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IL NUMERO PERFETTO.
A Clemente Maraini.
Il numero perfetto
Non ho mai creduto che la solitudine possa riposare il cervello: e, quando i medici ci consigliano di lasciare la città e la folla, per riposarci al mare o al monte, un mese o due, in solitudine vegetativa io comincio subito a dubitare che quei medici abbiano per studio o per esperienza qualche nozione certa sulla stanchezza grigia che ci deprime dopo un esagerato lavoro cerebrale.
Anche a partir senza libri e senza carta e senza penne, la meditazione ci occupa subito, e con la meditazione il ricordo di quel che già pensammo scrivemmo o leggemmo e la speranza di quel che penseremo, scriveremo, leggeremo quando saremo tornati in forze. Ci si tormenta nella memoria e nel desiderio come gli alcoolici o i morfinomani cui un medico inesperto tolga improvvisamente con la violenza liquori od oppiati. La conversazione e la discussione più sottile stancano meno della meditazione chiusa continua nella quale la mente eleva edifici babelici che la opprimono come un incubo per giorni e per notti e sono sempre infiniti perchè nessuna realtà li tocca e li atterra. E il paesaggio non si vede che attraverso a quel meditare. Ed essendo le cose mute e senza altro senso che quello che l’uomo loro impone, tutto tutto attorno sembra un simbolo sensibile di quelle nostre idee e per somiglianza o per contrasto ci incoraggia a perseverare in esse e a crearne delle altre, delle altre ancóra nuove e pur simili, incessanti e affascinanti come le onde d’un mare sotto il sole.
Tutto questo ho detto perchè mi perdoniate quando vi dirò che, dopo quindici giorni di solitudine in una villetta bianca tra Fano e Pesaro, io, disperato di trovar da solo il riposo della mente, con tante minacce ordinatomi dal mio medico, scrissi, anzi telegrafai a Lalla di venire a tenermi compagnia.
Lalla è la donna più femmina ch’io conosca. Ama il giallo e il rosso al contrario dei tacchini, non parla nessuna lingua conosciuta perchè ha imparato il francese da un addetto dell’ambasciata tedesca e l’italiano a Milano dove è nata, scrive con un’ortografia da prete calabrese e con una vivacità da impiegato governativo, e io non ho ancora ricevuto una lettera sua che non termini con questa arguzia peregrina: — Ricordati di me che non sono la Pia, ma la tua... Lalla.
In compenso è la più elegante donnina che io conosca tra Palermo e Torino; e se non avesse la manìa delle spille sui nastri del collo e della cintura, su le pieghe della gonna e su i fiori del cappello, su i merletti del petto e su i fiocchi degli scarpini, sarebbe anche la più gentile donna che si potesse mai abbracciar nella vita.
Giacomo Varano, che è stato suo amante, quando me la presentò con la speranza di esserne liberato, accennando con un po’ di disdegno all’eccessiva magrezza di lei, mi disse che era fatta d’ossa e di spille.
È buona e non ha fatto mai del male che a chi gliel’ha chiesto, e naturalmente non si irrita che quando si mette con crudeltà in dubbio la sua intelligenza.
Una volta io facevo uno studio sulla decadenza della scultura greca ed ella mi tormentava invano perchè le spiegassi un po’ l’argomento. Io mi schivavo con destrezza, ma quel benedetto titolo del mio studio letto da lei su qualche giornale che lo aveva annunciato, le si era confitto nel cervello come una spilla (una più, una meno...). Così quando Varano tornò dalla Grecia, dove era stato un anno addetto alla nostra legazione, e in un’allegra cena che noi amici gli demmo egli ci descrisse un po’ i costumi e le persone di là, ella in un momento di silenzio escì a dire con molta solennità: — Sì, hai tempo a blagare tu! Ma là la scultura, l’è molto in decadenza, l’è...
Del resto mutava cognizioni come mutava amici, e quando fu amante del senator Solazzi, igienista famoso, non ci dava che consigli d’igiene e non si lavava che con l’acqua borica e non si coricava senza misurarsi la temperatura col termometrino d’argento sotto la ascella; e quando passò nelle mani del marchese Fabri, cavaliere di cappa e spada di Sua Santità e presidente del Circolo di San Pietro, non parlò che di concilii ecumenici e di beatificazioni e non si preoccupò che del riacquisto del poter temporale e volle andare a un concistoro, così che al Fabri fu per lo scandalo tolta la cappa, la spada e la presidenza.
Io dunque telegrafai a Lalla che era a Firenze, e Lalla venne con quattro bauli per restare quattro giorni; súbito su tutti gli attaccapanni, tutti gli armadi, tutti i letti, tutte le tavole, tutti i divani, tutte le sedie fu un diluvio di vesti, di sottovesti, di corpetti, di busti, di copribusti, di ventagli, di cappelli, di veli, di nastri e di spille, così che io finalmente riescivo a non pensare a nulla se non a comprimere col fazzoletto qualche puntura che le spille di Lalla facevano alle mie mani troppo fiduciose.
E scrissi anche a Giacomo Varano che era a Rimini e venne a raggiungerci súbito giurando di non vedere, di non udire, di non toccare, di non disturbare il nostro idillio estivo in nessun modo. Lalla si persuase facilmente a restare più di quattro giorni, con la sua consueta prontezza a mutar di idee notte per notte; e noi tre passammo ore spensierate tra Fano e Pesaro, spingendoci pel pauroso passo del Furlo fino a Cagli e lungo le alberate rive del Foglia fino ad Urbino, andando una mattina a veder il sole levante su nel convento di Monte Giove fra i pini e una sera a mangiare una cena fra il pettegolezzo dei romani villeggianti a Senigallia.
Mi pare di non avervi ancóra detto che, a cento metri dalla villetta nostra, abitavano nelle due stanze più pulite della casa colonica la signora che me l’aveva affittata, e suo figlio. Era questi un contadinotto male rimpannucciato, rosso e tondo e sbarbato, coi pantaloni stretti stretti e il panciotto enorme, e sul panciotto una catena d’argento poco più piccola di quelle degli ergastoli, la quale a ogni passo faceva uno strepito metallico simile a quello degli spiriti terribili nei Falsi monetarii. Quel ragazzo per ore e ore restava all’ombra della casa a fumar la pipa e a guardare il mare abbagliante sotto il meriggio e, quand’era seduto, teneva le mani riunite sul ventre quasi che la protezione del panciotto non bastasse ai tesori di adipe accumulati là dentro, boccone a boccone. Lalla lo aveva soprannominato la Foca, e Varano e io lo chiamavamo così; e un giorno Lalla rise per due ore perchè lo aveva udito giù dalla spiaggia chiamare a gran voce la mamma.
— Avete udito? — ci narrò — La foca ha detto «ma-ma», proprio come nelle baracche ambulanti.
Un pomeriggio, Varano e io vestiti di tela bianca prendevamo il caffè e fumavamo sotto la veranda; le tende a righe turchine erano distese giù dai pilastrini perchè la vista del mare incandescente non ci abbacinasse, e Lalla, vestita di battista bianca a mille righe rosee, stava contro la luce fingendo di leggere un giornale.
Ai due angoli della veranda due vasi di azalèe bianche e rosse, due o tre sedie di vimini dai cuscini di color vivace: una vera scenetta da Illustrated English Magazine.
— Giacomo, hai visto ieri a Fano che muso ha fatto la tua marchesa Bassori quando ci ha veduti insieme? Tu sei rimasto un po’ genato; dì la verità.
— Io? A sentir te, anche la Bassori sarebbe stata...
— Eh via! Il tenente Santoro era intimo dei Bassori, a Roma, e raccontava a Titina che tu eri sempre lì per la colazione, pel tè, pel pranzo. Le sappiamo, noi, certe cose. Però non mi pareva molto signora, sai, quella tua marchesa. Anche con Santoro...
— Oh adesso non cominciare...
— Sì, sì, va un po’ a dirle che paghi i suoi debiti, invece di metter su quel dedain quando ti incontra con me.
Varano si irritava, io intervenni.
— Senti, Lalla. Quante amanti ha avuto Varano, secondo te?
— Eh, a sentir lei, se per ogni amante mi fossi strappato un capello, sarei calvo come un sasso.
— Lascia risponder lei. Quante gliene dai?
Lalla non rispondeva. Varano insisteva stizzito:
— Certo non sono tante quanti sono stati gli amanti tuoi.
— I miei? Eh... li sapete.
— Noi? Ma noi non ci occupiamo di calcolo sublime.
— Lalla, dicceli tutti, — proposi io. — Tu sei franca.
— Magari súbito.
— Benissimo. Però prima si fa una scommessa. Tu, Giacomo, quanti gliene dai? Bada, non esagerare.
Ma Varano era un ottimista nato e un cavaliere compito, e non volle enunciar cifre.
— Tu dì un numero.
— Venticinque — proposi io.
— Io dico meno. Se anche sono ventiquattro, vinco io. Siamo intesi.
E si stabilì che chi di noi due perdeva, doveva pagare il giorno dopo una cena a Senigallia.
Lalla non si era ribellata al mio numero, solo aveva detto con franchezza;
— Eh un po’ troppi!
— Vedremo, vedremo. Comincia.
Sul margine bianco del Corriere della Sera con la matita ci accingemmo a scrivere l’elenco. Tutti e due conoscevamo la vita di Lalla, parte a parte, per sue confidenze e per scienza nostra; e anche tutti e due volemmo cominciare la lista coi nomi nostri Lalla ci ammoni:
— No, no. Andiamo per ordine. Se no, me ne scordo qualcuno.
E cominciammo dal vecchio conte della Moia che l’aveva portata via dalla casa del padre. Lalla, distesa sopra una sedia lunga, con la sigaretta in mano, suggeriva con onesta semplicità i nomi senza titubare e fissava la caffettiera d’argento lucente per non distrarsi.
Qualche nome ci era ignoto e noi, cortesemente, non chiedemmo spiegazioni, scrivendolo imperturbabili. Al numero otto ella si arrestò:
— Giorgio.... Giorgio.... Come diavolo si chiamava?
— E chi lo sa?
— Ça ne fait rien. Mettete Giorgio tout court. E tiriamo innanzi.
Al numero dodici disse:
— Sua Alt... — e si corresse — Mettete il Principe, senz’altro.
Al numero quattordici:
— Segnate il Senatore. Non posso dar spiegazioni.
Giacomo con un po’ d’ansia mormorava:
— E io?
— Aspetta, aspetta. C’è tempo ancora.
Al numero diciotto finalmente venne Giacomo, al numero diciannove venni io, poi l’igienista, poi il cavaliere di cappa e spada, poi due tenenti di cavalleria... contemporaneamente, poi un deputato, poi nient’altro.
— Non ce ne sono più? — Domandò con la matita in mano. — Eh via! Uno te ne sarai dimenticato di sicuro.
— E chi? No, no, son tutti.
— Non ti pare che bastino? — mormorò Giacomo che avea temuto una sconfitta e si era salvato per miracolo.
Io esortavo:
— Un altro, via, un altro ne trovi. Se ci pensi bene, ne trovi anche due.
— No, no, proprio no. E ve lo direi! Che mi fa, a me? Io ve li ho detti tutti, giuro, — e con indifferenza accese un’altra sigaretta e bevve un’altro bicchierino di Kümmel.
Ella aveva tutta la buona intenzione di farmi vincere la scommessa; e suggerì due o tre nomi ma già erano stati posti nell’elenco. Io mi rassegnai a darmi vinto, per un punto solo, salvo che, nella notte, alla memoria di Lalla non fosse riapparso qualche ricordo spento.
Poco dopo, mentre Varano era in camera sua a riposare, io entrai da Lalla e cercai di corrompere la sua sincerità.
— Pensa bene, pensa: un senatore, un deputato, un dottore, un diplomatico, anche un sottotenente di cavalleria: tutto è buono. Pensa, pensa. Basta un altro nome e vinco io.
— Lo direi, ma non ce l’ho. Che devo fare? Devo inventarlo? Spero che non mi chiederai di inventarne uno.
— No, no, ma... insomma...
Ella tacque un momento, poi mi gettò le braccia al collo e mi dette un bel bacio.
— Vedrò, vedrò... per farti piacere...
Verso le cinque Giacomo e io uscimmo a passeggiare verso Fano e Lalla restò a casa a scrivere qualche lettera e a curare i suoi abiti insieme alla cameriera.
Noi non tornammo che alle nove, proprio all’ora della cena. Appena entrammo nella sala da pranzo già illuminata, Lalla saltò in piedi in grande allegria.
— Venticinque! venticinque!
— E via! — disse Varano — Non mi darai ad intendere che sia vero. Questo è un complotto fra voi due.
— No, no. Giuro.
Io, fingendo severità, soggiunsi:
— Bada, Lalla, che sia vero.
— Altro che vero! Ho le prove.
— E chi è? — domandammo Varano ed io in coro.
— La Foca! — ella annunziò, appena abbassando gli occhi.
— La Foca? Tu sei matta. È impossibile! Tu non avrai fatto questo.
— Et maintenant tu vas me gronder!...
— Ma no, che te lo inventi per farci ridere.
— Ho le prove ti dico, — e trasse di tasca il catenone d’argento con grande strepito: — Ecco le prove.
Io restai di pietra. Varano sorrideva a quella mia vittoria di Pirro. Poi mi scossi e cominciai a sgridarla:
— Già tu partirai domani súbito. Intanto stasera stessa devi restituire la catena a... — non riescivo a dire la Foca, perchè mi ci veniva da ridere — a quel signore laggiù.
— Ma me l’ha regalata!
— Tu gliela restituirai súbito, ti dico. Qua la catena.
Ella mi consegnò la catena, io presi un mio biglietto da visita, ci scrissi su «ringraziando», e ravvolsi il biglietto e catena in un pezzo di carta e indirizzai il pacco alla Foca. Intanto Lalla, che ostentava indifferenza, ripeteva a Giacomo:
— Sì, sì, tu devi pagar la cena. Venticinque, venticinque!
Quando ebbi consegnato al domestico il pacco per quel tale, scostai la sedia per mettermi a cena senza parlare. All’improvviso, prima che mi sedessi, Lalla mi gittò le braccia al collo e mi strinse forte e scoppiò a piangere dirottamente, baciandomi con frenesia e dicendomi fra i singhiozzi:
— Io... l’avevo fatto per farti vincere... la scommessa. E adesso tu mi sgridi. No, no, tu ne dois pas être si bête que ça. Tu dois me comprendre. Io l’ho fatto per te...
Io la acquietai, la feci sedere a tavola, mentre Varano, un po’ commosso, mi faceva segni desolati per invitarmi a esser mite; a momenti ci piangeva... l’ottimista!
E adesso penso che il dì dopo, quando ricondussi Lalla a Firenze, ebbi torto.