosamente in armonia con quella semplice casa, colle incisioni a colori del Sacro Cuore di Gesù e Maria, appese, sopra un rametto d’ulivo, ai capezzali dei letti a colonne: cogli armadi corrosi dal tarlo, con quel profumo di antico lare domestico, aleggiante per le stanze che serbavan nei muri l’asprigna fragranza delle mele cotogne.
Ella stessa era un lare domestico, sereno e benevolo. In paese (un rozzo villaggio di contadini e di tessitori) godeva d’una indiscussa autorità: si veniva da lei per consiglio, la si chiamava per aiuto. Nessun povero batteva invano alla porta della quale ella era umile ma possente custode. Anin distribuiva larghe elemosine di pane, d’olio, di farina, naturalmente con la roba dei padroni; confondendo anche in questo il senso della proprietà, nella più evangelica santità d’intenzione.
A sessantotto anni, ancor vigile e pronta, alzata alle cinque, coricata alle ventitrè, una sola grazia chiedeva a Dio: quella di non affievolirsi in una lunga malattia di vecchiaia, che l’avesse resa di peso al padroni; ma d’esser fulminata di schianto dalla morte bella, dalla morte improvvisa, sul posto della sua fatica. — Dio l’esaudì. —
In un pomeriggio di calura, nella bassa ed affumicata cucina dove ronzavano alcune mosche, la vecchia sedeva sulla cassapanca presso il focolare spento, lavorando la calza. Aveva finito di rigovernare, spazzato ed inaffiato il pavimento, rimessi i piatti in ordine nell’alta rastrelliera di legno, riempiti d’acqua i rilucenti secchi di rame. I padroni riposavano nelle camere del piano superiore: un gran silenzio era nella casa, che pareva abbandonata.
Cullata dal tichettio dei ferri, Anin abbracciava coi piccoli occhi stanchi il profilo e l’armonia delle cose che amava: le bonarie pareti brune, le tede d’ottone a tre becchi appese alla caminiera, il ramo di lauro sull’architrave, la rocca e l’arcolaio in un canto, in memoria della massaia morta. L’uscio a vetri, aperto sulla ringhiera, raccoglieva nel vano una visione di pace infinita, un mare di verde in tre toni: ricco e lucido dei castagni, giallognolo dei noci, grigio delle betulle: giù giù digradante a onde, fin che terra e cielo andavan sommersi in una nebbiolina bluastra.
— Giorno di bucato, domani — pensava, più con l’istinto che col cervello. — Alzarsi alle quattro.... numerar la biancheria.... il sapone alle donne.... ma dov’era, dov’era il sapone?... Ouf, che caldo, che peso!... dov’era il sapone?...
Ma il fragile filo si spezzò nella sua testa: le mani le caddero, contraendosi, in grembo: la faccia illividita e contorta le si ripiegò sulla spalla sinistra. Rimase così, impietrita in una tragica bruttezza, che la maestà della morte rendeva solenne.
Si spense, in lei, l’ultima serva degna di questo nome. Anzi, finì con lei l’appellativo serva nel suo significato più bello, più umano, di sommissione volontaria, di vigile serenità, di oscuro ma necessario lavoro compiuto con l’ardore d’una vocazione, con la gioia organica di chi si trova in perfetta armonia col proprio destino.
La cassapanca sulla quale s’irrigidì nell’estremo sonno reca ancora la sua ombra, invisibile ma presente: genio tutelare di semplici cose e di semplici affetti che nessuno comprende più.
Sulla sua fossa, nel tranquillo cimitero di montagna, non cresce che erba; ma Anin ne è contenta; poichè ella pure fu in vita sua come l’erba, curva sotto il passo altrui, ma sempre rinnovata di generosi succhi: non chiedendo per sè che il sole e la pioggia, non esistendo che per far di sè un’instancabile offerta di refrigerio, di freschezza, di riposo.