< Leila
Questo testo è stato riletto e controllato.
Capitolo III. Trame
Capitolo II Capitolo IV



CAPITOLO TERZO.


Trame.



I.



Don Tita Fantuzzo, arciprete di Velo d’Astico, detta la messa, come di solito, alle sette e mezzo e pregato in sagrestia lungamente, raggiunse, sulla scala che dalla chiesa mette alla canonica, sua cognata, la signora Bettina Pagan, vedova Fantuzzo, e il cappellano, don Emanuele Costi de Villata, che scendevano insieme e non insieme, il cappellano precedendo di alcuni gradini con un passo trattenuto dal senso della persona che seguiva, la siora Bettina venendogli dietro con un passo trattenuto dall’ossequio verso la persona che precedeva e anche un poco dal senso della sua propria retroguardia.

«Per cossa andeu in fila come i cavai de carretta?» disse il gioviale arciprete alle spalle della cognata:

Se casco mi
Caschemo tuti tri.

Versi de Zanella!»

Sotto la veletta nera della siora Bettina il naso vermiglio si colorò di più vivo cinabro e un lieve sorriso passò negli occhi acquosi di don Emanuele, in segno piuttosto di rispetto che di stima per l’umorismo dell’autorità.

«Cape!» mormorò la siora Bettina. Questa sua familiare apostrofe a popolari crostacei marini significava una dolce difesa, la debita riverenza che le aveva impedito di camminare a fianco del cappellano. Il cappellano non fiatò. Alla porta della canonica egli si fece da banda a destra, la siora Bettina si fece da banda a sinistra, e l’arciprete, affrettata l’andatura, «son qua, son qua», passò trionfalmente, con grandi sventolate di tonaca. Nessuno dei tre udì, per fortuna, due liberi parlatori dire fra loro venendo dal Municipio verso la strada di Seghe:

«Quelo, ciò, xe un terno!»

«Ciò, el Padre, el Figlio e la Spirita Santa.»

Il terno si raccolse nel salottino da pranzo della canonica, dov’era preparato il caffè per l’arciprete e per la siora Bettina che si accostava ogni giorno alla Comunione. Don Emanuele aveva celebrato alle cinque; chiese licenza di ritirarsi a studiare. L’arciprete lo trattenne:

«No studiè tanto, ca diventarè mato» diss’egli.

L’altro, buon simulatore, finse di rimanere per pura compiacenza, mentre rimaneva per segreti accordi col superiore; e si mise a parlare di certo malato grave, visitato da lui quella mattina stessa. Intanto l’arciprete prendeva il caffè e latte in una miserabile scodella slabbrata, intingendovi poveri avanzi di pane del giorno prima; e la siora Bettina lo prendeva in una scodella simile ma con i celebrati «pandoli» di Schio.

«Me vergogno, don Tita, de sti pandoli» diss’ella, nell’accostarne uno alle labbra.

«Vergognève pure» rispose l’ottimo don Tita, ridendo. «El xe un bon sentimento,» e perchè ella esitava, rossa e silenziosa, a mordere la punta del «pandolo», riprese, ridendo tuttavia: «Andè là, andè là! No sì dal Dolo, vu? No xelo pan del Dolo, quelo?»

«Povero il mio Dolo!» disse la siora Bettina, rivolgendosi in italiano a don Emanuele con un sorriso. «Cosa Le pare? Il signor arciprete non me lo perdona!»

«Il signor arciprete non perdona neppure Udine a me» rispose il cappellano, sorridendo anche lui.

«Grazie tante!» esclamò don Tita. «Udine! Fontane senz’acqua e nobiltà senza creanza!»

Don Emanuele era udinese e nobile; ma don Tita scherzava. Il viso, la persona, i modi, il linguaggio, tutto diceva, nel giovine cappellano, la nobiltà del sangue e la squisitezza dell’educazione. Egli era, quanto all’esteriore, il contrapposto di don Tita. Don Tita, aitante della persona, rubicondo, ilare la faccia, grossa come le sue facezie, lucente gli occhi, malgrado una pietà sincera, di astuzia terrestre più che di desiderii celestiali, era trascurato assai nel vestire, sprezzatore, quanto a pulizia, degli scrupoli, bonario e semplice di modi, talvolta rude. Nel giovine don Emanuele, alto e smilzo, si vedeva il virgulto prelatizio. La faccia era di asceta: fronte alta sotto un sottile arco perfetto di capelli biondastri; gote magre; occhiaie molto cave, ombrate di folti sopraccigli; occhi cerulei chiari, dalle pupille misteriose, annacquati, nelle iridi, di mansuetudine, aperti alla luce e chiusi sull’anima come finestre dipinte. Nel portamento, nel gesto, era una precoce dignità, un senso precoce della misura. E così nel linguaggio tutto era studio e cautela. Parlava sommesso, con voce fredda, un po’ nasale. Aveva l’erre aristocratico. Si diceva che da giovinetto si fosse proposto di entrare in un Ordine religioso e che il suo vescovo ne lo avesse distolto, non si sapeva perchè. Dicevano pure che la famiglia lo desiderasse a Roma, in Curia, e che fosse stata sua ferma volontà di dedicarsi prima, almeno per qualche tempo, alla cura d’anime, lontano dai suoi, in un’altra diocesi. Nella persona interiore don Tita e don Emanuele erano pure dissimili, ma non quanto nell’esterna. Don Tita era più complicato. Lo spirito di don Tita si sarebbe potuto paragonare alla sua faccia ilare, dove i muscoli pieghevoli e l’adipe molle celavano l’intima durezza del teschio; oppure, meno lugubremente, a un campo verde e fiorito dove, a un palmo sotterra, trovi la roccia; oppure a certe piccole morbide pesche di montagna, dove, se metti il dente, incontri subito un nocciuolo invincibile. Tutto molle e tepido, alla superficie, di bonarietà, di condiscendenze verbali, di facili piacevolezze, egli aveva un nocciuolo freddo e duro di coscienza religiosa irrigidita nella forma impressale da maestri antiquati, dominata dai doveri di carattere intellettuale, dallo zelo per la tradizione, per la lettera della Legge, per l’autorità della Gerarchia. Era una coscienza convinta, fusa colla volontà di compiere il dovere religioso dappertutto e sempre, a qualunque patto. Ma il religioso dovere di carità verso il prossimo non coincideva in lui cogl’impulsi del sentimento, gli era impero di un’austera legge esterna piuttosto che impero di una legge scritta nel suo cuore e sancita da Cristo. Larghissimo, in omaggio al Vangelo, di elemosine, non amava nè stimava i poveri. I peccati più gravi e scandalosi dei suoi parrocchiani, sopra tutto le pubbliche mancanze di rispetto alle vesti sacerdotali, più che non lo affliggessero, lo irritavano, gli facevano pruder le mani, ch’eran pesanti, e non affatto inesperte di arte oratoria. Quanto ai costumi, era di una purezza scrupolosa, quasi ombrosa. Uomo di molte preghiere, disprezzava la religiosità mistica, che gli pareva sentimentalismo umano. Nei Santi e nei libri dei Santi, no; ma i Santi erano per lui esseri speciali, erano uomini nati coll’aureola per effetto della canonizzazione decretata loro dopo la morte. Aveva una sufficiente cultura teologica e non era interamente digiuno di cultura letteraria. Era stato professore di latino e greco in Seminario, benchè di greco non sapesse. Non leggeva che giornali, riviste e libri cattolici. Per conto di lui non entravano in canonica che stampe italiane, mentre per conto di don Emanuele vi entravano le Stimmen aus Maria Laach e altre pubblicazioni straniere, sopra tutto tedesche. Questo non era pane per i denti dell’eccellente don Tita, era pane che gli metteva un’ammirazione mal celata per i denti del cappellano. Ammirazione e non invidia; perchè poi don Tita non era un ambizioso, si accontentava della sua sorte, desiderava forse una parrocchia di città per uscire dalle montagne, che gli pesavano sullo stomaco, e per ritrovarsi con vecchi colleghi e amici, non guardava più in là. Pensava invece che don Emanuele, nipote di un Cardinale, figlio di un cameriere segreto di Sua Santità, fratello di una guardia nobile fosse destinato a salire chi sa quanto. Se l’umile cappellano di Riese era diventato Pontefice, perchè non lo diventerebbe un cappellano favorito dalla fortuna come don Emanuele? Il suo contegno verso costui non era facilmente definibile. Ne aveva soggezione, in fondo, e la dissimulava con giocose familiarità. Ne subiva l’ascendente, non si sentiva, con lui, interamente a suo agio. Lo reputava una cima perchè sapeva il tedesco. Era tuttavia convinto di predicar meglio di lui. Si compiaceva, nel suo amor proprio, di averlo per cappellano; e tante volte gli veniva in mente, mal suo grado, che, partito don Emanuele, in canonica si respirerebbe meglio.

Don Tita avrebbe respirato meglio, forse perchè don Emanuele non parlava il dialetto, aveva modi aristocratici figurava la negazione vivente della giovialità. Erano ambedue, in sostanza, dello stesso minerale; ma l’arciprete arciprete andava raschiato forte prima di trovarvi la roccia elementare, mentre invece il cappellano era un levigato monolito. Tuttochè conoscesse assai bene il diabolico tedesco, don Emanuele non arrivava l’arciprete d’ingegno. Figlio di una gentildonna austriaca, aveva imparato il francese e l’inglese dalle bonnese dalle istitutrici delle sue sorelle. Si diceva che negli studi teologici avesse zoppicato alquanto, pur essendo uno sgobbone. Però i lunghi soggiorni fatti a Roma presso lo zio Cardinale, uomo d’ingegno, molto socievole, ricco di amicizie, gli erano giovati come a certi biscotti insipidi un lungo bagno nel bordeaux. Questo gran zio, il Nume della famiglia, era stato un sole per l’asteroide nipote, ne aveva attratto il corso al proprio cielo, senza volerlo, senza saperlo, fin da quando l’asteroide studiava grammatica. Vero che questi mostrava nel carattere, e anche nel viso, singolari predisposizioni all’alta prelatura. A dieci anni era già un omino educato ai modi della migliore società, alieno da ogni giuoco e dalle amicizie, ordinato, rispettoso, assennatino nel raro discorrere, misurato nella espressione degli affetti ai parenti secondo il grado della parentela, devoto, chiuso. Sua madre, la sorella del Cardinale, molto pia, era insieme contenta e malcontenta di questo figliuolo. Le era dolcezza di conoscerlo sinceramente religioso e inquietudine di non conoscerne che questo. Il Cardinale non era mai stato così, aveva un carattere aperto. Il piccolo Emanuele, fra i sei e gli otto anni, a chi gli domandava cosa avrebbe fatto da uomo, soleva rispondere: «il Vescovo»; fra gli otto e i dodici «il sacerdote»; fra i dodici e i quattordici «non so, non so», ostinatamente, cogli occhi a terra. Allora la risposta sincera sarebbe stata «il Cardinale». Non era tuttavia nè un ipocrita nè un conscio ambizioso. Chiamato a servire la Chiesa si sentiva veramente; e si era persuaso, ragionando con sè stesso, che la nascita e le aderenze lo predisponessero provvidenzialmente a salire in dignità e in potenza per il servizio della Chiesa, che questo sentimento superiore gli santificasse i desiderii ambiziosi, dei quali sul principio aveva intesa in sè qualche voce, e provato quindi qualche scrupolo. Un po’ alla volta essi gli si erano talmente avviluppati dentro il mantello del desiderio santo, da nascondersi del tutto alla sua coscienza. Il mantello era molto ampio e pesante. Lo zelo religioso di don Emanuele non era meno sincero dello zelo religioso di don Aurelio, le sue convinzioni religiose non erano meno profonde, la sua vita e il suo pensiero non erano meno puri, meno immuni da qualsiasi macchia di concessioni a concupiscenze. Era invece diverso il suo concetto di Dio e, sopra tutto, era diverso il suo concetto della Chiesa. La paternità di Dio era per lui piuttosto una formola creduta che una verità sentita e cara. Le sue labbra lo chiamavano Padre mentre il suo cuore lo sentiva monarca. Il nonno di don Emanuele era stato un imperioso, formidabile monarca della nobile famiglia, che governava imponendole il suo austero ascetismo e un timore di Dio non riuscito ben distinto, nei figli e nei nipoti, dal timore di lui. Invece il padre, assai poco intelligente, era mite e debole. Nella testa di don Emanuele l’idea di Dio aveva preso forma dall’impero e dalla pietà del nonno. Il suo Dio era una specie di Nonno infinito, santo e terribile. E la Chiesa per lui, era la sola Gerarchia, era un po’ la casa del nonno, dove preti e frati venivano sempre accolti come esseri celesti, superiori all’umanità.

Come veramente don Emanuele fosse capitato da Udine a fare il cappellano in Velo d’Astico, il solo arciprete, in Velo d’Astico, lo sapeva. Era stato volere del Cardinale che suo nipote, prima ancora di venire ordinato sacerdote, conoscesse di doversi dedicare, per desiderio dello zio, non alla carriera prelatizia ma bensì alla cura d’anime, lontano dai suoi parenti, dalle sue aderenze aristocratiche, in una diocesi dove il suo nome fosse affatto sconosciuto. L’arciprete lo aveva saputo dal Vescovo di Vicenza. Don Emanuele non gliene aveva detto niente, non parlava mai, nè di sè, nè della sua famiglia, nè dei suoi piani di avvenire. Non parlava volontieri neppure del Cardinale. L’arciprete, che sulle prime si era ingegnato di spillargli tante cose di questo Cardinale, finì con persuadersi che il nipote non avesse per lo zio tanta simpatia quanta riverenza; e non gli parlò più dell’Eminentissimo che a Natale, a Capodanno, a Pasqua e la vigilia di San Giovanni, giorno onomastico di Sua Eminenza, per dirgli: «Ohe, don Emanuele, scrivendo a Roma, semo intesi, se credì, umilmente». O anche solo: «Ohe, scrivendo...» E allora compieva la frase con un riverente piegar del capo e del busto e un ossequente spiegar delle mani.


II.



«Madre Santa, cosa dice mai!» esclamò la siora Bettina, molto arrossendo e guardando il cappellano all’uscita dell’arciprete sulle nobiltà di Udine. Quel montone insolente del gregge di don Tita aveva torto di appiccicare alla siora Bettina il nomignolo di Spirita Santa. Ella non intendeva ispirare nè il cognato nè don Emanuele, non attendeva che alla santificazione sua propria. Rimasta vedova a cinquantadue anni del dottor Fantuzzo, senza figliuoli, provveduta sufficientemente, aveva accettato di occupare nell’ampia canonica di Velo d’Astico, dalla fine di aprile al principio di novembre, un alloggio del quale pagava l’affitto a don Tita. Faceva cucina a parte, non prendeva con don Tita che il caffè della mattina. Nata di famiglia civile del Dolo, era fedele ad abitudini di vita un po’ diverse da quelle dell’arciprete, e gelosa, con tutto l’ossequio agli ecclesiastici, della propria indipendenza. Anche la sua ferventissima pietà aveva un fondamentale carattere d’indipendenza dal prossimo. La buona siora Bettina desiderava e pregava, per la gloria di Dio, che il prossimo buono si conservasse tale, che il prossimo cattivo si convertisse, ma poi non voleva per casa nè l’uno nè l’altro; non voleva brighe. All’anima sua ci pensava lei; gli altri dovevano pensare alla loro. Quando soccorreva i poveri la sua mano sinistra non lo sapeva, ma non lo sapeva neppure il suo cuore. Il suo cuore sapeva di prendere ipoteche su poderi celesti. E a questi patti prestava più volontieri a Domeneddio, il cognato aiutando, camici, pianete, tovaglie di altare, vasi sacri, messe, uffici funebri, che opere di carità del prossimo. Il suo cuore non era sempre stato così. Era stato nella prima giovinezza, un cuore pieno di segrete immaginazioni pericolose. Il fu dottor Fantuzzo, buon diavolo d’uomo, parecchio campagnolo, bevitore ammirato, non aveva corrisposto ai suoi sogni di fanciulla. Uscita da una famiglia religiosissima, ella si era un giorno atterrita, nella sua sincera pietà, di sentirsi tentata come non avrebbe immaginato mai. Si rifugiò in un fervido ascetismo, in tutte quelle pratiche esterne che meglio le potevano creare intorno una veste e una fama d’invulnerabilità. Aiutata da un rigido teologo, diffidente di ogni misticismo, venne così trasformando i propri focherelli terrestri in un fuoco unico, nominalmente di amor di Dio, realmente di desiderio della salute propria. Il mondo, sempre severo colle persone pie, sempre disposto a esigerne tutte le perfezioni e tutti gli eroismi, l’avrebbe facilmente bollata per egoista. Ma che sa il mondo? Un ambiente di famiglia diverso, una cultura religiosa superiore, una direzione spirituale più conforme allo spirito del Vangelo, non avrebbero atrofizzati nella siora Bettina gli affetti non pericolosi che avevano resa amabile la sua fanciullezza e l’adolescenza. Ella non somigliava per questo verso a don Tita, somigliava piuttosto al cappellano. L’allegro don Tita era proclive alle amicizie, aveva facili le comunicazioni con tutti. Don Emanuele non aveva mai avuto un solo amico; a vederlo fra la gente allegra faceva l’impressione di un corvo attonito fra un chiasso di galli e di galline. Ma don Emanuele non aveva ancora trovata la sua pace e la Fantuzzo sì. Sotto il suo spegnitoio ascetico ella non aveva tentazioni altre a temere che quella di prendere tre pandoli nel caffè e latte invece di due, quella di dire all’arciprete che smettesse di pulirsi la penna nei capelli diventati grigi, e quella di pregare il Signore che facesse morire la gatta scandalosa del calzolaio. Somigliava più a don Emanuele che a don Tita; e in fatto, senza formulare giudizi comparativi, chè ne avrebbe avuto scrupolo, sentiva per don Emanuele una riverenza, un’ammirazione che non amava esprimere, gli professava un culto interno molto acceso, mentre il suo culto esterno andava principalmente all’arciprete. Parlando dell’arciprete, la siora Bettina poteva talvolta sorridere; parlando di don Emanuele, non lo poteva.


Preso il caffè e latte, la Fantuzzo stese la mano alla veletta nera che aveva posata sulla tavola.

«Ben!» diss’ella. «Don Tita...»

Questa era la sua solita formola di congedo. Don Tita le stese incontro la mano spiegata.

«A pian! Fermi là! Savìo come i ve ciama, sta bona zente de Velo?»

«Gèstene mundi! mi no» rispose la cognata, arrossendo forte perchè lo sapeva benissimo e le pareva che ammettere di saperlo, di aver tollerato in silenzio che le si affibbiasse il titolo di Terza Persona della SS. Trinità, fosse quasi confessare una colpa.

«I ve ciama» proseguì l’arciprete «vardè che canaje!, la Spirita Santa. Xele canaje?» E diede in una bonaria risata mentre don Emanuele rimaneva impassibile.

«Un bel posto, capìo, ma ghe xe da far. Oh ghe xe da far! E ghe xe da far subito.»

«Il signor arciprete è sempre di buon umore, non è vero, don Emanuele?» disse la siora Bettina, alzandosi per andarsene. Ma il signor arciprete non intendeva affatto che se ne andasse e mise fuori una fila interminabile di «no no no» di «La favorissa, La favorissa, La favorissa.» Siccome in quel momento era entrata la fantesca per portar via il vassoio del caffè, don Tita le ordinò di andarsene.

«Lassène quieti» diss’egli. E, per maggiore cautela, passò nello studio attiguo col cappellano impassibile e colla siora Bettina, turbata dal timore di qualche briga, che fosse per capitarle addosso. Lo scherzo dell’arciprete le faceva supporre che si trattasse solamente di dare un consiglio; ma, però, anche questa era una briga. Per verità, ella non confessava a sè stessa di abborrire dalle brighe; credeva soltanto di abborrire da ogni dubbio di coscienza, e certamente ogni briga, sia di fatti sia di consigli, porta con sè qualche dubbio di coscienza. In passato il suo direttore spirituale le aveva consigliati certi libri fatti apposta per compiere molto bene, nell’anima sua, l’opera di una incipiente paralisi scrupolifera.

«Ecco qua, cara Bettina» cominciò l’arciprete. «Se no se tratasse de la gloria de Dio e del ben del prossimo, no ve incomodaressimo; vero, don Emanuele?»

Don Emanuele, che teneva gli occhi fissi sull’arciprete, come per dominarne e dirigerne la parola facile alle imprudenze, alle sconsideratezze bonarie, ebbe nello sguardo e nella persona un impulso tanto evidente di offerta, che l’arciprete lo afferrò subito.

«Volìo parlar vu?» diss’egli. «Parlè vu!»

E don Emanuele, rientrando prontamente nel suo guscio freddo di compostezza prelatizia, parlò, ben sicuro di non guastare, come l’arciprete avrebbe fatto, certa delicata macchina messa in moto, forse con poco utile del prossimo, ma indubbiamente, secondo il cappellano, per molta gloria di Dio. Egli si credeva più accorto dell’arciprete per la grammatica di finezze che aveva studiata; ma s’ingannava. L’arciprete era un accorto per natura, un accorto inconscio al quale giovavano, per i suoi fini, anche le imprudenze e le sconsideratezze del parlare. Per esso appariva semplice a chi lo conosceva poco; forse non c’era in paese nessuno che lo conoscesse molto, tranne il signor Marcello e donna Fedele, ai quali bastavano due o tre conversazioni, due o tre fatterelli, per cogliere una figura morale.

«Ecco» disse don Emanuele, «si tratta di salvare una povera figlia.»

«Ah! - Sì! - M’immagino, m’immagino» fece la siora Bettina, illuminandosi di una contentezza verniciata di compunzione. «M’immagino.»

L’argomento era spinoso e doloroso, ma la briga era piccola. La giovine sorella della sua donna di servizio era assediata da un corpo del R. Esercito e dall’anima perversa del medesimo.

«Eh lo so!» riprese sospirando. «Lo so pur troppo. L’ho saputo ieri e voleva anzi parlarne io all’arciprete.»

«Sì a tòrzio, sì a tòrzio, fiola» mormorò don Tita, volendo dire ch’ella prendeva abbaglio. E il tono della voce, sommesso, grave, significava: «si tratta di ben altro.»

«Può essere che sappia, può essere che sappia» osservò don Emanuele, mellifluo, all’arciprete. «Si tratta, signora, di quella giovine, di quella signorina che sta col signor Trento, che doveva sposare suo figlio.»

L’arciprete guardò sua cognata per vedere che viso facesse. Lo faceva molto brutto.

«Géstene, non la conosco» diss’ella.

Se sperò aver trovato un rifugio nella indicata ignoranza, la sua illusione durò poco.

«Andè là!» disse l’arciprete.

«Sarebbe meglio che la conoscesse» osservò don Emanuele, pensoso. «Non la conosce proprio niente? Proprio niente?»

«Di vista. Di vista sì» rispose la Fantuzzo, rosea. Ma don Emanuele, che la sapeva lunga, tacque come chi non è persuaso e, per discrezione, non insiste con parole, insiste col silenzio di un’attesa sicura.

«Le avrò forse parlato una volta» soggiunse la siora Bettina, scarlatta.

«Oh brava!» fece l’arciprete.

«Ma non le parlo più, non le parlo più, non le parlo più!»

Pareva inorridita, la povera Bettina. Continuava a protestare: «eh no no! eh no no!». L’arciprete esclamò infastidito: «Ma parchè? Ma parcossa?» Ella rispose che quella persona le faceva troppa soggezione, troppa soggezione. Il perchè vero era diverso. Lelia le si era, un giorno, trovata vicina in chiesa. La povera siora Bettina aveva un copricapo eteroclìto che mise di buon umore il gruppo delle villeggianti, otto o dieci signorine, una più passera dell’altra. Lelia se ne avvide, prese subito la povera Fantuzzo sotto la sua protezione. Le offerse la propria sedia, le raccattò un intero volo di Santi sfuggitole dal libro di preghiere, uscì quand' ella si mosse, trovò modo di rivolgerle, nello scender la gradinata della Chiesa, qualche parola di lode al sermone che aveva tenuto l’arciprete. Chi sa perchè, le cortesie della signorina turbarono la Fantuzzo. Parve che con una ondata di simpatia per essa le salisse in cuor anche un riflusso di quei vaghi sentimenti giovanili che l’avevano, a lor tempo, atterrita. Farsi amica della signorina, comunicare con un’anima giovane, esperta dell’amore e del mondo, riassaggiare ancora di seconda mano, dell’uno e dell’altro: ecco la tentazione di cui la siora Bettina sentì un lieve alito. Bastò perchè rientrasse in canonica con un precipizio, nella gola, di giaculatorie e di «basta basta basta!» che significavano il proposito di non avvicinare mai più quella pericolosissima persona.

«Sarebbe meglio che le parlasse» rispose don Emanuele guardando l’arciprete «ma non mi pare che sia proprio necessario.»

«No so po» fece l’arciprete. I tre monosillabi, veramente magistrali, parvero significare ch’egli non vedeva modo di giungere a un desiderato fine, se la cognata si ostinasse a non voler parlare colla signorina. In fatto un tale colloquio non era per niente nelle vedute nè dell’arciprete nè del cappellano; e la loro tattica era di preparare con arte una proposta che venisse in figura di transazione. Ma don Emanuele era corso un po’ troppo e il «no so po» dell’arciprete era stato un colpettino artistico di freno. Don Emanuele lo capì, retrocesse con un «ma!» pieno di dubbii, di rincrescimenti di mezze rinunce, di mezze esortazioni.

Siccome, poi, tacevano ambedue, la siora Bettina si sperò liberata e, avanzando la persona nell’atto di alzarsi, mise fuori un altro:

«Ben.» «Spetè, fiola» disse l’arciprete, fermandola con un gesto. E si voltò a don Emanuele:

«Tanto fa che ghe disemo tuto. Dopo la dirà ela cossa che la pol far. Ve pare?»

Don Emanuele, memore della lezioncina toccatagli un momento prima da chi avrebbe reputato scolaro e non maestro, drizzò come ventagli le due mani ferme sulle ginocchia e mormorò alla sua volta:

«Non so.»

Don Tita prese un tono deciso.

«Sì, sì, contè» diss’egli, «contè.»

Allora don Emanuele si raccolse la sottana sulle gambe con un gesto quasi femminile e disse:

«La cosa è semplice.»

Evidentemente, la cosa era complicatissima ed egli non sapeva da qual parte cominciare.

«La signorina» disse «ha vivi i suoi genitori. Il padre... sa...»

Il cappellano soffiò un lungo soffio gentile, senza gonfiar le gote, senza movere, quasi, le labbra, come se del padre ci fosse da dir bene e da dir male e, tirate le somme, il miglior consiglio paresse quello di tacerne.

«Invece» riprese «la madre...»

«Sì, la madre...» commentò don Tita in tono di basso profondo, di soddisfazione grave, e scotendo il capo a negare silenziosamente che se ne potesse dir male.

«Gesummaria, don Tita!» sussurrò sgomenta, guardando il cognato, la siora Bettina, che aveva udite, in addietro, ben altre campane.

Il cappellano la placò.

«No» diss’egli. «Ecco. In passato ci fu da dire. Certamente. Ci furono delle leggerezze. Adesso è una donna che ripara. È una donna che pensa unicamente a opere di pietà, a opere di carità, che vive a Milano una vita edificante, ch’è in relazione con ottimi sacerdoti. È divisa dal marito, sì; ma forse ci sono delle ragioni plausibili, forse ci sono dei malintesi. Dopo Dio, dopo la Chiesa, il suo pensiero è la figlia. Relazioni dirette con essa non ne può avere perchè il signor Trento, uomo di cuor duro, religioso sì e no, non permette. In questo momento trepida per la figlia. Me lo ha scritto l’altro giorno un sacerdote, un degno sacerdote che l’avvicina.»

«Gavìo la lettera?» interruppe l’arciprete. «Lezìla.»

Don Emanuele guardò il Superiore con una faccia contrita.

«Per verità» diss’egli, «è una lettera riservatissima...»

«Gnente gnente!» esclamò don Tita. «Basta basta!»

Il cappellano proseguì:

«Questo sacerdote scrive che la signora da Camin è venuta a sapere come si trovi presentemente, da parecchi giorni, in casa Trento un giovine milanese molto conosciuto a Milano, tristemente conosciuto».

«Un infelice!» mormorò l’arciprete. «Un disgraziato!»

Lo disse coll’accento pacifico di chi constata una disgrazia irrimediabile, una infelicità definitiva.

La siora Bettina prese timidamente la parola per dire che credeva di aver veduto il giovine in chiesa, la domenica precedente. Don Emanuele sospirò e tacque.

«Sì sì!» disse don Tita. «Lo gavarì visto. Va in ciesa, va in ciesa. Ma el xe pezo de quei che no ghe va. Una testa, fiola! Amigo de quell’altra bela testa del curato de Lago. El xe uno de questi che vorìa cambiar tuto nela Religion.»

La siora Bettina sibilò succhiando aria come se si fosse scottata la lingua. Don Emanuele sospirò da capo.

«Pur troppo!» diss’egli. «E la madre vive nell’ angoscia perchè teme che la figliuola possa prendere interesse a questo giovine, e che questo giovine, essendo lei una figlia vistosa, con grandi aspettazioni...

«Mancarìa altro...» esclamò don Tita «ch’el s’inzeregasse qua!»

La siora Bettina sibilò.

«Ora» riprese don Emanuele «il sacerdote che mi scrive ha potuto sapere, per una grazia, dico io, della Divina Provvidenza...»

Pausa.

«Fora fora!» esclamò don Tita. «Corajo! Ben, andarò avanti mi. Pare che ghe sia un potàcio fra el toso e una siora de Milan. Maridada, capìo»

Sibili e sibili della siora Bettina.

«E se discorea, capìo» riprese don Tita «l’altra sera, qua con don Emanuele, de cossa che se podarìa far, perchè la tosa lo savesse. Pensa e pensa, no se gà trovà gnente. Ossia se ga trovà, ieri, che non ghe saressi che vu.»

«Géstene, don Tita!»

L’accento di questa giaculatoria profana faceva pietà.

Silenzio.

«No ghin parlemo altro» disse l’arciprete. «La tosa se rovinarà e mi no ghin avarò colpa.»

La Fantuzzo, ch’era seduta presso la scrivania dell’arciprete, vi stese la mano a un libro e, trattolo a sè, parve considerarlo. Era rossa come un gambero.

«Volìo véder» esclamò don Tita «che la sa qualcossa, sta malindreta!»

La Fantuzzo protestò che non sapeva niente, ma l’arciprete non faticò molto a cavarle che la cuoca di casa Trento, amica della sua fantesca, aveva parlato a quest’ultima di novità che c’erano in casa dopo la venuta del signore di Milano, di malumori del padrone, di malumori della cameriera Teresina, di gran pianti della signorina. Una mattina la cameriera era venuta stravolta a ordinare un caffè fortissimo perchè la signorina aveva fatta la pazzia, con tutti i fiori che voleva in camera la notte, di tener chiuse le finestre e credeva di morire dal mal di capo. La cuoca aveva detto allora:

«Vuole ammazzarsi, quell’anima!» La cameriera aveva risposto colle lagrime agli occhi: «Ma!...».

«Credo» soggiunse la buona signora Bettina «che tutto sarà perchè questo giovine era tanto amico del suo fidanzato e glielo farà venire in mente.»

«Cara» disse don Tita, «vu sì una macaca.»

Intanto don Emanuele pensava con animo grato al visibile favore della Provvidenza per le mire sue e dell’arciprete. In fatto nè l’uno nè l’altro aveva mirato a fare della siora Bettina uno strumento unico e diretto della stessa Provvidenza. Molto soddisfatti di possedere un’arma contro l’amico di don Aurelio, il famigerato Alberti, avevano ideato che la siora Bettina confidasse alla sua fantesca il «potàcio» dell’Alberti colla signora maritata di Milano, nella fiducia che la fantesca, della quale conoscevano l’amicizia con quella cuoca, l’avrebbe confidato e costei e che costei l’avrebbe riferito alla cameriera. Ed ecco che la fiducia diventava certezza; il tubo ideato esisteva già, lavorava già per la condotta di segreti aeriformi dell’identica specie.

«Allora» cominciò il virgulto prelatizio con un’aria innocente «capisco che fra la Sua fantesca e la cuoca di casa Trento...»

Fu bussato all’uscio.

«Avanti!» fece il bonario don Tita.

Il cappellano ammutolì e abbassò gli occhi acquosi senza dare alcun altro segno del proprio malcontento per la interruzione consentita dal Superiore. Era proprio la serva della Fantuzzo che veniva in cerca della sua padrona. Don Tita, illuminato nello spirito da un’idea subitanea, la pregò di aspettare fuori dell’uscio; un momento, un momento solo! Andò egli stesso a chiuder l’uscio con un gran colpo che lo lasciò aperto; poi si mise a declamare, sulle facce meravigliate della siora Bettina e del cappellano:

«Sentì, cugnà, sentì, capelan. Vualtri no parlarè, ma mi ve la digo. Savìo quel toso de Milan che xe alla Montanina, che xe ligà le buele là col curato de Lago; savìo che perla ch’el xe? El se la intende, capìo, a Milan, perchè mi lo so, co una siora che ga marìo, tosi...»

«Géstene!» mormorò la siora Bettina. «Anca tosi?»

«Ciò» rispose piano don Tita «la xe maridà, ah?» E riprese a voce alta: «Speremo che nol gabia dele idee, quel berechin, su sta fiola qua che xe col vecio Trento. Se lo savesse so mama, pora dona!»

Detto questo, don Tita si alzò, disse sottovoce «fato, fato, fato» e guardando don Emanuele coll’aria di chi a un collega d’arte si mostrò maestro, avvicinossi all’uscio in punta di piedi, lo spalancò d’un colpo, gridando:

«Dove xela...? Ah, scusè!» diss’egli, perchè la donna era lì, mezzo tramortita dal colpo dell’uscio. La siora Bettina si alzò, beata della sua liberazione. Il cappellano, non interamente sicuro che l’alzata d’ingegno fosse riuscita bene, se ne stava meditabondo, quando entrò in fretta e in furia la serva dell’arciprete, che disse al suo padrone:

«Ghe sarìa la Fedele.»

Il nome insolito della Vayla era spesso scambiato, in paese, per un cognome.

L’arciprete domandò, attonito:

«Quala Fedele?»

«Eh, nol sa? Quela de Arsiero. Quela dei cavigi bianchi.»

La siora Bettina sgattaiolò via in fretta; l’arciprete chiuse gli occhi e soffiò come se gli avessero offerto un bicchiere d’olio di ricino; il cappellano mormorò: «arciprete!» e si fece vedere dal principale a giunger le mani, ad alzare lo sguardo al cielo, volendo insieme raccomandare all’uomo di star fermo e al Signore di tener l’uomo fermo. Dopo di che se ne andò frettoloso a capo basso. L’arciprete fece entrare donna Fedele, certo, come il cappellano, che venisse per parlargli di don Aurelio, delle istanze del popolo di Lago che si disponeva di ricorrere magari a Sua Santità perchè il curato non partisse.



III.



Donna Fedele era venuta dal villino delle Rose col suo solito calessino da nolo. Aveva incontrato Massimo poco oltre il ponte del Posina e gli aveva detto ridendo: «Vado dall’arciprete! Per il covo!». Le erano pervenute, per un tubo affatto simile a quello posto in opera fra la canonica e la Montanina, parecchie notizie interessanti e anche questa che, in canonica, il suo villino era stato qualificato, per causa di Carnesecca, un covo. Alla esortazione scherzosa di Massimo: «gliele canti!» aveva sorriso senza rispondere, col suo sorriso dolce quanto la voce. Svoltato il calessino a sinistra sulla salita, i nobili lineamenti avevano presa una espressione di tristezza. Non era il viso di chi avesse a cantarle a qualcheduno. Però il cuore lo era; e anche il cervello. Nel cuore, donna Fedele aveva un risentimento altero; qui c’entrava forse anche il famoso covo. Nel cervello aveva una collezione bene ordinata di parole fredde, chiare e dure, da mettere a posto, bisognando, in un altro cervello che non le dimenticasse; e qui il covo non c’entrava per nulla.


L’incontro di Massimo le aveva fatto salire al viso un’ombra di malinconia. Non ci vedeva chiaro in quella faccenda. Vedeva Massimo esser preso ogni giorno più, questo sì; ma vedeva il signor Marcello inquieto e Lelia paurosamente enigmatica. Le pareva una creatura in lotta con sè stessa. Supponeva in lei un conflitto di sentimenti e, nel tempo stesso, più la conosceva, più si persuadeva che fosse orgogliosissima, che a voler influire sulle sue decisioni si farebbe peggio. S’era amicata Teresina, da Teresina aveva saputo il fatto dei fiori e delle finestre chiuse, non da prendere troppo sul serio, ma neppure da trascurare. L’idea di Teresina era che la ragazza fosse innamorata e che si vergognasse di esserlo, che si tenesse legata nell’onore alla memoria del povero signor Andrea, alla fiducia del signor Marcello. Insomma quell’ombra di malinconia saliva da un oscuro gruppo di dubbii, di pene, di supposizioni, di presentimenti.

Nel salotto della canonica, la siora Bettina e don Emanuele diedero alla visitatrice un’idea così viva di due polli spaventati che le sguisciassero a fianco lungo la parete, e le venne in mente così rosso certo bitorzolo sopra l’occhio sinistro dell’arciprete, che si colorava sempre quando egli era turbato, che un colpo di riso la strinse alla gola. Fu appena in tempo di rifarsi, entrando nello studio, un viso serio.

Il bitorzolo era scarlatto ma l’accoglienza fu espansiva. Il buon don Tita parve incapace di contenere nella propria persona, non sottile vaso, una miscela effervescente di sorpresa, di piacere e di ossequio. Don Tita non era un ipocrita, in quel momento. Alzandosi e movendo incontro alla signora con una sequela di: oh guarda guarda guarda! - Chi vedo chi vedo chi vedo! - Servitorsuo servitorsuo servitorsuo! — il buon prete non obbediva a nessun calcolo. Egli aveva nel sangue una invincibile officiosità che, a fronte di ogni persona ragguardevole, lo rendeva sull’istante cerimonioso e cordiale. Sentiva allora diminuire in sè, come per miracolo, le distanze di opinione e di sentimenti che lo separavano, eventualmente, da quella persona; e, volere o non volere, bisognava pure che con parole e con gesti e col giuoco della fisonomia le desse a capire di essere molto più del suo avviso ch’essa non avrebbe pensato. Donna Fedele si divertì molto, nel proprio interno, di queste accoglienze previste, pensando al mutamento di scena che doveva seguire. Si divertì anche di accettare la poltrona dell’arciprete, di figurarsi, nella propria gonna violetta, un vescovo e dell’idea di dar mano alla tabacchiera ch’era lì sul tavolo davanti a lei, aperta.

«Sono venuta» diss’ella con una dolce flemma sonnolenta che pareva velarle anche i begli occhi «per farle vedere che cerco di essere una cristiana, non dirò buona, ma discreta.»

L’arciprete rise rumorosamente.

«Oh bella bella bella! Ma chi ne dubita, signora? Ma ma ma ma! Chi ne dubita?»

Donna Fedele sorrise. Mentre le labbra sorridevano, gli occhi ingrandirono e diedero un lampo di luce viva.

«Eh!» diss’ella. Anche la voce ebbe un lampo.

Don Tita mostrò di non capire, di non ricordare certa concessione del giardino di donna Fedele per una festa contadinesca complicatasi di ballonzoli, certa sua sconveniente predica fattagli rimangiare dalla signora; e ricominciò:

«Ma ma ma ma!»

La bella voce riprese blanda:

«Lei non ha pensato così una volta e neppure adesso quando mi sono presa Pestagran in casa.»


Don Tita diventò rosso come un lampone.

«Io?» diss’egli. «Tutt’altro. Carità, signora! Carità, carità. Altro era la casa di un sacerdote, capirà, signora, altro è una casa laica.»

«Un covo laico» si mormorò donna Fedele fra i denti.

L’arciprete non potè udire ed ella confessò, sempre blanda, di non avere saputo, una volta, che i sacerdoti fossero meno obbligati dei laici alla carità. Oppose alle proteste di don Tita uno sguardo fisso e un silenzio altero.

Il povero don Tita, memore di aver detto che la magra signora era una Carnesecca peggiore di Gran Peste, lontano dal pensare che donna Fedele, se l’avesse saputo, se ne sarebbe tanto divertita da diventargli più benigna, stava sui carboni ardenti.

«Ma io» ella riprese «non sono venuta per parlarle di Pestagran nè d’altro dove c’entri Pestagran.»

«Ben, signora. Ben ben ben ben.»

L’arciprete disse così, concedendosi un piccolo sfogo di dialetto, ma pensò «male, male» perchè almeno quell’altra pillola era inghiottita e chi sa cosa diavolo avesse in pectore madama Carnesecca.

«Siccome Lei e io c’interessiamo di una stessa persona, sono venuta per domandarle una informazione che potrebbe, in certi casi, riguardare indirettamente questa persona.»

Adesso donna Fedele aveva parlato con voce chiara e piuttosto alta, articolando bene le parole e guardando risolutamente don Tita in faccia. Era una faccia attonita. Chi poteva essere questa persona? La Bettina, no. Il cappellano, meno. Che fosse proprio don Aurelio?

«Non è vero» chiese donna Fedele «che Lei s’interessa molto della signorina che sta in casa Trento?»

Don Tita, contento che non fosse venuto fuori don Aurelio, battè palma a palma.

«Io, signora? M’interesso...? No, sa, signora. Proprio no, sa.»

Donna Fedele pensò: adesso, il bitorzolo!

«Come, niente» esclamò sorridendo, «se vuol farle sapere che deve guardarsi da un certo Alberti perchè questo Alberti ha un intrigo con una signora maritata?»

L’arciprete, fulminato, credette a una incarnazione del diavolo in donna Fedele. Balbettò «come come, come?» e, riprendendo gli spiriti smarriti, chiamò in cuor suo — mostra mostra mostra! — la sua serva che sola aveva potuto origliare, udire, chiacchierare. E intanto non rispondeva. Donna Fedele attese un poco e poi gli domandò, colla sua dolce flemma spietata, se negasse o confermasse la cosa.

«Nego» rispose don Tita riavendosi dal colpo. «Posso negare, signora. Nego di avere alcun interesse in questa faccenda. La sapevo, signora, ma il segreto non era mio.»

Donna Fedele si rimproverò mentalmente di non avere contati, questa volta, i — signora — dell’arciprete. Un’altra volta ne aveva contati o almeno pretendeva averne contati cento e uno in mezz’ora. Riprese la sua fredda opera di tortura.

«Vede, arciprete» diss’ella, «se qui si sa molto di quello che si fa e si dice in casa mia, è giusto che in casa mia si sappia un pochino di quello che si fa e si dice qui.»

Donna Fedele era convinta che la serva dell’arciprete avesse l’incarico di spillare alla sua ortolana tutto il possibile della padrona, di don Aurelio, di Carnesecca e di Massimo Alberti. La serva poi, per comprare, vendeva. E l’ortolana chiacchierava colla cameriera. Donna Fedele non voleva saperne di pettegolezzi, rimproverava le sue donne, ma non poteva turarsi gli orecchi; e stavolta, per verità, li aveva aperti bene.

Tutta la faccia di don Tita prese il colore del bitorzolo.

«Ah La mi scusi poi tanto, signora» diss’egli con voce risentita, «ma questa poi... questa... oh...! oh!... oh!»

Dondolava il capo come sopra un perno, aggrottando le sopracciglia.

Si udì un flebile «con permesso» l’uscio fu aperto piano, ecco la delinquente col caffè e i pandoli per donna Fedele. Era una vecchietta grossa, dalla voce di pecora e dalla faccia furba. Posò il vassoio sulla scrivania e guardò il padrone, aspettando che si alzasse come il solito, imbrandisse il cucchiaino, e vociferasse «quanti, signora, quanti?». Il padrone si alzò ma non subito e lentamente. Le diede poi un’occhiata che la fece tremare di avere sbagliato portando il caffè. «Cape!» mormorò la povera donna, usa, come la Fantuzzo, appellarsi a quei lontani invisibili crostacei. Quella donna trasognata, ignara della propria situazione di lupus in fabula, quella faccia di don Tita, costretto a nutrire di caffè e pandoli una creatura odiosa che lo aveva insolentito, l’idea della scenata che doveva infallibilmente seguire, partita lei, fra serva e padrone, misero tanto di buon umore il piccolo demone comico annidato nel cervello di donna Fedele, che invece di rifiutare il caffè o almeno i pandoli, com’era stato il suo primo sentimento, ella prese dell’uno e degli altri, tanto per ridere più gustosamente della sorte amara di don Tita e per sorridere di sè stessa.

Però, dopo il caffè e i pandoli, smise di torturare il povero uomo. Donna Fedele capace di antipatie fiere, non sentiva per l’arciprete che indifferenza. Lo credeva piuttosto debole che doppio, piuttosto guasto da una educazione insufficiente e malsana che basso di natura, astuto sì ma di un’astuzia grossa, facile a penetrare; e ne riconosceva le qualità buone, il disinteresse, il desiderio sincero di servire Iddio. Partita la fantesca ella gli disse, molto pacificamente, che aveva serie ragioni di voler sapere il vero circa le accuse che riguardavano il giovine Alberti. Don Tita, presto rabbonito, si trincerò e chiuse nella frase del segreto altrui, ma per aprire subito un usciolino, compiacendosi di fare, quasi di soppiatto, cosa grata alla sua interlocutrice. Il segreto era del cappellano. Guai se il cappellano sapesse che il segreto non è ben custodito! — È mio padrone, sa. — La capisce — un scheo de cardinal, digo mi — un centesimo di cardinale. L’arciprete chiamava così don Emanuele quando presumeva di parlare con un avversario del cappellano. E ora non s’ingannava davvero perchè nessuno al mondo era tanto antipatico a donna Fedele quanto il cappellano di Velo d’Astico. Ella domandò subito di parlargli e don Tita si affrettò ad andarne in cerca. Donna Fedele si tenne sicura che il cappellano non sarebbe venuto e infatti don Tita ricomparve, dopo un’assenza lunghetta, a dire, mogio come un cane frustato, che il cappellano era fuori.

«Ritornerà» disse donna Fedele, alzandosi. Sì, certo, don Emanuele sarebbe ritornato, ma difficilmente prima di mezzogiorno. Erano le nove e mezzo. Donna Fedele non poteva restare due ore e mezzo in canonica. Uscì senza dire le proprie intenzioni. Domandò a una contadina seduta sulla porta del suo casolare, a due passi dalla canonica, se avesse veduto don Emanuele. Quella rispose: «El xe passà adesso, signora. El xe andà in ciesa».

Donna Fedele si voltò di scatto, credette vedere sparire precipitosamente in canonica la tonaca dell’arciprete che avesse, dall’ingresso, spiati i suoi passi, salì la gradinata, entrò in chiesa, vide il cappellano che, inginocchiato nella prima panca davanti all’altar maggiore, pregava fervorosamente. Stese per istinto la mano alla piletta piletta dell’acqua santa e si pentì prima di toccar l’acqua, ritirò la mano, sentendosi troppo cattiva cristiana. Quell’uomo inginocchiato, col viso fra le mani, le metteva ira. Lui, fare il santo, lui, quel cuore duro, quel cuore malvagio, lui, il coperto nemico, il denunciatore di don Aurelio, si poteva giurarlo, lui che ora tramava perfidie contro Alberti perchè lo credeva un eretico! Anche questo avrebbe giurato donna Fedele benchè non ne sapesse niente, benchè fosse venuta per sapere appunto se l’accusa contro l’Alberti avesse un fondamento reale o no. Entrò in una panca vicina alla porta laterale, nell’ombra e, dopo un momento di esitazione, s’inginocchiò. Era credente e pia, per tradizione antica della sua casa. Aveva una fede semplice, non si occupava nè voleva occuparsi delle questioni religiose che dividono i cattolici, diceva volontieri di preferire la famosa foi de charbonnier, come l’aveva preferita suo padre; ma detestava tutto che le paresse doppiezza, ipocrisia, perfidia; e oltre al piccolo demone comico aveva nel cervello un piccolo demone strano, uno spirito bizzarro che le suggerì di pregare contro le preghiere di quel prete curvo davanti all’altar maggiore. Inginocchiandosi, pensò: «Ascoltate me, Signore, e non lui,» poi, appena posate le braccia sulla panca: «forse non prega niente.» Lo credeva un fariseo e non si avvide, per questo, di attuare a rovescio la parabola del Vangelo, meritando, come il fariseo di quella, la divina condanna. Il suo sospetto era poi anche ingiusto. Don Emanuele pregava con tutte le forze dell’anima sua. Pregava secondo la sua natura, la sua educazione, come non avrebbe potuto altrimenti. In casa sua nessuno aveva osato chiedere direttamente alcunchè al nonno terribile. Gli facevano parlare da un prete, o da un fattore, o da una vecchia cameriera. Così don Emanuele pregava, più che il Nonno infinito, i servi di Lui. Adesso pregava San Luigi Gonzaga Gonzaga non come altri potrebbe invocare lo spirito di un giovine nobile e puro, morto in servizio di Dio e degli uomini, che s’infondesse all’anima del supplicante per innalzarla seco nella regione della purezza eterna, ma come un principe deificato, che stando sul trono in pompa magna, cinto di fiori e di angioletti alati, piegasse il capo, benignamente, verso di lui e comandasse al demonio di lasciarlo. Così pregava, come poteva, il povero don Emanuele, inorridito dall’asprezza delle tentazioni dalle quali avrebbe voluto farsi credere immune; ed è da ritenere che Iddio, cui sono aperte tutte le origini e tutte le cause, gli fosse molto più clemente che donna Fedele; la quale, pregando contro le intenzioni del cappellano, avrebbe fatto, se Iddio l’ascoltava, una bella frittata. Poco dopo aver udito una persona entrare in chiesa, don Emanuele finse, nel porsi a sedere, di guardare se il sedile fosse sgombero, sbirciò la signora e si pose a leggere il breviario. Egli ricambiava, nel suo coperto modo particolare, l’avversione di donna Fedele. L’offendeva quella sincerità franca di lei, fatta più irritante dal tono mansueto della voce. E la sapeva amica di don Aurelio, amica del giovine Alberti, due persone ch’egli abborriva di un abborrimento pio; credeva detestarne le idee e non le persone. Sentendo fra don Aurelio e sè un indistinto ma profondo dissenso, provando per lui un’avversione istintiva, era tratto ad attribuirgli, per comodità della propria coscienza, idee veramente detestabili, opinioni veramente indegne di un cattolico qualsiasi nonchè di un prete. E lo irritava la irreprensibilità sì delle sue azioni che delle sue parole. Per lui, don Aurelio era un ipocrita. Di Alberti poi, per quello che ne aveva letto nei giornali, per quello che gliene avevano scritto da Milano, sentiva una specie di ribrezzo. L’amica dell’uno e dell’altro non poteva essere troppo diversa da loro.


Udendola annunciare dalla serva dell’arciprete, aveva pensato che fosse venuta a perorare la causa di don Aurelio. Adesso sapeva ch’era invece venuta per la faccenda di Alberti, che la serva dell’arciprete aveva origliato e chiacchierato, che quel benedetto uomo ne aveva fatta una delle sue, lo aveva compromesso. Appena la vide, ne indovinò il proposito, si chiuse tutto, leggendo il breviario, in un’armatura ideale di piastre e di punte.

La placida signora non accennando a levar l’assedio, s’inginocchiò da capo; e dopo avere immaginato, colla testa fra le mani, il momento dell’assalto e predisposta la difesa, passò in sagrestia. Immediatamente donna Fedele si alzò e lo seguì, com’egli aveva previsto. Non potendo evitare un colloquio, il cappellano lo preferiva in sagrestia, anzichè all’aperto o in canonica.

Donna Fedele gli domandò gelida, velata gli occhi d’indifferenza sprezzante, se potesse parlargli. Egli rispose, egualmente gelido, con un cenno silenzioso di assenso.

«Preferirei non qui» diss’ella. Egli esitò un poco e poi le propose di aspettarlo in chiesa. Sarebbero usciti insieme. Si trattenne in sagrestia dieci minuti almeno, fece davanti all’altar maggiore una genuflessione che ne durò altri due.

«Desidero da Lei una informazione sicura» disse donna Fedele uscendo con lui dalla chiesa, tutta fremente d’impazienza.

«Se posso» rispose don Emanuele, mansueto e duro. «Se posso.»

La signora frenò a stento uno scatto.

«S’intende, se può. Ma può certo. E, potendo, deve!»

«Se posso» ripetè il cappellano, più mansueto e più duro. «Se posso. Dica.»

Donna Fedele, rossa in viso, gli osservò che si trattava di faccende delicate. Parlarne in piazza non era conveniente. Allora il prete cavò l’orologio.

«Devo andare a Mea» diss’egli, con quell’aria di gravità, d’impenetrabilità e di compunzione, con quel tono di Dominus vobiscum, che donna Fedele non poteva soffrire. Ella ebbe un altro lieve scatto.

«Va bene. L’accompagnerò io. Ho la carrozza.»

«Scusi scusi, signora; vado a piedi.»

Parve a donna Fedele che le parole frettolose, le sopracciglia aggrottate, gli occhi bassi, dicessero un pudibondo timore, almeno di dare scandalo. Fu per dargli dello sciocco in viso ma si contenne.

«Verrò a piedi anch’io» diss’ella. «La carrozza ci seguirà.»

Don Emanuele si contorse ancora un poco, ma non disse parola. Donna Fedele non avrebbe creduto, due minuti prima, di poter fare mezzo chilometro a piedi. Ora si sentì nei nervi una energia capace di portarla fino a Vicenza. Pescò all’albergo del Sole il suo vetturino che, appena giunto a Velo, aveva legato il cavallo a un’inferriata per mettersi a contendere imprudentemente con un vino più gagliardo di lui. Appena oltrepassata la piazza, i due cominciarono a discorrere, seguendoli, a distanza, la carrozzella. Il prete camminava come se il suolo gli bruciasse i piedi, come se cercasse di stancare la sua persecutrice.

Ella gli dichiarò, asciutto e netto, che, per sue particolari ragioni, il giovine Alberti le stava molto a cuore. Sapeva benissimo che gli erano attribuite delle idee religiose non ortodosse. Sperava che gli fossero attribuite a torto ma insomma non le conosceva, non se ne intendeva, non voleva occuparsene. Ora lo si accusava, in canonica, d’immoralità. Qui, anche lei era giudice. Voleva sapere. Le era necessario di sapere. Ne aveva parlato all’arciprete. Chi sapeva, le aveva detto l’arciprete, era il cappellano. A questo punto il cappellano fece un gesto di acquiescenza.

«Lei sa, dunque?» esclamò donna Fedele fermandosi su due piedi. Si fermò anche don Emanuele. Sperava che, avuta la sua risposta, la terribile signora sarebbe ritornata indietro.

«Pur troppo» diss’egli. «Lo so. Cosa grave. Gravissima. Relazione colpevole con persona non libera. Pur troppo, pur troppo.»

«Ma Lei, come lo sa?»

«Oh, fonte, fonte, fonte...!»

Parve non trovare, per la eccellenza della fonte, un epiteto abbastanza superlativo.

«Ma, fonte fonte!» esclamò donna Fedele, non credendo sincera la ricerca dell’epiteto. «Quale fonte?»

«La cosa è» rispose il cappellano, solenne, convinto. «La cosa è. Non posso nominare la fonte.»

«Mi dica almeno il nome della persona non libera!»

«Non posso!»

Questo non lo poteva davvero e le sue parole suonarono naturalmente, più convinte che mai. Ma la pazienza di donna Fedele aveva toccato i suoi limiti.

«Sa cosa penso?» diss’ella. «Che non vi è fonte ma che vi è fabbrica!»

«Lo pensi pure» fece il cappellano, pallido; e, toccatosi la berretta in segno di saluto, riprese a gran passi la via di Mea.

«Don Emanuele!» esclamò la signora. Il vetturino, mezzo ubbriaco, che si era fermato a due passi, colla mano alla briglia della sua bestia, lasciò andar la briglia, passò donna Fedele correndo e gridando:

«Ca lo ciapa? Ca lo ciapa?»

«Fermo!» gridò la signora. L’ubbriaco afferrò il cappellano per un braccio:

«El se ferma, putélo!»

«No, voi voi fermo, voi, vergogna!» gl’intimò donna Fedele e, raggiunto il gruppo, rimandò il vetturino alla sua bestia tanto imperiosamente che quegli obbedì.

«Vada!» diss’ella allo sbigottito cappellano, con un’alterezza, con una energia, con un fuoco, che le ridonarono quasi lo splendore della sua gioventù. «Continui a servire Iddio calunniando la gente, faccia con Alberti come ha fatto col curato di Lago e trionfi pure! Io ritorno alla mia casa, che Loro hanno la bontà di chiamare un covo, molto più contenta di me e del mio covo che non lo sarà Lei di sè stesso e del suo palazzo quando diventerà cardinale!» E gli voltò le spalle.

«Siora!» le intuonò, tragico, il vetturino recandosi la sinistra al petto e alzando la destra colla frusta impugnata:

«Se La comanda, sibene che l’è un prete, Gesummaria, io ci tiro el colo!»

Chi sa dove si fosse assopito il piccolo demone comico di donna Fedele. Ella non ebbe neppure un sorriso. Fece voltare il calessino e vi salì non curando l’ubbriachezza del vetturale. Non avrebbe potuto fare altri due passi. Tutto il suo vigore si era sciolto in un tremito che la scoteva da capo a piedi. Il buon vento di Val d’Astico, fresco e puro, che faceva stormire gli alberi, ondulare le ombre sulla strada bianca, la ristorò alquanto. Paga del suo sfogo, sentì, pensando al cappellano, una specie di pietà. Ma ne tolse presto il pensiero, lo pose alla Montanina, al capo grigio del vecchio venerato amico all’ultimo, malinconico desiderio di lui, la unione di Lelia e di Alberti, agli enigmi dei loro intimi sentimenti e della sorte.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.