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L’ESEMPIO.
Ad Adolfo Orvieto
L’esempio
— Sì, sì. Vi prometto di raccontarvi tutto, purchè uno di voialtri badi che dalle sale da gioco non entri Gavini.
— Tu parla. Ci baderemo tutti noi. Sta giocando a écarté con Grimani.
— Avvisate Grimani.
Uno esce dalla sala ad avvertir cautamente Grimani. Gli altri soci fan circolo attorno a Paolo Monti.
— Prima di tutto, dicci quando è stato.
— È venuta da me stamattina.
— A casa?
— A casa.
Tutti fanno sommesse esclamazioni di stupore.
— Le donne son tutte eguali.
— Chi l’avrebbe detto mai! Con quell’amore di figlietta bionda bionda...
— E il povero Gavini che la sposò per compassione!
— Adesso fa compassione lui, povero Gavini.
Ma l’invidia e la curiosità e la speranza di poter ottenere in futuro quel che Paolo Monti aveva ottenuto la mattina, calmarono le meraviglie e le condanne troppo celeri.
— Racconta, racconta.
— Dunque, tre giorni fa io quasi m’ero rassegnato alla ritirata. Ormai temporeggiavo da sei mesi: fiori, passeggiate fuori delle Mura, appuntamenti al Palatino e ai Musei Vaticani, lettere desolate e lettere imperative, giuramenti di affetto imperituro e cipigli feroci. Tutto era stato inutile. Voi m’avete veduto rinunziare a giocar la sera, per seguir lei ai teatri o ai balli o ai concerti; voi sapete che ho finto di lasciar Medea per provare a lei che nessun’altra donna mi piaceva più; voi sapete che ho comprato cento azioni della banca fondata dal marito; voi sapete che ho preparato a San Severino, nella campagna mia, l’elezione politica di lui con tanta cura che il mese prossimo riescirà deputato certissimamente; voi sapete...
— Al fatto, vieni al fatto...
— Eh ho aspettato tanti mesi io! Non volete aspettar pochi minuti voialtri? Ella giurava di amarmi, e passava ore e ore del giorno a casa o fuori, sotto gli occhi del marito o in vettura chiusa fuori delle porte di Roma, insieme a me; mi confidava le sue speranze, le sue noie, i suoi abiti nuovi, le malizie della cameriera, le impertinenze della figliuola, i furti del cuoco, la tintura della barba del marito. Ma appena provavo a baciarle una mano, si raffreddava, s’irrigidiva e mi insultava. Una volta scese dalla vettura sotto Ponte Nomentano e ci volle del bello e del buono per convincerla a risalire, giurandole di non parlarle nemmeno fino a Porta Salaria. Un’altra volta, a casa, quando io esasperato le afferrai le due braccia e la baciai sulla bocca, ella suonò il campanello e fu gran ventura che non pronunciasse in faccia al domestico il melodrammatico: «Riaccompagnate il signore.» Io un giorno risolvevo di non vederla più; un giorno pensavo di essere stato sciocco e timido e, appena la incontravo, osavo troppo; un giorno meditavo di convincerla con un ragionamento, un giorno di commoverla con la mansuetudine e l’umiltà; ora la credevo una civetta, ora una donna onesta innamorata ma troppo debole per saltare il Rubicone. Intanto i mesi passavano. Chi di voi è stato a casa sua?
— Io, io – dissero due o tre soci.
— Avete veduto la cameriera? È una francese bionda, molto corretta e molto seria all’apparenza. Io per parecchio tempo non le badai. Un giorno per caso ella mi riaccompagnò invece del domestico, e in anticamera aiutandomi a mettere il pastrano, indugiò colle mani sulle mie spalle tanto che io mi voltai con curiosità. Ella sorrise con furberia, arrossì e corse ad aprir la porta; io uscendo le passai una mano sulle guancie ed ella sorrise senza protestare. «Se la padrona avesse la benevolenza della cameriera, io sarei un uomo felice,» pensai uscendo. Da quel giorno, tutte le volte che la Gavini mi diceva d’andare a casa sua, io in anticamera mi ricompensavo delle privazioni subite in salotto. Una sera avendola incontrata per le scale deserte, la baciai, la invitai a venir da me, e ci venne.
— Da te? Facesti male. Potevi portarla in un albergo qualunque...
— Perchè feci male? Ti assicuro che quella ragazza è elegante e bianca quanto una signora, anzi quanto la sua signora.
— Ma non avevi l’intenzione di far venire a casa tua anche la padrona poi?
— Aspetta la fine del racconto, e vedrai.
— Spicciati.
— Siamo alla fine. Oggi che giorno è? Martedì, è vero? Dunque domenica scorsa io passai tre ore del pomeriggio a casa Gavini.
— Gavini restò sempre al Circolo, infatti.
— Infatti, e lo sapevo da prima. Così andai là con propositi feroci. Il salotto è lontano dalle camere dei domestici, il marito non era a casa: io avrei preso con la violenza quel che con la violenza mi si rifiutava.
— Sciocchezze. Le donne non cedono alla violenza che quando vogliono cadere. Come in una partita d’armi fatta in una pubblica sala fra due maestri illustri, il vincitore è stabilito in precedenza.
— Giustissimo; ma siccome qualche imbecille racconta che in casi estremi anche con la violenza si riesce a vincere, io esasperato pensai di provarci. A proposito: con la cameriera naturalmente non avevamo mai parlato della padrona, mai.
— Non ci credo.
— Mai, ti dico. Dunque, dopo molti ammonimenti, dopo molti lamenti, io afferrai per le spalle la ribelle. Ma con un braccio libero ella prese una fiala piena di viole e mi gettò in viso acqua e fiori. Mi vidi ridicolo, mi offesi, mi asciugai alla meglio la faccia e me ne andai mentre ella sorrideva quietamente. In anticamera Sofia (sarebbe la cameriera) mi venne incontro ridendo e mormorandomi sottovoce: «L’ha conciato bene, oggi, povero figliuolo. Lei fa sempre così; anche al capitano Marini l’anno scorso fece una doccia simile con l’acqua e le violette. Povero figliolo!» Ma non si mostrava gelosa, e rideva aiutandomi a infilare il pastrano col solito gesto. A un punto mi asciugò col fazzoletto la cravatta che era bagnata e nelle pieghe aveva una viola ancora; poi mi baciò e mi disse tranquillamente: – Vengo posdomani mattina alle dieci, è vero? – Io risposi di sì e la baciai. Sulla soglia comparve la padrona e disparve.
— Patatrac – e tutti ridevano clamorosamente – E poi? E poi?
— Io escii allibito. Ormai ero certo di non mettere più piede a casa Gavini.
In quel momento un cameriere portò sopra un vassojo un biglietto di Grimani: «L’écarté è finito.»
— Finisci, finisci.
— Guardate se entri Gavini. Quella scena era avvenuta domenica sera, è vero? Ebbene ieri ricevo alle undici una lettera breve della Gavini: «Domani, martedì, alle dieci vengo io.»
— E stamane è venuta?
— Stamane è venuta.
— E non t’ha detto nulla?
— Nulla, fino alla fine. Dopo due ore di tenebre, mentre io riaprivo gli sportelli e alzavo una tenda, ella m’ha detto: – Spero che la mia cameriera non sarà venuta qui. – E io con serietà sistemando la tenda alzata: – Mai, mai, te lo giuro! – E niente altro.
— Gavini, ecco Gavini! – mormorarono gli altri sottovoce.
Paolo Monti gli andò incontro d’un passo, gli battè allegramente due dita sul petto:
— Ah birbante! Stavo descrivendo a questi amici che meraviglia di cameriera tu abbia a casa.
Il commendator Gavini sorrideva, facendo gli occhi piccoli dietro le lenti d’oro.
— Sofia? Bella figliola, eh? Ma è così saggia...
— Peccato! – sospirarono con serietà due o tre, intorno.