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L’AVARA.
A Giulio Padovani.
L’avara
Due anni fa, tornando da Roma qui a villeggiare, trovai a metà del paese un nuovo caffè con l’insegna di bandone rosso sulla porta verde, con otto o dieci seggiolini di ferro intorno a due o tre tavolini lungo la strada, e dentro vidi carte a fiorami gialli e rossi e verdi su le pareti, e un banco verniciato in azzurro e lunghi armadii azzurri con bicchieri, bottiglie, tazze, cioccolatine e paste dure. Ma più mi meravigliai quando dietro al banco vidi Angelo soprannominato Vinonero che per tanti anni avevo veduto fuori delle osterie sporco e lacero e indolente guardare l’erba crescere tra il lastrico al sole. Ora egli mi salutava con aria affabile, era roseo e ben raso, aveva una camicia di flanella a righe rosse e bianche e un grembiule candido e anche fuor dal panciotto sul grembiule una catena d’oro i cui nodi fiammeggiavano come candele accese.
Il mutamento era troppo miracoloso perchè si fosse potuto compiere naturalmente, tra la stagione della semina e quella della mietitura. Prima di ogni altro interrogai Vinonero, avendo cura di chiamarlo bellamente Angelo perchè vedesse che io avevo capito tutta l’importanza della sua metamorfosi fisica ed economica fino al punto da dimenticare quel suo tetro nomignolo di beone. Egli me ne fu grato perchè mi offrì un bicchierino di alchermes con molte cerimonie e molto lavar di bicchieri.
— Ma dunque come mai ti sei dato al commercio?
— Eh che vuole, padrone mio? Un giorno o l’altro bisognava pure che mettessi giudizio. Ormai ho trent’anni.
— A metter giudizio ci vuol buona volontà; ma a metter su bottega e specialmente con questo lusso ci vogliono denari.
— Un uomo onesto li trova sempre, – e mi volle versare un altro po’ di alchermes, forse per farmi ingoiare ogni altra domanda indiscreta così che io dovetti accontentarmi di quella ultima massima ideale.
Ma alla sera il mio fattore, che sa lo stato civile presente, passato e probabile di tutto il villaggio mi narrò la verità.
C’era nel villaggio una ragazza grassa e bruna di quasi quarant’anni detta la Speziala, perchè era sorella dell’antico farmacista. Ossia in realtà ella c’è ancora, ancora si chiama la Speziala e ancora è grassa e bruna, sebbene non sia più ragazza. E il gusto del racconto sta appunto nel nesso tra quel mutamento di Angelo il caffettiere, e questo mutamento di lei.
La signora Santa aveva ereditato dal fratello otto o diecimila lire e in dieci anni dandole qua e là in prestito con firme sicure e con poco rumore le aveva quasi triplicate. E questa sua cura nell’amministrare i suoi soldi la aveva tanto occupata che l’amore non l’aveva turbata mai. Una volta si era vociferato che ella trattasse con molta amabilità il cursore rurale del Tribunale di Spoleto, il quale per le sue audacie e per i suoi capelli rossi alti sul capo era chiamato Galletto; ma si era capito che l’odio dei debitori e non un amore scambievole li legava. Del resto gli intimi o i sequestri erano molto rari perchè la Speziala avarissima non dava i suoi denari che a chi poteva pagar quieto e puntuale: e si diceva che l’unica firma poco solvibile cui ella pare fosse generosa era quella del deputato, il quale aveva spesso firmato le carte solo per lasciare alla povera donna l’autografo prezioso. Una volta ella riescì a passare al sindaco una delle cambiali dell’onorevole, e poco mancò che per quel suo prudente e semplice atto d’amministrazione non giungesse al povero sindaco una destituzione telegrafica dal Ministero.
Un’arte speciale ella aveva per sfigurare o inventare proverbii, e a chi la consigliava di comprare qualche terreno, rispondeva con serietà, come ripetesse un oracolo: «Carta canta e villan dorme» e per lei la carta eran le sue cambiali ed il villano personificava tutta l’agricoltura. Per sè spendeva poco o niente e vestiva di nero e non aveva gemme fuori di due piccole logore turchine alle orecchie, ma ai poverissimi di quando in quando dava qualche centesimo e si scusava dell’esiguità del dono ammonendo: «Chi fa quello che può fa quel che deve.» Ma il suo detto più frequente era stato inventato tutto da lei ed ella lo presentava a chiunque per curiosità o per speranza di guadagno le consigliava un marito: «L’amore è d’argento e gli affari sono d’oro.» E non diceva male.
Ora tra i poveri che ella aiutava con quei pochi centesimi era Angelo soprannominato Vinonero. Egli spesso dall’osteria saliva ad aiutare la servetta della signora Santa quando c’era da sistemare il vino nella cantina o l’olio nell’oliara o il grano nel granaio, vino, olio, grano portati quasi sempre da pagatori morosi per calmare la creditrice e Galletto. Un giorno egli profferì alla padrona un affare che sembrava d’oro: comprare con cento lire subito due ettolitri di vino vecchio che allora non si vendeva per meno di sessantacinque lire ad ettolitro. Chi lo vendeva era il mugnaio che doveva pagare il dì dopo una cambiale per certo grano a Spoleto e gli mancavano cento lire e non poteva offrire il vino pubblicamente perchè era vino d’un campo portatogli in dote da sua moglie, la quale a nessun costo avrebbe acconsentito alla vendita. Egli, Angelo, doveva andar col carretto di notte, caricare il vino senza rumore e portarselo via mentre la donna dormiva nell’altra ala della casa; dopo, a fatti compiuti, il mugnaio avrebbe convinto la moglie.
La signora Santa accettò, consegnò le cento lire, aggiungendoci cinque lire di regalia pel mediatore; ma nè la notte nè la mattina dopo il vino venne. Angelo narrò che il mugnaio lì per lì aveva come un burattino mutato opinione, lo insultò bestemmiando, lo accusò perfino di mischiare la polvere della strada alla farina del suo mulino, e circa le cento lire rispose che le teneva a casa e le avrebbe portate alla sera. Ma alla sera le cento lire non vennero, e il dì dopo egli nemmeno si fece vedere. La Speziala lo fece chiamare e lo minacciò dei carabinieri, ma egli sapeva che la vista dei carabinieri era poco piacevole agli occhi neri della padrona e che in ogni modo le sarebbe stato difficile narrare a quale scopo le cento lire avrebbero dovuto servire.
Così passò tutta l’estate, ed egli pacificamente continuò ad aiutare nelle faccende di casa la signora Santa e la sua servetta, e alle segrete ansiose domande della creditrice egli rispondeva battendosi le palme sul valido torace velloso:
— Che volete che vi dia? Che volete che vi dia? Lo sapete: io non posseggo che quel che porto addosso.
La domanda gli poteva esser fatta cento volte, che egli sempre di sasso sorrideva, furbamente rispondendo: — Lo sapete: io non posseggo altro che quel che porto addosso.
Un pomeriggio d’estate egli nel granaio, smuovendo con la pala larga il grano che sembrava un po’ caldo e poteva tarlarsi, s’era, col permesso della padrona, tolta anche la giacca, e nel movimento eguale tutti i muscoli delle braccia e delle spalle gli si inarcavano e gli si gonfiavano a intervalli potentemente. La signora Santa giunse nell’ira concitata ad afferrarlo per un braccio. Senza scomporsi lasciando cadere la pala. Egli posò la sua grossa mano ruvida sulla mano fresca e grassoccia della donna così da tenerla più a lungo a contatto della pelle calda, e disse con impudenza:
— Che pelle fresca avete, padrona Santa! Beata voi!
Da quel giorno ella lo rimproverò ogni momento per le ragioni più futili con collera tanto cupa che per certo ella doveva essere arsa da qualche nascosto odio più terribile che il dispetto per quelle cento lire rubate. E urlando contro di lui lo fissava sempre e finiva per soffiar gli insulti da vicino sotto il volto a mani tese, diventando così rossa e così ansante che pareva che qualcuno le stringesse furiosamente la cintola e il petto fino a soffocarla; poi all’improvviso taceva e restava fissa, rossa, ardente, a guardarlo con gli occhi lucidi. E Angiolo taceva, non si muoveva e anche sorrideva con sicurezza un po’ ironica, e quel sorriso più inacerbiva la assalitrice. Qualche volta ripeteva, mettendosi le mani sul torace:
— Che volete che vi dia? Lo sapete: io non posseggo che quel che porto addosso.
Una mattina di novembre, sotto San Martino, stavano in cantina a svinare. Fuori faceva freddo e dall’inferriata si vedevano passare molte nuvole su nel cielo celermente chi sa per dove; e anche col vento qualche foglia arida d’olmo entrava turbinando. Il vino nuovo aveva una forza asprigna che solleticava l’ugola e faceva proprio venir la voglia di ridere ed appariva già puro come un vino di dieci anni mentre singultava giocondamente giù nel boccale attraverso alla cannula di latta. Un odor di mosto appesantiva l’aria nella cantina male illuminata e ogni cosa aveva ancóra al tatto la patina glutinosa e dolciastra del mosto versato nella gioia e nella fretta della vendemmia.
La signora Santa taceva, ma anche ella beveva di quando in quando, sebbene non ci fosse laggiù che un bicchiere solo, quello per l’assaggio del vino. Quando ebbero aperta l’ultima botte ella mise il bicchiere contro la luce, lo odorò, ne bevve qualche sorso, poi schioccò la lingua soddisfatta dal sapore, dall’odore, dal colore del vino nuovo, e porse il bicchiere ad Angelo; e le labbra rosse le rimasero madide e lucenti. Mentre Angelo beveva ella disse senz’ira, quasi scherzevolmente:
— Quest’anno gliele daremo quelle due some di vino al mugnaio.
Angelo sorrise, ma posò il bicchiere e ripetè il gesto e la parola consueta:
— Quante volte le devo dire, padrona Santa? Voi lo sapete: io non posseggo che quel che porto addosso.
E la signora Santa si contentò perchè Angelo spirò quelle parole così vicino al volto di lei che per baciarla ebbe appena a protender le labbra.
Poco dopo Angelo apriva a mezzo del paese quel caffè meraviglioso con l’insegna rossa, la porta verde i sediolini gialli e gli armadii azzurri.
E adesso vuol diventare consigliere comunale.