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SILENZIO.
Ei viene. In un istante
ogni suono è caduto;
viene con passo muto
della notte l’amante.
Di stelle una corona
sul capo egli le allaccia:
apre le immense braccia
e tutta ella si dona.
Non parole interrotte,
non gemiti d’amore
ode dal suo signore
nell’estasi la Notte;
ma ben per lei, che sola
ne intende il dolce senso,
egli canta un immenso
inno senza parola: —
«Ho mille regni, o mia
unica, e tutta io voglio
pel mio supremo orgoglio
dirtene la magìa.
Vedi? Dei sogni aperti
al taciturno volo
son miei l’algente polo
e i torridi deserti;
mie le città suberbe
che strusse la divina
ira; quella ruina
veston licheni ed erbe;
tra i portici dipinti
s’aggira il gufo, assale
l’erica sepolcrale
delle colonne i plinti,
e lesto il mandriano
per quelle vie passando
zufola sogguardando
ed agita la mano.
Ma solo, io solo, il forte
palpito ancora ascolto
del popolo sepolto
sotto le città morte,
e solo intera io sento
la bellezza suprema
dell’edera che trema
sugli archi eccelsi al vento.» —
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
*
La Notte ascolta, immersa
nel sogno, e il mondo tace.
Ma occulta, nella pace
come un’onda si versa
continua, da ignote
polle in marine ascose
recando delle cose
al silenzio devote
la parola segreta;
l’inno senza parola
che tutto intende sola
l’anima del poeta.
*
«Io sono l’Alba e t’amo.
Per te le gemme io sento
schiudersi, e il succo, lento
salir dai ceppi al ramo.
Mentre gli uccelli a festa
scoton l’ali, la spira
snoda il serpe, e sospira
il dolor che si desta,
odo l’Alpi d’intorno
dir nell’alto a lontani
culmini di vulcani:
— Ancora un altro giorno! —
E al mar che flagellando
le va, senza potere
sbramarsi, le scogliere
chiedere: — Fino a quando? —
*
Noi siamo le foreste,
le foreste che degni
eleggere a’ tuoi regni
nelle segrete feste.
La tua malìa, sognanti
ci tiene in un’attesa
di prodigi, un’attesa
di fantasmi giganti;
e ben tornano a noi
nelle tranquille sere
l’ombre dolci e severe
dei santi e degli eroi...
Passano: è quei che cieco
morì, ma dei pianeti
i viaggi segreti
spiò, vegliando teco.
È quel meditabondo
spirito di veggente
che ad una ingrata gente
dischiuse un novo mondo.
È il tuo devoto, il forte
Ghibellin fuggitivo,
che potè scender vivo
ai regni della Morte...
Passano: agli alti veri
cui tendevano, solo
tu dirizzasti il volo
degli erranti pensieri.
*
Il cor dice: — «O figliuolo
d’Iside, tu nell’ore
del supremo dolore
solo m’intendi, solo
mi sei rifugio; e quando
l’offesa eccede, e invano
ad un accento umano
la riscossa domando,
tu, muto Iddio, che sdegni
l’onta che non ti tocca,
col dito sulla bocca
la rampogna m’insegni.» —
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tutte le cose in sordi
bisbigli d’aromali
atomi, e ritmi d’ali,
ripetono concordi:
— «Tu, che schiudi le porte
dei fantasmi ai poeti,
tu, che certo i segreti
conosci della Morte;
tu che imperi a le belle
feste dell’Alba e tieni
in tuo giogo i sereni
pelaghi de le stelle;
non mai, non mai sian rotte
le magìe del tuo regno,
o grande, o solo degno
amante della Notte!» —
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Va il coro di segrete
voci senza parola
e, in mille forme, sola
una lode ripete;
va, come una profonda
fiumana, a ignota foce,
tranquillo, con la voce
monotona dell’onda...