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La leggenda dell’amore
Il mare Il palazzo dogn’Anna

La leggenda dell'amore



In questo pomeriggio lungo di luglio un grande silenzio regna intorno; nelle vie abbruciate dal sole non passa alcuno; ed i cittadini dormono nel pesante assopimento dell’estate; vicino, sotto la finestra, in un tegame dove bolle lo strutto, scoppiettano e friggono certi peperoncini verdi ed arrabbiati; lontano, in una via trasversale, un organino suona un waltzer languido e malinconico; un moscone sussurra e dà di testa contro i vetri più alti della finestra socchiusa. Noi siamo tristi, ed il sangue che monta al capo, ci dà la vertigine: noi abbiamo l’anima di piombo e la bocca amara; noi abbiamo il desiderio dell’ ombra profonda e delle bevande ghiacciate — perchè invero ci è intorno la violenza di una passione secca e rude, perchè ci sembra assistere allo spasimo e udire i singhiozzi convulsi della natura che muore nell’amore del sole. Le vie sono bianche, polverose e fulgide; le case gialle, rosse e bianche rifulgono; i colli sono splendidi di luce; il mare brilla tutto come un migliaio di specchi; sulla punta del cratere qualche cosa abbrucia e fuma ed il cielo è cupo nella sua serenità. Tutto è luce vivida, tutto è intensità di colore, ogni cosa si condensa; pare che si debbano spaccar le pietre, che le case debbano sbuzzar fuori, che le colline vogliano slanciarsi al cielo, che il mare voglia cangiarsi in metallo liquefatto e che la montagna voglia eruttare lave di fuoco — e tutto rimane immobile, tetro e grave. È per l’amore: voi certamente sapete che tutte le cose in Napoli, dalle pietre al cielo, sono innamorate.

Non conoscete la storiella dei quattro fratelli? Io ve la narrerò. Una volta, allora, allora, nel tempo dei tempi, v’erano quattro fratelli che s’amavano di cordialissimo amore e non si staccavano mai l’uno dall’altro. Erano belli, giovani, freschi, aitanti nella persona e sulle giovani teste ben s’addicevano le ghirlande di rose. Ognun di loro arse in segreto per una fanciulla, nè se ne confidarono il nome; ma la sorte malaugurata riunì tutti gli amori dei quattro fratelli in una donna sola. Ella nessuno di quelli voleva amare. Asperrima guerra sarebbe sorta tra loro e sangue fraterno sarebbe stato sparso, se una notte la loro bella non fosse sparita per sempre. Ma essi, pazienti ed innamorati, l’aspettano da migliaia di anni: sono cangiati in quattro colli ameni e fioriti che dal loro nome si chiamano Poggioreale, di Capodimonte, di San Martino, del Vomero — e l’uno accanto all’altro, immobilmente innamorati, aspettano il ritorno di colei che amano. Fioriscono le primavere sul loro capo, s’infiamma l’estate, piange l’autunno, s’incupisce la nera stagione; ed i poggi non si stancano d’aspettare. Ma l’amore della bella assente è scarso al confronto dell’amore per una bella sempre presente e crudele. La sapete voi la seconda storiella? Vi fu una volta un giovanetto leggiadro e gentile, nel cui volto si accoppiava il gaio sorriso dell’anima innocente al malinconico riflesso di un cuore sensibile; egli era nel medesimo tempo festevole senza chiasso e serio senza durezza. Chi lo vedeva lo amava; e la gente accorreva a lui come ad amico, per allietarsi della sua compagnia. Ma il bel giovanetto fu molto infelice, molto infelice; gli entrò nell’anima un amore ardente, la cui fiamma, che saliva al cielo, non valse ad incendere il cuore della donna che egli amava. Era costei una donna di campagna, cui era stato dato in dono la bellezza del corpo, ma a cui era stata negata quella dell’anima: ella era una di quelle donne incantatrici, fredde e sprezzose che non possono nè godere, nè soffrire. Paiono fatte di pietra, di una pietra levigata, dura e glaciale; vanno in pezzi ma non si ammolliscono; cadono fulminate ma non muoiono. Tale era Nisida, colei che fu invano amata dal giovanetto, poiché nulla valse a vincerla. Allora lui che si chiamava Posillipo, amando invano la bella donna che viveva di faccia a lui, per sfuggire a quella vista che era il suo tormento e la sua seduzione, decise di precipitarsi nel mare e finire così la sua misera vita. Decisero però diversamente i Fati e rimasto a mezz’acqua il bel giovanetto, vollero lui mutato in poggio che si bagna nel mare e lei in uno scoglio che gli è dirimpetto: lui poggio bellissimo dove accorrono le gioconde brigate, in lui dilettandosi, lei destinata ad albergare gli omicidi ed i ladri che gli uomini condannano alla eterna prigionia — così eterno il premio, così eterno il castigo.

E vi è anche l’amore che è un prodigioso abbagliamento, un miraggio fatale, l’acciecamento di colui che, ardito e folle, ha voluto fissare il sole. Era un pescatore abile e fortunato, colui di cui vi narro, e l’intiero suo giorno passava fra l’amo e le reti, lieto quando la pesca era abbondante, incollerito quando la tempesta che intorbida le acque, rendeva inefficace le sue fatiche. Era uomo semplice e buono, silenzioso ed ignorante d’amore: quando un giorno, mentre sedeva a riva ed immergeva l’amo nell’onda, dalle glauche acque, dinanzi a lui sorse una Ninfa marina, dal corpo bianco e provocante, dai lunghi e biondi capelli che il vento sollevava, dallo sguardo verde e terso come il cristallo; ella cantava soavemente e le sue candide dita volavano sulla cetra. Era così lusinghiero, così attraente il suo canto che il povero pescatore sentì struggersi il cuore e non avendo che l’ardente desiderio di raggiungere la sirena e morire in un supremo abbraccio, precipitò nel mare. Tre volte venne a galla, tre volte scomparve nel mare — e lui fortunato se potette con la morte pagare così infinito godimento. Il sito dove egli precipitò fu chiamato Mergellina dal suo nome e dicesi ancora, nelle fosforescenti notti d’estate, vi ricompaia la sirena.

V’è poi la pietosa istoria dell’amore felice che è combattuto e vinto dalla morte: una storiella ingenua come tutte le altre. Vi si narra di un ricco signore chiamato Sebeto, che abitava in una campagna presso Napoli, in un palazzo tutto di marmo. Egli per amore aveva menato in moglie una donna chiamata Megara che lo ricambiava con egual tenerezza. Egli teneva cara questa sua moglie sopra tutte le cose e profondeva per lei tutte le sue ricchezze: accadde che in un giorno ella volle andare a diporto sopra una feluca pel golfo di Napoli. Verso la riva Platamonia, dove il mare è sempre tempestoso, mentre i marinari volevano far forza contro il vento, la feluca si capovolse e Megera si annegò diventando uno scoglio. Alla orribile nuova Sebeto sentì spezzarsi il cuore e per molto, tempo si sciolse in amarissime lagrime in modo che tutta la sua vita si disfece in acqua, correndo a gettarsi nel mare dove Megera era morta.

E tutte le fontane di Napoli sono lagrime: quella di Monteoliveto è formata dalle lagrime di una pia monachella che pianse senza fine sulla Passione di Gesù; quella dei Serpi sono le lagrime di Belloccia, una serva fedele innamorata del suo signore; quella degli Specchi è fatta delle lagrime di Corbussone, cuoco di palazzo e folle di amore per la regina cui cucinava gli intingoli; quella del Leone è il pianto di un principe napoletano, cui unico e buon amico era rimasto un leone che gli morì miseramente; e quella di fontana Medina sono le lagrime di Nettuno, innamorato di una bella statua cui non arrivò a dar vita. Ma la passione è nell’ultima storiella che ascolterete. Vi si parla di un nobile signore, appartenente ad uno dei primi seggi della città, e che s’innamorò perdutamente di una fanciulla di casa nemica; era il cavaliere di carattere violento, di temperamento focoso, pronto al risentimento ed all’ira. Pure, per ottenere la donna che amava, sarebbe diventato umile come un poverello cui manca il pane. Ma l’amore dei due giovani, anziché diminuire e lenire le collere di parte, valse a rinfocolarle — e per preghiere ed intercessioni che venissero fatte, la nobile famiglia Capri non volle accettare il matrimonio. Anzi per trovar rimedio all’amore dei due, fu deciso imbarcare la fanciulla sopra una feluca e mandarla in estranea contrada. Ma essa che si sentiva strappar l’anima, allontanandosi dal suo bene, come fu fuori del porto, inginocchiatasi e pronunciata una breve preghiera, si slanciò nell’onde, donde uscì isola azzurra e verdeggiante. Ma non si chetava l’amore nel cuore del nobile Vesuvio, quale era il nome del cavaliere e la collera gli bolliva in corpo: quando seppe della nuova crudele, cominciò a gittar caldi sospiri e lagrime di fuoco, segno della interna passione che lo agitava; e tanto si gonfiò che divenne un monte nelle cui viscere arde un fuoco eterno d’amore. Così egli è dirimpetto alla sua bella Capri e non può raggiungerla e freme d’amore e lampeggia e s’incorona di fumo e il fuoco trabocca in lava corruscante…

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O anime trafitte, o anime sconsolate, o voi che per l’amore portate nel cuore sette spade di dolore, non vi sorrida la speranza di guarirvi qui. Qui amano anche le pietre: gli uomini sani s’ammalano d’amore e gli infermi ne muoiono.

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