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Capitolo V. Spunta l'ombra del sior Momi
Capitolo IV Capitolo VI




CAPITOLO QUINTO.


Spunta l'ombra del sior Momi.



I.



Donna Fedele arrivò in carrozzella, alle dieci. Aveva saputo alle nove, da un biglietto desolato di Lelia. Discese all’entrata della veranda aperta per non passare davanti alla camera della Morte. Lelia le venne incontro nella veranda. Le due si abbracciarono, senza parole. Lelia aveva gli occhi lagrimosi; donna Fedele era cadaverica ma non aveva lagrime. Entrarono nel salone. Teresina che vi entrava pure in quel momento dalla sala da pranzo, vista donna Fedele, scoppiò in singhiozzi, si coperse il viso col fazzoletto. Come potè dominarsi, porse a Lelia un telegramma. Donna Fedele la interrogò sottovoce mentre Lelia apriva e leggeva. Si erano accorte di niente, ieri, durante la giornata o almeno la sera?

Di niente, di niente. Non era stato di buon umore, questo bisognava dirlo, ma si sapeva che tanto la fuga di don Aurelio quanto la partenza del signor Alberti lo avevano molto afflitto. Parve che Teresina, diventata verbosa, volesse dire altro e poi, fra i singhiozzi, se ne pentisse. E come avevano scoperto?

Rispose Lelia. Giovanni era andato a portargli il caffè alle sette, lo aveva trovato cadavere. Era a letto, seduto, col busto fuori delle coltri e il capo appoggiato alla spalliera. La morte, anche a giudizio del medico, aveva dovuto essere istantanea perchè il corpo era composto, il viso tranquillo, non c’era stato tentativo di scendere nè di suonare il campanello. Istantanea e avvenuta quando egli era appena salito sul letto, prima che si disponesse a prender sonno. La lucerna ardeva ancora. Teresina aggiunse altri particolari, Giovanni, che dormiva a pian terreno, aveva udito, prima ancora di porsi a letto, il padrone passare e ripassare davanti al suo uscio, aprire la porta della villa verso il monte. E la mattina per tempo, nel mettere in ordine la sala da pranzo, non aveva trovate certe pianticelle poste dalla signorina in vasi di cristallo. Le aveva poi trovate il custode, in vasi di terra, all’aperto. Nessuno di casa ne sapeva niente. Certo le aveva portate fuori il padrone perchè prendessero la pioggia. Allora due lagrime spuntarono anche negli occhi di donna Fedele, che parevano insieme sorridere di commozione tenera.

«Avrai bisogno di aiuto» diss’ella, dopo un momento di lotta colla sua commozione, a Lelia. Questa le porse il telegramma ricevuto allora. Era l’agente del signor Marcello, che annunciava il suo prossimo arrivo da Vicenza con un notaio.

Donna Fedele domandò se ci fossero parenti da avvertire. Teresina sapeva che c’erano dei cugini in terzo o quarto grado, ma il padrone le aveva detto più volte, perchè lo ridicesse, che, s’egli venisse a morte, non fossero incomodati.

Entrò Giovanni e chiamò la cameriera. Costei rientrò a dire che l’arciprete e il cappellano chiedevano se la signorina li volesse ricevere. Lelia, seccata, interrogò donna Fedele, che le diede il consiglio di riceverli.

«Intanto» diss’ella, «se permetti...»

Lelia intese, mormorò: «si figuri». L’altra si avviò, grave, alla camera della Morte per la sala del biliardo e lo studio. Passando per lo studio, la sua mirabile fortezza fu per venirle meno. Ella si era trattenuta ivi con lui poche ore prima. Vedeva il viso rugoso e tuttavia parlante giovanilmente, gli occhi tanto mobili agl’impulsi dell’anima calda, udiva la voce sincera. Pareva che ne fosse uscita allora allora. La sedia a bracciuoli, dietro il tavolo, era spostata per isghembo. Sul tavolo, davanti alla sedia, si vedeva un registro aperto. L’uscio della camera da letto era socchiuso. Donna Fedele lo spinse pian piano, con riverenza, entrò. Vide sul letto, fra due ceri ardenti, il suo vecchio amico vestito di nero, col crocifisso nelle mani di avorio. La moglie del custode, seduta in faccia al letto, presso la finestra, si alzò in piedi. Donna Fedele le propose dolcemente di uscire per una mezz’ora. Intanto sarebbe rimasta lei. Uscita la donna, si avvicinò al letto, contemplò, stando in piedi, il volto cereo dell’uomo che, solo, aveva in gioventù veramente amato. Lo contemplò con tristezza dolce e serena. La dolorosa sera della sua lunga giornata si era chiusa, egli stava col suo diletto. Se la sorte di lui e di lei fosse stata diversa, s’ell’avesse potuto diventare sua moglie, l’ora della separazione le sarebbe suonata terribile. Sospirò, quasi rimpiangendo che non fosse stata terribile. Chiuse gli occhi, lo vide giovine, ripensò il segreto amore di allora, così delizioso anche nelle sue inquietudini torbide e amare, ripensò in un baleno le ore di musica, le ore di conversazione, i momenti in cui più avevano parlato gli sguardi, in cui si erano quasi detto, velatamente, il loro amore, ragionando di racconti d’amore, di poesie d’amore, di drammi d’amore nella vita reale. Avevano errato, allora, l’uno e l’altra, si erano troppo poco guardati da un gran pericolo. Più lei, più lei, che, s’egli avesse parlato, s’egli avesse voluto, gli avrebbe tutto sacrificato con gioia! Viveva ancora suo padre, allora. Dio, se fosse caduta così, quale orrore! Si chinò a baciare le mani di avorio, s’inginocchiò, pregò, promise al morto amico di essere materna per la donna ch’era stata l’amore del figliuol suo. E poichè egli aveva desiderata, alla vigilia di morire, l’unione che gli pareva buona per lei, buona per la propria casa, promise che quella unione sarebbe. Si alzò, consolata. Udiva distintamente il battere dell’orologio d’oro sul tavolino da notte. Era come se qualche cosa di lui vivesse ancora, potesse avere inteso. Fiori erano stati sparsi sul letto. Ella pensò che altri ne avrebbe tolto uno per memoria. Non seppe farlo nè seppe cosa la trattenesse. Baciò ancora le mani di avorio, baciò il crocifisso, a suggello della promessa.


II.


Ella fu molto sorpresa, uscendo dalla camera della Morte, di trovare Lelia nello studio. Era fremente, irritata contro l’arciprete e il cappellano, sopra tutto contro quest’ultimo; tanto irritata che non volle parlarne lì, presso la salma. Passò con donna Fedele nella sala del biliardo. Sì l’arciprete che il cappellano avevano molto deplorata, nel senso religioso, la fine repentina del signor Marcello; e alle parole di lei che ricordava la vita immacolata e caritatevole dell’estinto, la pietà grande, i Sacramenti ricevuti pochi giorni prima, l’arciprete non aveva risposto che dei freddi «speriamo» e il cappellano niente. Poi l’arciprete si era permesso di accennare ai bisogni della sua chiesa, supponendo evidentemente di parlare coll’erede. Finalmente il cappellano, tutto compunto, le aveva chiesto se quel giovine fosse ancora alla Montanina: «Ho risposto di sì» diss’ella «per rabbia e perchè sono dei ficcanaso. Sapevano certo che Alberti è andato via, perchè l’arciprete diventò rosso e il cappellano diventò giallo».

Se donna Fedele avesse saputo che Lelia era stata informata delle voci partite dalla canonica circa gli amori milanesi di Alberti, si sarebbe meglio spiegata quella straordinaria irritazione, un elemento della quale sfuggiva alla coscienza della stessa Lelia. Questa si dolse di non aver fatto subito ciò che intendeva fare adesso: chiudersi nella camera del signor Marcello, non uscirne più che per uscire anche della casa. Tanto, in quella casa, ella non era più niente. Il suo dovere era di stare col signor Marcello fino all’ultimo. Partito il signor Marcello, per lei alla Montanina non c’era più posto. Donna Fedele cercò di richiamarla a riflessioni diverse. Visto che si esasperava, giudicò prudente di non insistere, prese congedo, dicendo che sarebbe ritornata la sera. Lelia non disse di gradirlo, le diede un bacio in silenzio e si avviò alla camera sacra. Donna Fedele non voleva partire senz’avere parlato a Teresina. Non ebbe la forza di andarne in cerca, si lasciò cadere in una poltrona del salone, aspettando che passasse qualcuno. Proprio non ne poteva più. Finalmente udì Giovanni e la cuoca discorrere nella sala da pranzo. Giovanni si affacciò prudentemente al salone per vedere se la conversazione fosse sicura; e così donna Fedele potè far chiamare Teresina, dirle di Lelia che si era voluta chiudere lì dentro, che parlava di allontanarsi subito dopo il funerale.

«Spero che verrebbe da me» diss’ella «almeno per qualche tempo, ma non so cosa possa avere in testa, se voglia andare da suo padre o che fare.»

Teresina era tranquilla. Allontanarsi? Ma che allontanarsi? L’erede era lei. Il povero padrone glielo aveva fatto intendere, a Teresina, molto chiaro. Donna Fedele espresse un dubbio: se non accettasse l’eredità? Teresina trasecolò. Come mai non accetterebbe? Non foss’altro, accetterebbe per aiutare suo padre. E raccontò del denaro ch’ella era solita spedire per incarico della signorina. Anche lei, la signorina stessa, come vivrebbe? «Cara» disse donna Fedele «quando c’entra l’orgoglio...»! Ma la cameriera non poteva comprendere un tale orgoglio e la signora rinunciò a spiegarglielo. La pregò, invece, di avvertire il vetturale che intendeva di ritornare al villino. Teresina la supplicò di rimanere fino a che venissero il notaio e l’agente, e si potesse sapere qualchecosa del testamento. Non riuscì a persuaderla. Rispose che non voleva parere un’intrusa, che verrebbe se la richiamassero.

Non fu richiamata. Ricevette verso sera le seguenti righe dall’agente del defunto:

Nobilissima Signora,

Per incarico della cameriera Teresina Scotz, mi pregio di farle sapere che stamane mi recai col signor notaio dottor Camilli dal R. Pretore di Schio, presso il quale venne aperto il testamento olografo del povero signor Padrone, ch’era depositato regolarmente presso il suddetto signor notaio. Mi pregio anche di farle sapere che la signorina Lelia Camin è erede universale e che la cameriera Teresina Scotz ha un legato di giornaliere lire cinque, con esenzione dalla tassa. Le notifico pure, sempre a istanza della signora Scotz, che è qui pervenuto pervenuto al mio indirizzo un telegramma da Padova, sottoscritto Girolamo da Camin, contenente condoglianze, la dichiarazione di essere padre della signorina Lelia, minorenne, e l’annuncio del suo arrivo in giornata, che potrà verificarsi coll’ultimo treno di stasera. La signorina erede ha ammesso di essere figlia del detto signore e di avere vent’anni e pochi mesi; mentre è a mia notizia che il compianto signor Padrone la credeva più vecchia. Col massimo rispetto.

Velo d’Astico (Vicenza), 1 luglio...


Umil.mo e Dev.mo
Rag. Matteo Carozzi.

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