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ALBA.



«Il popolo che giaceva in tenebre
Ha veduta una gran luce»
S. Matteo, Cap. iv, 16.


 
Un giorno tu dagli odorati poggi
di Betania l’incredula fissavi
Gerusalemme, e tutto intorno il vasto
orizzonte splendea nei raggi obliqui
del tramonto; laggiù gli alti obelischi
dai lampi d’oro, i portici fuggenti
e i delubri di porfido, un superbo
stuolo parean di taciti giganti

che sfidassero il cielo. I tardi onori
resi coi marmi prezïosi e l’oro
agli scherniti un dì bianchi profeti
sul tuo labbro di martire un sorriso
suscitavano amaro, e il negro dramma
dell’insano giudizio, e l’onte, e l’aspra
via del Golgota infame, e il lungo strazio,
tutto al tuo core onniveggente apparve.
Che sospiri d’amore a te veniano,
Tiberiade, dal divino petto
del Nazareno! Che saluti ardenti
all’azzurro tuo lago!...
                            Ecco, alle rive
s’accalcano le turbe; ecco, dall’onda
giunge agli umili, ai miseri, agli oppressi
la gran parola, e le convalli, e i monti
e tutta quanta Galilea ne suona.
Un inno immenso si levò dai cori
senza speranza, una dolcezza nova
allora entrò le solitarie case
di chi spregiato e servo a ingiusti dommi
scordato avea di chiudere nel petto

un’anima, divin tempio di Dio;
allor l’abietta peccatrice, a cui
ogni varco negavan di salvezza
il fariseo, lo scriba e il sacerdote,
finalmente potè sorger dal fango
e riveder l’azzurro e aver speranza
di perdono; non più curve le teste
all’insana superbia; un novo regno,
nova legge verrà che spinga i grandi
ai piccini allacciarsi, e il mondo, in vasto
tempio mutato di fratelli, un’alba
vedrà di feste immaginate in cielo.
E la legge del cor quella, il gran regno
quello sarà della giustizia...
                     
                               Eccelsa,
divina visione! Oh, ma lontano
è Magdalo, Gesù; lunge i tranquilli
boschi di Galilea, gli ameni laghi
che aveano echi robusti ai forti accenti
del tuo labbro ispirato; innanzi hai l’onda
bruna d’Asfalte, desolata imago

d’un’anima perduta e senza senso
d’amore; innanzi hai la dorata tana
delle giudaiche belve, sitibonde
del sangue tuo... Pur così presso allora
l’alba credevi, o Cristo!

                            A noi che tanta
dal tuo fulgido giorno età divide,
a noi lontana ancor sembra la mèta
che tu sognavi. Quanto sangue e quante
cladi in tuo nome! che crudel vicenda
di fugaci vittorie e di sconfitte
immensurate!
               Or tu dagli alti cieli
(come dai colli un dì Gerusalemme)
guardi a questo ribelle ingrato mondo
che, vivo, poco ti comprese, e spento,
tosto risorto ti gridò, per farsi
teco avaro di pianto...

                            Un’altra schiera
de’ tuoi veri seguaci oggi combatte

con l’arme del pensiero; oh, ma la nebbia
è folta intorno ai cori, oh, ma crudeli
più d’allora, o Gesù, sono i tuoi figli,
nè ancor si cessa d’inchiodar sul legno
infame del disprezzo i pochi e forti
soldati tuoi che van gridando al mondo:
— Guai a voi che ai fratelli impor sul dorso
non esitate enormi pesi, al pondo
de’ quali inorridite; a voi sventura
che negate le preci e il tetto umìle
sottraete alle vedove! Insensati
e ciechi; guai a voi che alzate cippi
e monumenti ai grandi del pensiero,
e dite: Oh noi macchiate non avremmo
le nostre man nel loro sangue! e intanto
sempre a chi s’alza con l’idea scagliate
il vitupero e l’ignominia. —

                               È presso
l’alba, sorgete! — van gridando ancora
gli apostoli di luce, e ancora un premio
s’hanno di beffe, e ancor seguono e vanno

impavidi alla croce e soffron tutta
l’agonia del veder tanta crudele
umanità che non comprende; e vanno
gridando sempre e ancor: — Prossima è l’ora
dei conculcati e degli oppressi; ha grazia
chi prima si ravvede! —
                         — E il mondo, cieco
Epicureo, sorride, e sovra i drappi
d’oro sdraiato, incredulo risponde,
sbadigliando:
                     — Quell’alba? Oh, è lungi ancora! —

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