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PER LA LUNA.
Chieder che val s’altra ventura, un giorno
lontano, ebbe Febea? Se aperse l’ale
giammai l’aria nel tacito soggiorno
cui spesso la sognante anima sale,
e se dell’acque le sonanti stille
risero dentro i chiari antri d’opale?
Non forse è noto a noi che mille e mille
occhi d’adolescenti e di vegliardi,
pupille fosche e fulgide pupille,
sguardi di donne innamorate, sguardi
di asceti, accesi in foco di preghiere
o di credenti negli Dei bugiardi
si rivolsero a lei, lei di chimere
popolando e di sogni? Alla superba
umanità, che giova altro sapere?
Ella è l’intatta pisside che serba
il raggio di quei mille occhi, e il segreto
dell’alta gioia o dell’angoscia acerba
che quel raggio dicea; sa l’inquieto
attender dei fanciulli, e l’indefesso
rimpiangere dei vecchi il tempo lieto
di giovinezza; nè mirarla adesso
potremmo, senza che di là favelli
a noi quel mondo di fantasmi, espresso
dalle legioni dei morti fratelli
che la videro anch’essi, nelle chiare
notti, precinta in vaporosi anelli,
o come specchio tersa, attraversare
lenta gli azzurri pelaghi, nei suoi
muti viaggi sovra l’alpi e il mare
con immensa pietà guardando a noi.