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Leggenda dell’avvenire
Leggenda di Capodimonte

Leggenda dell’avvenire


Tu, buona e baldanzosa fanciulla, giunta al termine delle mie fantastiche storie, sorridi. Ed io, poveretto autore, condannato a leggere nel volto del suo lettore presente o ad indovinare l’animo del lettore assente, cerco di spiegare che significhi il lampo del tuo occhio nero e l’arco ironico del tuo labbro rosso come il fiore del granato. E quasi o mia bella ed impenetrabile sfinge, dal viso puro e colorito come il granito di quelle statue, quasi comprendo il senso del tuo riso muto ed intelligente. Le fantastiche, istorie dove tanta parte della vita napoletana si riflette, non t’hanno spaventata; e se il tuo spirito è corso dietro all'inafferrabile fantasma, al folletto piccolino, tu non ne hai avuto paura. Queste storielle sono antiche, alcune antichissime, appartengono al lontanissimo passato che non ritorna più; furono vita e morirono; furono dramma umano e sono parole vane, tradizione oscura e scorretta. Rimane di esse talvolta un quadro, una statua, una chiesa, una tomba, un bosco, talvolta una semplice idea, talvolta un, semplice nome, ma è il passato. Tu, orgogliosa giovinetta sorridi nel presente, sorridi all'avvenire, non puoi volgerti indietro, guardi innanzi, dove è la tua bella realtà di luce e di profumi. Tu leggi le storie del passato, ma le sirene, i cavalieri, le dame, i monaci, i grassi borghesi, i pallidi poeti non ti destano che un sorriso di pietà; essi sono morti e vive Napoli bella ed immortale, vive la gioventù gioconda, vive il glauco mare, vivono i ridenti poggi. Immenso si svolge l'avvenire. Lo so. Ma pel sarcastico sorriso con cui tu ti burli delle mie care larve, evocate dalla tradizione o dalla fantasia popolare, io voglio castigarti, cattiva fanciulla. Io voglio far un'opera crudele e disonesta: voglio, narrandoti la fiammeggiante leggenda dell'avvenire, distruggere il tuo mordente sorriso, farti impallidire le guance e farti fremere ogni fibra del corpo, ogni piega dell'anima, pel raccapriccio e per l'orrore.

Oggi la città è bella perché così Iddio la volle, mentre poco la vogliono così gli uomini. Ma quando nella morbida e indolente natura dell'uomo sarà entrata quella vivacità attiva ed operosa che non si perde in vuoto cicaleccio, in vaghe aspirazioni ed in sogni grandiosi; quando alla lenta coscienza che si addorme volentieri nell'ammirazione sarà subentrata l'operosa coscienza che tenta vie migliori e di niuna s'appaga e cerca raggiungere l'alto scopo con ogni sforzo; quando alla fantasia che crea, alla mente che trova, alla intelligenza che indovina, non rimarrà più disubbidiente ed inerte il braccio che opera; quando accanto all’artista che sogna, sorgerà il popolo che intende, il borghese che pensa e l’aristocratico che sente: allora solamente la città sarà stupenda. Ora ella s’adorna di fiori, ma è povera; ora ella sorride, ma appena appena il lacero vestito che fu di porpora, copre le belle membra; ora ella è gaia, ma spera solo dalle pioggie benefiche il lavacro che terge le sue strade nere e sporche; ora balla e canta sulle sue sponde odorose, dove il mare accompagna le sue danze e le sue canzoni, ma nel suo porto non accorrono ancora le navi dai gonfi fianchi carichi di mercanzie; ora biancheggiano le ville di cui s’adornano i suoi colli, ma non sale ancora al cielo, incenso gradito, il fumo grigio dei mille opificii. Che importa! Questo giorno verrà ed allora la città sarà santa. Pensa, o poetica amica, al felice connubio dell’arte con la natura, pensa alla celeste armonia fra l’uomo che crea ed il mondo da lui creato, pensa alla città che sarà bella e buona, tutta bianca e colorita dal sole, senza macchie, senza cenci: oh, allora, allora! O lontano avvenire, o giorno splendido che come quello di Faust meriteresti di essere fermato…

Ma la divina città che amiamo deve morire; la crediamo immortale ed è sacrata alla morte; la crediamo eterna e la sua vita è tenue come quella di un bambino. Deve morire, morrà; si dovrà dire al viandante pensoso e malinconico: qui fu Napoli. Tutto le potremo dare: il lavoro che la nobiliti, il commercio che l’arricchisca, l’acqua che la lavi, il sole che penetri nelle larghe vie, ma non la sottrarremo alla morte. Sarà ninfa ridente, azzurra, rosea, bionda di sole, piena di gioventù, fremente di vita, ma sarà morente. Lo dice la profetica leggenda, ripetuta di bocca in bocca, che circola nelle vie, che entra nelle botteghe, che sale nei salotti della nobiltà. Verrà il novissimo giorno. Vedi tu quella montagna ai cui piedi si stendono i bei villaggi bagnati dal mare, sui cui fianchi verdi cresce la vigna del vino generoso; vedi quella montagna striata da lugubri fasce nere? È lei che farà morire Napoli: così dice la leggenda profetica. Arde il fuoco liquido, bolle e schiuma nei fianchi della montagna e si accumula da secoli pel giorno funesto; di fuori appena una nuvoletta di fumo bianco ed innocente rivela il profondo lavorio. Correvano le bighe e le quadrighe per le vie di Pompeja la bella. Amavano al sole i leggiadri garzoni dalle tuniche bianche e le fanciulle dai candidi pallii, si vestivano di bisso e si profumavano di nardo le seducenti etere, correvano giovani e vecchi al foro, alle terme, ai teatri, sulle porte delle case erano sospese corone di rose olezzanti: la montagna volle e Pompeja morì. Quando la montagna vorrà, Napoli sarà distrutta: e il terribile e bel vicino che noi guardiamo con ammirazione e quasi con affetto, poichè egli è tanta parte della bellezza napoletana, sarà il carnefice.

E nessuno ne saprà l’ora, nè il giorno. Nella città la gente tumultuosa andrà ai consueti uffici, correrà dove il piacere la chiama, dove la chiama il dolore, amerà, odierà, godrà, piangerà, vivrà insomma come se nulla fosse. Nel cielo sereno brilleranno le stelle; nell’aria calma s’eleverà la sottile penna di fumo. Poi, sul cratere, comparirà un punto rosso, come un lumicino acceso lassù, come un carboncino; i napoletani si stringeranno nelle spalle e mormoreranno: solite storie. L’eruzione crescerà con molta lentezza e gli uomini di scienza d’allora ne constateranno i fenomeni e ne annunzieranno la prossima fine; ma l’eruzione crescerà sempre, continuamente. Un rombo sotterraneo comincerà a far tremare i vetri delle case; tre strisce vivide di lava scorreranno lungo i fianchi della montagna; il cielo cupo si tingerà di rosso, il fondo del mare sarà rosso; giungeranno i forestieri a contemplare il mirabile spettacolo, i napoletani si affolleranno sul molo, a S. Lucia, a Mergellina, sui terrazzi, sulle colline, compresi di ammirazione. Ma dai villaggi che sono sotto il monte principierà a fuggire la gente spaurita e si riverserà nella città, dove sarà accolta a braccia aperte — e la lava procederà sempre. Nuove bocche si apriranno. La lava è a Resina.

Ma i napoletani non temono: il Vesuvio è loro vecchio amico, vuole scherzare, è un brontolone, ma presto tacerà. Poi vi è S. Gennaro che con le dita sollevate in atto d’imperio, comanda alla lava di non avanzarsi; le donne pregano il parroco della cattedrale a portare in piazza San Gennaro di argento o il prezioso suo sangue che è conservato nelle ampolline. In qualche chiesetta si prega. Una mattina il sole non viene fuori, una fitta nube grigia nasconde il cielo, piove cenere; i napoletani sorridono ancora e vanno ai loro affari sotto quella strana pioggia. Ma il giorno seguente il rombo diviene tumultuoso, le scosse di terremoto si succedono l’una all’altra, orribili convulsioni squassano il monte, sui cui fianchi s’aprono dappertutto bocche di fuoco, le lave si uniscono, si fondono, sono una lava sola, è una montagna di lava che cammina verso la città coi suoi ruscelli di fuoco; soffocanti fetori di zolfo ammorbano l’aria, piove cenere calda e pesante, acqua bollente, piovono lapilli infuocati sulla città: riuniti al grande vulcano corrispondono con pauroso miracolo ridestati, le eruzioni dei monte Echia, dell’Epomeo e di Pozzuoli. Piove la morte. Nel clamore disperato dei morenti, nel fragore delle case che crollano, nel tuono del terremoto, nella spaventosa tempesta del mare che si rizza incollerito o ribelle, nel bagliore sanguigno che appena rischiara le cupe tenebre, in uno sconquasso che capovolge la natura e le cose, la lava vittoriosa entra in Napoli e Napoli finisce di morire in un incendio colossale.

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E che? Tu sorridi ancora, orgogliosa creatura? Ti comprendo: leggo nel tuo pensiero come in un libro dalle pagine aperte. Tu pensi quello che io penso; tu sorridi a quella morte; questa Napoli che fu creata dall’amore, che visse nella passione della luce, dei colori smaglianti, dei profumi violenti, delle notti innamorate, visse nel lusso grandioso della natura e nella espansione superba del sentimento, questa città appassionata morirà bene, morirà degnamente nell’altissima e fiammeggiante apoteosi di un oceano di fuoco.

fine.

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