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Donnalbina, Donna Romita, Donna Regina
Il segreto del mago Lu Munaciello

Donnalbina, Donna Romita,
Donna Regina



La leggenda di Donnalbina, Donna Romita, Donna Regina, corre ancora per la lurida via di Mezzocannone, per le primitive rampe del Salvatore, per quella pacifica parte di Napoli vecchia che costeggia la Sapienza. Corre la leggenda per quelle vie, cade nel rigagnolo, si rialza, si eleva sino al cielo, discende, si attarda nelle umide ed oscure navate delle chiese, mormora nei tristi giardini dei conventi, si disperde, si ritrova, si rinnovella — ed è sempre giovane, sempre fresca. Se voi volete, o miei fedeli ed amati lettori, io ve la narro. Se volete per un poco dimenticare le nostre folli passioni, i nostri odi di taciturni, i nostri volti pallidi, le nostre anime sconvolte, io vi parlerò di altre passioni diversamente folli, di altri odii, di altri pallori, di altre anime. Se volete io vi narrerò la leggenda delle tre sorelle: Donnalbina, Donna Romita, Donna Regina.

Erano le tre figlie del barone Toraldo, nobile del sedile di Nilo. La madre, Donna Gaetana Scauro, di nobilissimo parentado, era morta molto giovane: il barone si crucciava che il suo nome dovesse estinguersi con esso: pure, non riprese moglie. Ottenne come special favore dal re Roberto d’Angiò che la sua figliuola maggiore, Donna Regina, potesse, passando a nozze, conservare il suo nome di famiglia e trasmetterlo ai suoi figliuoli. E nel 1320 si morì, racconsolato nella fede del Cristo Signore. Donna Regina aveva allora diciannove anni, Donnalbina diciassette, Donna Romita quindici.

La maggiore, dal superbo nome, era anche una superba bellezza: bruni e lunghi i capelli nella reticella di fil d’argento, stretta e chiusa la fronte, gravemente pensosi i grandi occhi neri, severo il profilo, smorto il volto, roseo-vivo il labbro, ma parco di sorrisi, parchissimo di detti; tutta la persona scultorea, altera, quasi rigida nell’incesso, composta nel riposo. E lo spirito di Regina, per quanto ne poteva ricavare l’indiscreto indagatore, rassomigliava al corpo. Era in quell’anima un’austerità precoce, un sentimento assoluto del dovere, un’alta idea del suo còmpito, una venerazione cieca del nome, delle tradizioni, dei diritti, dei privilegi. Era lei il capo della famiglia, l’erede, il conservatore del nobil sangue, dell’onore, della gloria; era nel suo fragile cuore di donna che dovevano trovare aiuto e sostegno queste cose — ed ella nel silenzio, nella solitudine, si adoperava ad invigorire il suo cuore: a farvi nascere la costanza e la fermezza, a cancellarvi ogni traccia di debolezza. A volte nel suo spirito, sempre freddo, sempre teso, passava un soffio caldo e molle — e le sorgevano in cuore vaghi desiderii di amore, di profumi, di colori abbaglianti, di sorrisi; ma ella cercava vincersi, s’inginocchiava a pregare, leggeva nel vecchio libro dove erano scritte le storie di famiglia e ridiventava l’inflessibile giovinetta, Donna Regina, baronessa di Toraldo.

Donnalbina, la seconda sorella, veniva chiamata così dalla bianchezza eccezionale del volto. Era una fanciulla amabile, sorridente nel biondo-cinereo della chioma, nel fulgore dello sguardo intensamente azzurro, nei morbidi lineamenti, nella svelta e gentile persona. I tratti duri, fieri, di Donna Regina diventavano femminilmente graziosi in Donnalbina. E veramente ella era la dolcezza di casa Toraldo. Era lei che presenziava i lunghi lavori delle sue donne sul broccato d’oro, alle trine di lucido filo d’argento, agli arazzi istoriati, andando da un telaio all’altro, curvandosi sul ricamo, consigliando, dirigendo; era lei, che, in ogni sabato, attendeva alla distribuzione delle elemosine ai poveri, curando che niuno fosse trattato con durezza, che niuno fosse dimenticato, ritta in piedi sul primo scalino della porta, vivente immagine della misericordia terrestre. Era lei che portava alla sorella Regina le suppliche dei servi infermi, dei coloni poveri, di chiunque chiedesse una grazia, un soccorso. Nella sua affettuosa e gaia natura, si doleva del silenzio di quella casa, della austera gravità che vi regnava, dei corridoi gelati, delle sale marmoree che niun raggio di sole valeva a riscaldare; si doleva del freddo cuore di Regina che niun affetto faceva sussultare — se ne doleva per Donna Romita.

Perchè Donna Romita era una singolare giovinetta, mezzo bambina. Così il suo aspetto: i capelli biondo cupo, corti ed arricciati, il viso bruno, di quel bruno caldo e vivo che pare ancora il riflesso del sole, gli occhi di un bel verde smeraldo, glauco e cangiante come quello del mare, le labbra fini e rosse, la personcina esile e povera di forma, bruschi i moti, irrequieta sempre. Ora appariva indifferente, glaciale, gli occhi smorti, le nari terree, quasi la vita fosse in lei sospesa; ora si agitava, una fiamma le coloriva il volto, le labbra fremevano di baci, di parole, di sorrisi, l’angolo delle palpebre nascondeva una scintilla, scivolata dalla pupilla viva; ora diventava irritata, superba, il viso chiuso, sbiancato da una collera interna. Nei giorni d’inverno, quando la pioggia sferza i vetri, il vento sibila per le fessure delle porte, urta nel camino, del largo focolare, Donna Romita si rannicchiava in un seggiolone come un uccello pauroso ed ammalato; nelle caldissime ore di estate, non lasciava le ombre del giardino, errando pei viali. A volte rimaneva lunghe ore pensosa. Pensava forse di sua madre, cui le avevano detto rassomigliasse.

Pure, le tre sorelle menavano placida vita. Erano regolate le ore dell’abbigliamento, della preghiera, del lavoro, dell’asciolvere e della cena; erano stabilite equamente le occupazioni di ogni settimana, di ogni mese. Dappertutto Donna Regina andava innanzi e le sorelle la seguivano; ella aveva il seggiolone con la corona baronale, ella aveva le chiavi dei forzieri dove erano rinchiuse le insegne del suo grado ed i gioielli di famiglia; a mensa, ella presiedeva, le due sorelle una a diritta l’altra a sinistra, su’ seggi più umili; all’oratorio ella intonava le laudi. La mattina e la sera le due sorelle minori salutavano la maggiore, inchinandosi e baciandole la mano: ella le baciava in fronte. Di rado le chiamava a consiglio, essendo, in lei il senno superiore alla età ed al sesso: ma se accadeva, le due attendevano pazienti di essere interrogate. Era in tutte tre profondo ed innato il sentimento dello scambievole rispetto: in Donnalbina e in Donna Romita un ossequio affettuoso per Donna Regina. Le sue parole erano una legge indiscutibile, cui non si sarebbero giammai ribellate. In fondo l’amavano, ma senza espansioni. Ed essa era troppo rigida per mostrar loro il suo affetto, se le amava.

Un giorno re Roberto si degnò scrivere di suo pugno a Donna Regina Toraldo che le aveva destinato in isposo Don Filippo Capece, cavaliere della corte napoletana.

Imbruniva. Nel vano di un balcone sedeva Donna Regina, col libro delle ore fra le mani. Ma non leggeva.

— Mi è lecito rimanere accanto a voi, sorella mia? — chiese timidamente Donnalbina.

— Rimanete, sorella — disse brevemente Regina.

Regina era più smorta dell’usato, un po’ abbassata la testa, errante lo sguardo. E Donnalbina cercava indovinare il pensiero segreto di quella fronte severa.

— Mi ricercavate di qualche cosa, Donnalbina? — chiese infine Regina, scuotendosi.

— Voleva dirvi che la nostra sorella Donna Romita mi pare ammalata.

— Non me ne addiedi. Mandaste per la medesima Giovanna?

— No, sorella, non mandai.

— E perchè?

— Ahimè! sorella, dubito che i farmachi possano guarire Donna Romita.

— E qual malore grave e strano è il suo, che non trovi rimedio?

— Donna Romita soffre, sorella mia. Nella notte è angosciosa la veglia ed agitati i suoi sonni; nel giorno fugge la nostra compagnia, piange in qualche angolo oscuro; passa ore ed ore nell’oratorio inginocchiata, col capo su le mani. Donna Romita si strugge segretamente.

— E sapete voi la causa di tanto struggimento, Donnalbina? — chiese con voce aspra Donna Regina.

— Io credo saperla — rispose, facendosi coraggio, la sorella minore.

— Ditela, dunque.

— Ma la vedete voi?

— Ve la chieggo. Tardaste troppo.

— Donna Romita si strugge d’amore, o mia sorella.

— D’amore, diceste? — gridò Regina balzando sul seggiolone.

— D’amore.

— E che? Debbo io udire da voi queste parole? Chi vi parlò prima d’amore? Chi vi ha insegnato la triste scienza? Di chi io debbo crucciarmi, di Donna Romita che me lo cela, o di voi, Donnalbina, che lo indovinate e me lo narrate? Come furon turbati il cuore dell’una, la mente dell’altra? Sono stata io così poco provvida, così incapace da lasciare indifesa la vostra giovinezza.

— L’amore è nella nostra vita — rispose con dolce fermezza Donnalbina.

Regina tacque un momento. Aveva corrugate le sopracciglia, quasi a ristringere ed a condensare il suo pensiero.

— Il nome dell’uomo? — chiese poi duramente.

Donnalbina tremò e non rispose.

— Il nome dell’uomo? — insistette l’altra.

— È un giovane cavaliere, un cavaliere di nobil sangue, bello, dovizioso.

— Il suo nome?

— Donna Romita è stata affascinata dalla eloquente parola, dallo sguardo di fuoco. Amò certo senza saperlo… — Il suo nome, vi dico. Debbi io pregarvi?

— Oh! no, sorella. Ma voi le perdonerete, voi le perdonerete, non è vero? E cercava prenderle le mani.

— Che cosa debbo perdonarle? Ditemi il nome del cavaliere.

— Pietà per lei. Ella ama don Filippo Capace.

— No!!

— Lo ama, lo ama, sorella. Chi non l’amerebbe? Non è egli valoroso, galante con le donne, seducente nell’aspetto? Quando egli mormora una parola d’amore, il cuore della fanciulla deve struggersi in una dolcissima felicità; quando il suo labbro sfiora la fronte della fanciulla, può ella invidiare le gioie degli angeli? Essere sua! Sogno benedetto, aura invocata, luce abbagliante! Pietà per nostra sorella! Essa lo ama — e cadde ginocchioni, balbettando ancora vaghe parole di preghiera.

— Ma per chi mi chiedi pietà? — gridò Donna Regina, rialzando bruscamente la sorella in un impeto di collera — per chi me la chiedi?

— Per Donna Romita… — rispose l’altra smarrita.

— Chiedila anche per te. Tu, come lei, ami Filippo Capace.

— Io non lo dissi! — esclamò Albina folle di terrore.

— Tu l’hai detto. L’ami. Ed io non posso, non posso perdonare. Io amo Filippo Capace — dice con voce disperata Regina.

Le ombre della notte involgevano la casa Toraldo: una notte senza speranza di alba.

Profondo è il silenzio nell’oratorio. La lampada di argento, sospesa davanti ad una Madonna bruna, brucia il suo olio profumato, diradando il buio con una luce piccola ed incerta. Brilla una sola scintilla nella veste d’argento della Vergine. Se si tende bene l’orecchio, si ode un respiro lieve lieve. Non sul velluto rosso del cuscino, non sulla balaustra di legno lavorato dell’inginocchiatoio, ma sul marmo gelido del pavimento è mezza distesa una forma umana; l’abito bianco e lungo in cui è avvolta ha qualche cosa di funebre. Donna Romita è là da più ore, dimentica di tutto, nell’abbandono di tutto il suo essere, nel profondo assorbimento dell’idea fissa. Ella non sente. il freddo dell’ambiente, non vede l’oscurità, non sa nulla del tempo, non sente lo spasimo delle sue ginocchia, non sente lo spasimo di tutta la sua vita; ella non sente che il suo pensiero tormentoso, onnipresente, onnipotente.

— Madonna santa, toglimi questo amore! Madonna santa, strappami il cuore! Madonna santa, fammi morire, fammi morire, fammi morire! Toglimi questo amore!

E le invocazioni si moltiplicano; essa stende le braccia alla immagine sacra e torna a chiedere la morte. La fronte ardente si curva sino al suolo, le labbra baciano il marmo, tutto il corpo si torce nella disperazione.

Ad un tratto un singhiozzo interrompe il silenzio. Chi piange presso di lei? È forse l’eco del suo dolore? È forse la sua ombra, quest’altra fanciulla vestita di bianco che piange e prega in un angolo! Sì, è l’eco del suo dolore, è la sua ombra che si desola; è Albina. Donna Romita fugge, fugge invasa dal terrore e dalla vergogna, lasciando nell’oratorio un amore ed una sciagura simile alla sua.

In quell’ora medesima, nella vasta camera da letto, sola, seduta presso il tavolo di quercia, veglia Donna Regina. Sta immobile, non prega, non piange, non trasalisce. Tutto il volto pare scolpito nel granito, solo ardono gli occhi di un fuoco consumatore. Passano le ore sul suo capo altero, passano le ore sul suo cuore straziato, ma pel loro passaggio non si cangia il suo strazio.

Allegre le vie della vecchia Napoli nella primavera novella dell’anno, per la gioia degli uomini; lieto lo scampanìo delle chiese. È la Pasqua di Risurrezione. La pace dal cielo scende sulla terra, nei fiori e nella luce primitiva. Il mondo rivive, rinasce la sua gioventù, un istante sopita. Nell’aria si respira amore.

Le due sorelle minori hanno chiesto a Donna Regina un colloquio particolare ed essa lo ha accordato; era tempo che le tre sorelle non si vedevano, l’una fuggendo le altre, mettendo la mestizia e il duolo nella loro casa, lo scompiglio tra i famigliari. Donna Regina è nella grande sala baronale, dove in antico si teneva corte di giustizia; è splendidamente vestita; ha indosso i gioielli magnifici di casa Toraldo, ha daccanto, sovra un cuscino, la corona ingemmata di zaffiri, di rubini e di smeraldi, lo scettro baronale; sul volto un’austerità calma, quasi decisa.

Entrano Donnalbina e Donna Romita. Sono vestite di bruno, senza ornamenti. La gaia giovinezza di Donnalbina è svanita, è svanito il suo soave sorriso, è perduta la sua bionda bellezza. Donna Romita china il capo, abbattuta; ancora non ha avuto il tempo di esser giovane e già si sente irresistibilmente attirata dalla morte. Esse s’inchinano a Donna Regina ed ella rende loro il saluto.

— Parlate anche per me, Donnalbina — mormora a bassa voce Donna Romita.

— Veniamo a dirvi, sorella nostra — prende a dire Donnalbina — che dobbiamo dividerci.

Regina non trasalisce, non batte palpebra, aspetta.

— È mia intenzione, è intenzione di Donna Romita, dare una metà della nostra dote ai poveri e l’altra parte dedicarla alla fondazione di un monastero, dove prenderemo il velo.

— Ogni monaca di casa Toraldo ha diritto di diventare badessa nel monastero che ha fondato — rispose Regina con tono severo.

— Sia pure. Attendiamo le vostre risoluzioni, sorella.

Ella non rispose. Pensava, raccolta in sè stessa.

— Siateci generosa del vostro consenso, Donna Regina. Troppo vi offendiamo, è vero…

— Desistete — fece quella con un moto di fastidio.

— Non desistiamo, no — riprese Donnalbina, affannandosi. — Dio e voi offendemmo. Grave il peccato, grave l’espiazione. Ecco, ancora non giunsero per noi i venti anni e noi abbandoniamo questo mondo così bello, così ridente; noi lasciamo la nostra casa, le nostre dolci amiche, e care abitudini; lasciamo voi, sorella amata, per quanto offesa. Il chiostro ne aspetta. A voi l’onore di conservare il nostro nome, a voi le liete nozze, l’amore dello sposo, il bacio dei figliuoli…

E la voce di Donnalbina si affievolì come quella di una morente.

— Voi v’ingannate, o sorella — rispose Donna Regina lentamente. — È da tempo che ho deciso prendere il velo in un convento da me fondato.

Un silenzio tristissimo segue le infauste parole.

— Io non posso sposare Filippo Capace — riprese ella, mentre una vampa di sdegno le correva al viso. — Egli mi odia.

— Ahimè! io gli sono indifferente — mormorò Donnalbina.

— Io anelo al chiostro. Egli mi ama — pronunziò con voce rotta Donna Romita.

E le due sorelle baciarono Donna Regina sulla guancia e ne furono baciate.

— Addio, sorella mia.

— Addio, sorella mia.

— Addio, sorelle.

Donna Regina si alzò, prese lo scettro d’ebano torchiato d’oro, e lo franse in due pezzi. E rivolgendosi al ritratto dell’ultimo barone Toraldo, gli disse inchinandolo:

— Salute, padre mio. La vostra nobile casa è morta!

Non hanno parole le brune volte dei monasteri, la pallida luce dei cerei trasparenti, il profumo eccessivo e pesante dell’incenso, la profonda voce dell’organo, le bigie pietre sepolcrali; non han parola le fredde celle, il nudo e duro letto dove è scarso il sonno, il cilicio sanguinoso, le pagine distrutte dalle lagrime, i crocefissi distrutti dai baci; non han parola i volti ingialliti, gli occhi cerchiati di nero, i corpi consunti, ma rianimati sempre da una fiamma rinascente; non han parola le convulsioni spasmodiche, le allucinazioni, le estasi dolorose. Altrimenti storie meravigliose e drammatiche sarebbero narrate al mondo; altrimenti noi sapremmo tutta la vita delle tre sorelle; altrimenti noi sapremmo il giorno che finì la loro tortura.

Ma il giorno, che importa? Sappiamo noi se dopo non si ami ancora? Finisce, forse, l’amore? Noi non possiamo, non possiamo segnare il suo ultimo giorno, nè la sua ultima parola.

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