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Una volontaria
Confessioni - Storia di una taciturna L'appuntamento

UNA VOLONTARIA.

— Bisognerà tener ben ordinate, ben precise le “posizioni„, signorina Ilde.

— Non dubiti. Ecco, in perfetta regola, anche quella di Benedetta Crimi, l’ultima venuta. Vuol dare un’occhiata, donna Marcella?...

La signora si alzò, lunga e sottile — un’ombra — e venne, col suo passo leggero, quasi immateriale, che non toccava terra, fino allo scrittoio dietro il quale scompariva la personcina un po’ contraffatta della segretaria. Esaminò, attentissima, i duri fogli da protocollo riempiti, fra i due margini, d’una scrittura diritta, burocratica, implacabilmente regolare.

Poi, si mise a riflettere.

Benedetta Crimi. — Figlia di contadini poverissimi. — Quattordici anni. — Mandata a Milano a servire. — Già madre d’una creatura, avuta dal marito della padrona. — Ritirata la querela per corruzione di minorenne, dietro la consegna di una somma di denaro, fatta dal responsabile ai genitori della fanciulla. — Ella voleva redimersi, voleva imparare un’arte, richiedere il bambino al Brefotrofio, riprenderselo, quando le fosse possibile allevarlo col guadagno del proprio lavoro.

— Un caso di purezza morale istintiva, di amor materno maraviglioso, in natura così rudimentale. Non le pare, signorina Ilde?... Piange la notte, pensando al piccino. Teme che glielo maltrattino. Fra un paio d’anni sarà divenuta un’abilissima ricamatrice. — E la De-Nobili?... La Sternieri no, la Sternieri m’impensierisce. Ma la Rondinella?... C’è da sperare, c’è da sperare.

Finestre spalancate sull’infinito, nel viso oblungo e macero della donna che non era vecchia ma non pareva essere stata mai giovine splendevano, di purissimo splendore, gli occhi azzurri. Le antiche sante, le antiche martiri vissute e morte nella gioia e nello spasimo della loro fede, certamente avevano avuti quegli occhi. Essi non vedevano l’umanità, ma quel che avrebbe dovuto essere l’umanità. Erano sereni e terribili, millenari ed innocenti.

La signora che possedeva quegli occhi, vedova senza figli di un ricco gentiluomo che aveva agonizzato per lunghissimi anni nel supplizio d’un’atroce malattia, e del quale era stata instancabile infermiera, dirigeva, in ardore e santità di opere, quella “Casa delle Volontarie„ istituita con gran parte del suo patrimonio.

Nel tranquillo asilo eretto in linee di bellezza e di pace fra il verde di un frondoso giardino, venivano accolte, di notte e di giorno, con bontà e con rispetto, nel nome della più conscia e antiveggente fraternità femminile, le donne di mala vita, le fanciulle sulla cattiva strada, che volessero salvarsi.

Ma era necessario volessero.

E, allora, come sorelle e come figlie rimanevano, imparando a lavorare, orientandosi verso l’armonia grave e dolce d’una vita equilibrata, pur sapendo che erano libere.

— Quella piccola Mandelli!... Signorina Ilde, ha mai veduto lei nulla di più delicato?... Pensare che esce di sotto una specie di frantoio che l’avrebbe certo stritolata!... Padre, madre, fratellastro, tutti complici. Fango, marcia e sangue. E lei batte le mani come una bambina se vede fiorire una margherita e non cede a nessun’altra la gioia di andare, il mattino, a raccogliere le ova nel pollaio!... Domani alle dieci verrà il medico, per Simonetta. Non mi fido niente di quelle febbriciattole....

La cameriera aperse il battente a vetri.

— Signora, c’è una donna che vorrebbe parlarle, che vorrebbe essere ammessa. La l’accio attendere nel salottino?...

— Sì. Eccomi.

Camminava sempre come se l’aria fosse la terra, donna Marcella: era il suo spirito che camminava, non il suo corpo. Più lieve proseguì, udendo nel giardino le voci gaie delle “volontarie„, che lavoravan di maglia o di cucito, nel tepore del sole: canora sulle altre squillava la risata della Rondinella, che aveva questo soprannome perchè bianca, nera e sdutta, tutta fremito e allegro stridio, al pari della sua semplice sorella alata.

— Serva sua, signora.

Colei che la salutava così, ritta nel mezzo del salottino, era una donna non troppo alta, formosa, bruna del bruno aromatico delle olive, vestita di nero con sobrietà. Il seno ampio e solido si modellava superbamente sotto la stoffa: la forzava, quasi. Un bel collo, corto e grasso, portava un filo di granate color di sangue rappreso; e anche la bocca pareva sanguinare, non per tintura ma per abbondanza e vitalità di globuli. Un bistro vellutato, posto dalla natura con tocco di misteriosa sapienza, sottolineava le lunghissime ciglia.

— Chiedo di essere accolta qui, signora. Vorrei cambiar vita. Vorrei.... ecco, capirà. Ho trentacinque anni. Da tre mesi sono incinta; e questa volta vorrei che la creatura nascesse.

Gli occhi immensi, pieni di cielo, fissarono profondamente la sconosciuta, senza che la bocca facesse motto.

— Io sono occupata in una casa di via Vetra. Capirà. Nella nostra condizione, si corre assai facilmente il pericolo di aver dei figli. E si fa di tutto per non metterli al mondo. È un peso della professione. Solo, questa volta, io non mi posso sbagliare sul padre. È l’uomo che amo. Abbiamo pur diritto di amarne — fra tanti che passano — uno, di uomo. E dunque io voglio che il bimbo nasca; e per questo debbo cambiar lavoro.

Durante la pausa che seguì, fu quasi udibile il cadere di alcuni petali di rose bianche, da un mazzo, sul piano lucente della tavola. E fu ancora la sconosciuta quella che riprese la parola, con impassibile sicurezza.

— Capirà. Non già che io mi abbia a lagnare menomamente della mia padrona. Sì, vero?... della maîtresse. È una buonissima donna, una donna di energia e di coscienza. Un po’ vivace, un po’ tempestosa di carattere; ma non tollera, lei, che le sue ragazze si stanchino troppo. La salute delle ragazze le preme più della sua. Quando abbiamo compiuto un discreto numero di turni, è lei che ci piglia per un braccio, e ci dice: Ohe, figliola!... Per oggi, stop!... Hai faticato abbastanza. Adesso va disopra, chiuditi nella tua camera, di’ il tuo rosario, e melliti a letto. — Ah!... non c’è che dire. Non si scherza con la mia padrona. Quel ch’è giusto è giusto. Ci si stanca, ma se ne ha un compenso. È una donna di proposito, una donna di religione.

La voce soave, che pareva uscire non già dalle labbra ma dagli occhi azzurri carichi d’intrepida dolcezza, rispose, finalmente, con tre domande:

— Avete ben ponderata la cosa?... Avete proprio l’intenzione di fermarvi qui?... Subito?... Non conosco ancora il vostro nome e cognome....

— Marta Nelli, signora; ma nella casa mi chiamano Carmen. È più pittoresco: è adatto al mio tipo. Fermarmi qui, oggi stesso?... Non posso davvero. Ah, no. Domani è sabato, giornata di mercato, giornata di gran lavoro. Una quantità d’omaccioni, che si rovesciano dalla campagna. Una vera invasione, sa!... Impossibile che io abbandoni la mia padrona proprio domani, mentre la casa avrà tanto bisogno di me. Capirà. In ogni professione, l’onestà sopra ogni cosa. Io sono una donna d’onore.

Si alzò, convinta, radiosa, contando sulla punta delle dita:

— Sabato, domenica.... Martedì, ecco. Verrò martedì. È contenta, signora?... Stia pur sicura: quando Carmen dà una parola, è quella. Vedrà quante cose so fare!... Cucire a mano e a macchina, roba d’uomini soprattutto: roba d’uomini è la mia specialità. La voglia di lavorare non mi manca certamente. Ma domani!... Domani, no. Commetterei un vero atto d’ingratitudine, di vigliaccheria verso la mia casa, la mia padrona. L’onestà sopra ogni cosa. Io sono una donna d’onore.

Sorrise, aggiustandosi la veletta, stirandosi i guanti sulle dita, col più sicuro sorriso che abbia mai dischiuse più sanguigne labbra, ombreggiate di bruna peluria. Sembrava molto soddisfatta di sè. Il saluto di commiato che rivolse a donna Marcella fu quasi confidenziale; fu il saluto d’un’amica che abbia l’aria di dire: C’intendiamo.

Donna Marcella sapeva benissimo che non sarebbe tornata più.

Un’ora dopo, la signora se ne stava ancor rannicchiata nella sua poltrona, in un angolo del salottino. Aveva raccolte le mani sul grembo, chiuse le palpebre e appoggiata la testa alla spalliera.

Dormiva, forse.

Privo dell’astrale trasparenza degli occhi, il viso pallidissimo, rilassato, inciso da crudeli rughe di pena sotto le orbite e agli angoli della bocca, pareva di una creatura che fosse morta volendo morire, per togliersi ad un’intollerabile impressione di dubbio, di vergogna, di scoramento.

Non si riaprirono nemmeno, quegli occhi d’intatta innocenza e di consapevolezza millenaria, quando Benedetta Crimi entrò timidamente, con un suo lavoro fra le mani, per mostrarlo a donna Marcella: una tovaglietta di grossa tela bianca ricamata a grappoli di ciliege rosse: rosse come una risata vibrante, rosse (ma Benedetta Crimi non lo sapeva) come la bocca di Marta Nelli, detta Carmen.

Si arrestò sulla soglia, impacciata, col suo buon faccione camuso sparso d’efelidi, col suo goffo corpo di fanciullona quattordicenne già violato dalla maternità. Poi si volse, fra l’uscio socchiuso e lo stipite, alla compagna che l’aspettava nel corridoio; e con un dito sulle labbra bisbigliò pianissimo:

— Silenzio. La signora dorme.

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