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CAPITOLO DECIMOTERZO.
«Aveu.»
I.
La mattina seguente, Lelia ricevette una lettera di donna Fedele. L’amica si doleva di non averla più veduta dopo la piccola burrasca. Le annunciava la sua prossima partenza per Torino, consigliata anche dal medico di Arsiero. Pareva dunque che il medico di Arsiero l’avesse visitata; ma ciò non era detto esplicitamente. Seguivano calde istanze per aver presto una visitina, almeno; e la preghiera di un rigo di risposta da consegnare al messo. Lelia rispose a precipizio:
«Sono tanto contenta del Suo viaggio a Torino. Non vengo da Lei perchè mi sarebbe particolarmente penoso, alla vigilia di un tale viaggio, respingere desideri Suoi e dovrei pur farlo. Forse non sono degna ch’Ella si occupi ancora di me. Forse è meglio che mi dimentichi e mi lasci alla mia sorte!
Lelia.
II.
Donna Fedele era, quel giorno, in condizioni di salute così tristi da renderla straordinariamente irritabile. Aveva dolorato tutta la notte e soltanto all’alba le era riuscito di dormire mezz’ora. La povera vecchia Eufemia, che dormiva nella camera vicina, l’aveva udita più volte lamentarsi, n’era desolata. La sua desolazione, lo stesso zelo che le metteva sulle labbra tante domande inquiete, tanti consigli, tante preghiere, le fruttava soltanto risposte infastidite. L’effetto delle righe di Lelia fu disastroso. Donna Fedele lesse e rilesse il biglietto in presenza della cugina. Lo stracciò. La irritava il rifiuto di venire, la irritava la chiusa che le pareva una romantica rifrittura di frasi fatte: «mi dimentichi, non son degna, mi lasci alla mia sorte!»
Appena lacerato, pensò a Marcello. Lagrime di pentimento le vennero agli occhi. La cugina Eufemia la guardava trasognata. Ciò irritò da capo donna Fedele. «Va là! Va via!» diss’ella. La povera vecchietta, spaventata, perdette la testa, «i vad, i vad», si precipitò all’uscio e invece di cercarne la maniglia a destra la cercò a sinistra, palpando, palpando, tanto che donna Fedele, cadutale d’un colpo tutta la collera, la richiamò.
«Vieni qua, vieni qua» diss’ella, «scusa scusa. Siedi lì e lasciami pensare.»
Pensò, infatti, un pezzo. Quindi si volse alla mansueta cugina che stava lì seduta colle mani sulle ginocchia, guardando un turacciolo di sughero caduto sul pavimento e non osando alzarsi, malgrado il desiderio grande, per andarlo a raccogliere.
«Senti, donna Eufemia» diss’ella.
«Donna Eufemia» mormorò la vecchietta, sentendosi canzonata. «Oh mi povr’om!»
Rise, perchè il titolo le pareva un sarcasmo alla sua povertà, ma poi si mise a dimostrare che per verità vi aveva diritto e che il vecchio sacrestano del duomo di Santhià, buon conoscitore delle famiglie antiche del paese, la chiamava sempre donna Eufemia. Allora donna Fedele pretese che nei tempi antediluviani ell’avesse avuto, per quel sagrestano, del tenero, ciò che fece spiritare la poveretta. Poi le domandò se fosse mai stata romantica. Romantica? «O mi o mi!» Cosa diavolo tirava in campo, adesso, «sta sì» questa donna qui? La vecchietta rise di cuore, anche perchè le pareva che donna Fedele dovesse sentirsi meglio, se scherzava così. «Romantica? Cossa ca l’è poeui, romantica?» Donna Fedele fece le alte meraviglie di tanta ignoranza e le annunciò una lezione pratica di romanticismo. Le fece prendere un piattino d’argento, abbruciarvi su il biglietto di Lelia, porne la cenere in una busta, chiudere la busta.
«Dopo colazione» diss’ella «andremo a portare questa busta alla Montanina e così diventeremo due romantiche.»
Andare alla Montanina? In quello stato? Dopo quella notte? Pioveva, anche. La cugina Eufemia credette che scherzasse. Quando n’ebbe l’ordine preciso di mandare ad Arsiero per far venire una vettura nel pomeriggio, alle quattro, protestò ch’era una imprudenza, una follia. Il medico di Arsiero, venuto la sera precedente, aveva ordinato, dopo un esame finalmente concesso, il riposo più assoluto, necessario perchè l’ammalata potesse intraprendere il viaggio di Torino. Egli consigliava Padova invece di Torino, per la vicinanza; ma donna Fedele non voleva udir parlare che di Torino e del Mauriziano. Ora l’operazione si poteva forse protrarre di pochi giorni ancora ma non oltre. La cugina ebbe un bel protestare. L’ordine per la carrozza fu mandato. Fu pure mandato un biglietto all’arciprete di Arsiero colla preghiera di volersi trovare alle quattro nella chiesetta del Camposanto. La chiesetta è poco fuori della via che dal villino conduce alla Montanina. Realmente nella notte donna Fedele aveva creduto di morire e ora voleva confessarsi. Salire la scalinata della chiesa di Arsiero le sarebbe stato impossibile.
Di solito la carrozzella che veniva a prenderla si fermava sulla strada pubblica ed ella faceva a piedi il viale dal villino al cancello. Oggi ordinò che la carrozzella venisse fino al villino. Non pioveva più, era uscito il sole. La cugina Eufemia, vedendola pallidissima, la supplicò ancora di restare a casa. Non n’ebbe in risposta che un sorriso e l’ordine di salire in carrozza. In fatto quel gran pallore era una nota di sofferenza morale non meno che di sofferenza fisica. Ell’aveva pure nel sangue, come Lelia, i fermenti dell’orgoglio. Il piegare l’orgoglio proprio davanti a quello di Lelia le costava un penoso sforzo.
Dalla chiesetta del cimitero uscì trasformata. Disse alla cugina che la carrozza e l’aria le avevano fatto tanto bene; che, quasi quasi, si sarebbe sentita in grado di dare la scalata a una di quelle «montagnasse» come le chiamava con orrore la vecchia damigella. La carrozzella si fermò al castagno candelabro. La Magis salì a piedi alla Montanina per dire a Lelia che scendesse.
Donna Fedele attese in carrozza. Di solito faceva conversazione col vetturino, si divertiva a domandargli di cose e di persone diverse per udirlo rispondere col suo linguaggio colorito. Spesso il vetturino aveva alzato il gomito e allora un po’ gli faceva delle rimostranze, un po’ lo stuzzicava per amore della sua eloquenza. Il vetturino pure si divertiva a chiacchierare colla «contessa delle Rose» che aveva, secondo lui, un «descorso» come nessun altro al mondo. Anche adesso, appena la cugina Eufemia si fu allontanata, egli domandò alla «contessa» se fosse vero che l’amorosa del sior Momi lo avesse bastonato prima di andar via, come raccontavano ad Arsiero. Donna Fedele gli ordinò di tacere. Ella si sentiva veramente sollevata, dopo la confessione, e il momento le parve prezioso. Da fanciulla in poi il suo sogno era stato di poter vedere la morte avvicinarsi senza dolore fisico, nella integrità dei sensi e della intelligenza, con molta dolcezza di poesia nell’anima. Aveva il sentimento di non sopravvivere all’operazione, non provava nessun dolore e, sulla stradicciuola romita percorsa tante volte nella sua gioventù, il tacere contento, a sinistra dei boschi profondi e della breve coppa di prato fiorito, la vocina eterna, a destra, del picciol rivo cadente in un borro, la cara chiesina di tante preghiere, di tante interne lagrime, seduta là davanti nel sole aperto, le placide forme, eterne anch’esse, delle montagne, le intenerirono il cuore. Ella non comunicava intensamente mai col paesaggio, non era una sognatrice. Era una creatura dominata dal senso morale e dal senso del comico, quindi più attirata dal linguaggio e dall’aspetto degli uomini che dal linguaggio e dall’aspetto della natura. Ma in quel momento meravigliò ella stessa della tenerezza che provava per la stradicciuola romita, per la silenziosa scena di bellezza e di grazia, per la voce flebile dell’acqua cadente, per le montagne eterne. Era la tenerezza di un addio. Ella non sarebbe più tornata in quel posto prima di andare a Torino. E dopo...
Dopo, rivedrebbe Marcello? Non ci contava. Chi sa, nell’altra vita, che mutamento anche di sentimenti! Però, pensandovi, le punse acuto il dolore di non essere ancora riuscita ad assicurare l’avvenire di Lelia secondo il desiderio del morto amico, di dover lasciare interrotto il suo lavoro per quel fine. E la tenerezza poetica inaridì, vi sottentrò una vaga inquietudine perchè la cugina non ritornava. Udì gente dietro a sè, guardò: don Emanuele e la siora Bettina. Don Emanuele si voltò di scatto alla sua compagna, le disse qualche cosa e sfangò indietro a gran furia. La Fantuzzo continuò la sua strada, passò, rossa rossa, accanto alla carrozzella, senza guardare. Donna Fedele, che l’aveva incontrata una volta o due, le fece un grazioso saluto. Colei chinò appena il capo e corse via frettolosa. Donna Fedele la vide salire i gradini della chiesina, sparire dentro il cancello. «Chi sa» pensò «cosa succede, adesso! Chi sa se Lelia viene!» Un minuto dopo, ecco Lelia e la cugina uscire insieme dal cancello. Respirò.
La cugina Eufemia, che sapeva di non dovere assistere al colloquio, sedette sui gradini della chiesa. Lelia s’incamminò verso la carrozzella, prima lentamente, poi in fretta quando vide donna Fedele farsi aiutare dal vetturino a discendere. Le parve fortunata, nell’imbarazzo di quell’incontro, una piccola mischia di cerimonie; e se donna Fedele restava nella carrozzella, il colloquio, in presenza del vetturino, sarebbe meno penoso. Donna Fedele insistette per discendere. Aveva veduto aperto il cancelletto di legno che mette nella breve coppa di prato e nei boschi.
«Andiamo a discorrere un poco là dentro» diss’ella col suo solito sorriso «dove siamo state ancora; ti ricordi?»
Lelia, cui la Magis aveva detto frettolose parole di angoscia per le sofferenze della cugina, le osservò che si sarebbe stancata. Donna Fedele rispose che si porrebbe a sedere sull’erba. Lelia temè un colloquio pericoloso e il suo viso lo disse. Esitò un momento, silenziosa. Intanto lo zelante vetturino che aveva udito e sapeva l’erba inzuppata di pioggia, presa una coperta dal serpe e spalancato il cancello, chiese: «Dove, signora contessa?»
Così, preso il braccio di Lelia, donna Fedele raggiunse lentamente la breve costa ombrosa fra i castagni e il rivoletto, dove ogni filo d’erba pareva sapere di che l’una e l’altra avrebbero parlato ancora.
Donna Fedele sedette; Lelia rimase in piedi.
«Sei stata cattiva» disse la prima, quando il vetturale si fu allontanato.
«Lo sono ancora» rispose Lelia, guardando nel rivoletto corrente ai loro piedi.
Donna Fedele tacque un poco, guardò ella pure nell’acqua e disse piano, senz’alzare il capo:
«Pensa che forse non mi vedrai più.»
«Quando parte?» chiese la fanciulla, nello stesso tono sommesso.
L’amica ebbe un lieve scatto nella voce
«Adesso parto per andare a Torino ma credo che poi partirò da Torino per andar a trovare i miei vecchi!»
«Non pensi a queste cose» disse Lelia resistendo all’emozione.
«Quando saprai» riprese donna Fedele «che sono morta, ti ricorderai della promessa che mi hai fatta?»
Lelia rispose un «sì» appena intelligibile. Donna Fedele si levò di tasca due lettere, ne porse una alla fanciulla.
«Qui c’è tutto» diss’ella; «nomi, indirizzo, istruzioni. Nel testamento non c’è che il legato per te, puro e semplice.»
Lelia prese la lettera, in silenzio.
Donna Fedele la sentì commossa, le domandò se fosse contenta, ora, di averle scritto come aveva scritto. La fanciulla abbassò gli occhi, rispose:
«No.»
«Ecco, la tua lettera è qui» disse donna Fedele, porgendole l’altra busta.
«La distrugga Lei» disse Lelia, per un residuo di orgoglio.
Donna Fedele aperse la busta, le mostrò la cenere. Lelia s’infuocò in viso, afferrò impetuosamente la busta, la gittò nel rigagnolo.
«Un’altra cosa» disse l’amica savia. «Tu mi hai detto che lasci il cattolicismo a me. Sì sì, a me! Hai nominato anche degli altri ma volevi colpir me. Questo non importa, colpir me. È la perdita della fede che importa. Tu vuoi dunque darmi anche questo dolore, mentre sto per morire?»
«Posso io credere o discredere a mio piacere?» esclamò Lelia, appassionata. «Non è Lei che mi ha fatto perder la fede, no. Ero irritata quando Le dissi quelle cose. Ma poi non dica che muore! Perchè vuole tormentarmi? Non è famoso questo chirurgo di Torino? Lei guarirà!»
«Cara» rispose donna Fedele «non è sicuro se arriverò in tempo per l’operazione. Se si sarà in tempo di farla, io mi sento talmente sfasciata dentro che l’urto mi deve buttar giù in polvere. Del resto basta. Mi permetterai di pregare per te in questa e nell’altra vita. Non domando altro. Guarda, sono orgogliosa anch’io, come te. Mi sono confessata adesso, prima di venir qua, dei peccati d’orgoglio, con dolore. Cerca di guarirne anche tu. Fra poco sarai maggiorenne, padrona di te. Non ascoltare l’orgoglio, allora. Perchè è tutto orgoglio il tuo, tu mi capisci!»
Lelia ebbe un amaro sorriso interno. Non aveva capito, donna Fedele, con tutto il suo ingegno! Tacque.
«Pensa» riprese donna Fedele «che un uomo si perde per causa tua!»
«Si perde?» mormorò Lelia ironicamente.
«Si perde, sì!»
«Si perde perchè non crede più ai preti, forse?»
L’ironia suonò ancora più acerba. Donna Fedele riflettè un poco.
«Senti» diss’ella. «Oggi la mia borsa è una cassetta postale.»
Ne tolse una terza busta e continuò:
«Questa è una lettera che ho ricevuta stamani. Non voglio che tu la legga ora. La leggerai più tardi. Te la lascio. Non restituirmela. Te la lascio per sempre. Leggine e rileggine bene la chiusa. Non ti dico altro. E adesso aiutami ad alzarmi. Abbiamo fatto troppo aspettare la cognata dell’arciprete.»
Lelia prese la lettera pensando che faceva male a prenderla, per un irresistibile impulso. Così il giuocatore che ha giurato ai figli di non toccare le carte mai più, afferra, disprezzandosi e tremando, il mazzo che gli è offerto davanti a un tavolino e a un pugno d’oro. Appena presala, fu per restituirla; ma donna Fedele cercava già, faticosamente, di alzarsi. Non potè a meno di darle aiuto e fu un aiuto difficile. Passato il primo momento, sentì che la restituzione non poteva più essere tanto impetuosa da imporsi, che lo stato di donna Fedele non permetteva una lotta. Si disse che le restava sempre la facoltà di non leggere. Donna Fedele, esausta, si fermava ogni due passi, pesando tutta sul suo braccio e talora guardava Lelia, sorrideva della propria stanchezza, soavemente.
«Senz’altri congedi, sai» diss’ella. «Non ti domando più di venire al villino. Ho bisogno di una gran quiete, prima di affrontare questo viaggio. Puoi mandarmi un rigo a Torino quando vi sarò. Ospitale Mauriziano.»
Lelia non parlò. Quella lettera le bruciava la mano, le bruciava il cuore. Giunte alla carrozzella, le due signore si avvidero di avere dimenticata la coperta. Il vetturino corse a pigliarla e la cugina Eufemia, che intanto aveva fatto un’amichevole conversazione con lui, riferì che quella signora di Velo era ripassata per andare a casa, che si scusava con Lelia di non avere aspettato e che sarebbe ritornata il giorno seguente. Lelia non parve accorgersi che si parlasse di lei.
All’atto di salire in carrozza, donna Fedele le disse, col suo dolce sorriso, un «addio, cara». tenerissimo. Allora, all’ultimo momento, la fanciulla le chiese di riprendersi la lettera, sottovoce, colla esitazione di chi prevede che la sua domanda non sarà presa sul serio.
«Ma che, ma che!» fece donna Fedele.
III.
Rimasta sola, Lelia fu presa da una palpitazione violenta. L’onnipresente cuore le batteva anche nelle tempie. Si nascose in seno la lettera, andò a sedere sui gradini della chiesetta.
Si disse, per placare il tumulto del cuore, che forse la lettera parlava soltanto di religione, di fede perduta o di fede riacquistata, e che questo, a lei, era del tutto indifferente. La lettera le metteva a ogni modo, colla sua presenza sensibile, un torbido ardore, un senso vertiginoso che la sua volontà fosse ridotta impotente nel turbine del destino. Udì scender gente da sinistra e si alzò. Passarono due contadini di Lago, salutando. Ella pensò di ritirarsi in casa. Fatti pochi passi sull’erta, se ne pentì. In casa, nella sua camera, non avrebbe resistito alla tentazione di leggere subito. Non voleva leggere subito. Sostò, incerta. Finalmente ritornò indietro con una incoscienza di automa, discese i gradini della chiesa, prese la via di Lago. A misura che procedeva nel cammino, entrava nella sua incoscienza di automa l’idea di andar a leggere in un luogo deserto. Giunta nella conca di Lago, prese il sentiero che conduce al laghetto del Parco. Udì voci di donna al lavatoio, ritornò indietro, si mise fra le casupole di Lago avendo in mente, oramai, una meta, la strada militare che taglia in alto il fianco della Priaforà, sopra le gole del Posina, dov’era andata più volte a cogliere rose delle Alpi. Salì alle selvagge frane quando il sole calante, toccata la cresta della montagna, vi mancava rapido. Le gole del Posina soffiavano vento freddo sulla morta petraia, sul caos di macigni enormi, franati dalle nude sinistre altezze giù verso lo spacco pieno d’ombra e di perpetuo rombo. Lasciata la strada, Lelia si arrampicò a sinistra fra i rododendri fioriti. Seduta lassù, sola figura viva nel gran deserto ventoso, andò strappando fiori, macchinalmente, a destra e a sinistra, se ne raccolse un piccolo fascio in grembo, vi tenne su a lungo le mani immobili, gli occhi, il pensiero. Poi, fredda quanto potè, cavò la lettera, si fece forza per non correrla in cerca del proprio nome, lesse dal principio, lentamente:
- «Cara mamma Fedele,
Sappia che mi avvio alla ricchezza e alla fama. Ieri l’altro la famiglia di un giovinotto cui rimisi a posto un piede slogato, mi mandò all’albergo ogni ben di Dio: formaggio di capra, salsiccia, funghi. Ieri un pretino candido, timido, umile, per una visita alla sua vecchia madre che ha varici alle gambe, siccome non volli il suo denaro, mi diede una boccetta di aceto di Modena. Come lo avesse, non so. Stamattina mi mandò a chiamare la moglie del sagrestano. La bambina che mi portò il messaggio mi portò anche un cestello di noci per impegnarmi ad andare. Secondo l’albergatrice mi attende un grande avvenire. Se continuo così, dice, mi potrà capitare di venir chiamato nientemeno che a Puria, un mucchietto di case a venti minuti da qui.
E un essere cui la fortuna sorride a tal segno avrà voglia di morire? Eh sì; di quando in quando io sono questo pazzo. Mi pare allora che sarei contento di dormire fra i cipressetti del piccolo cimitero di Dasio, grami come la mia grama sorte; e, perchè non manco di pensieri poetici, sogno che i cipressetti, nutriti del mio cuore, diventerebbero due colonne grandi, due nere colonne trionfali della Morte. Se poi mi scuoto e mi rimprovero di viltà, debbo riconoscere, pensandoci, che la viltà è viltà ma che ragioni di vivere non ne ho molte.
Non parlo degli amici a cui la mia morte farebbe dispiacere. Già non sono che due: Lei e don Aurelio. E di don Aurelio credo che quando mi sapesse morto regolarmente nel mio letto, con tutti i conforti della religione cattolica, forse mi reputerebbe fortunato e si consolerebbe. Lei, cara amica, prenderebbe la cosa con un po’ meno di filosofia, mi compiangerebbe un po’ più; ma, se non erro, Ella non apprezza poi molto questa vita, non dovrebbe quindi rattristarsi troppo per un buon amico che va a provare l’altra con tutto l’ossequio a Santa Madre Chiesa. Ella si meraviglia del mio ossequio, dopo quello che Le ho scritto. Ella pensa già che, sentendomi affondare, ho gridato, secondo il Suo consiglio, «Signore, salvami!» e che il Signore mi ha salvato. Cara amica, certo sì, ho gridato, forse sì, Dio mi sta salvando, ma non come Lei crede. Forse la verità non è a galla del mare, è nel fondo. Se fossi per morire, non vorrei scandolezzare questa buona gente, domanderei un prete. E non sarebbe ipocrisia! Direi i miei peccati per un bisogno supremo di sincerità e di umiltà davanti alla Morte, farei la Comunione in memoria di Chi avrei voluto seguire sulla montagna e sulle onde del mare di Galilea invece che seguire la immensa processione di mitre, di zucchetti, di tricorni, di cappucci, di abiti neri, bianchi, rossi e violetti che oggi cammina davanti a noi. Ma questo non è ancora il fondo. Credo di trovarmi ancora in acque instabili che sentono l’urto dei venti e il moto delle correnti, credo di obbedire ancora all’impulso di sentimenti che furono il veicolo delle mie fedi passate; credo che avrò riposo solamente in quelle ultime profondità solide dove la voce di Cristo «o tu di piccola fede» non arriva più, dove un giorno scenderanno a giacere per sempre anche le mitre, gli zucchetti, i tricorni e i cappucci. Se guardo a quello che credevo un anno fa e a quello che credo adesso, mi domando, per quanto la stessa domanda mi faccia orrore, se domani crederò ancora in Dio. Questa luce del mio spirito, ferma sino a ieri, comincia già a balenare.
Ebbene, sarei un mentitore se Le dicessi che desidero morire per questo. No, se non fosse che per questo, vorrei invece più intensamente vivere. Mi proibirei, vivendo, di pensare più a cose religiose, mi proibirei negazioni e credenze, mi farei padre, fratello, amico di questa povera gente, vorrei dare ad essa tutto che potrei dare di bene vivendo poveramente anch’io, vorrei cercarmi una compagna da poter amare coll’anima e coi sensi, vivere di amore per addormentarmi un giorno, confidente nel mistero che non conosco e non posso conoscere. Ma questo Paradiso è duramente chiuso per me. Se desidero di morire è perchè la febbre che ho voluto combattere, che ho sperato un momento di vincere, questa febbre che ha nome Lelia si è rincrudita, mi arde, mi consuma e non la combatto più.»
A questo punto una fiamma corse il sangue di Lelia, una nube le oscurò la vista, ella si sentì come una festuca in un gran vento, nel soffio di un Dio, Signore del Cielo e della Terra, davanti al quale piegasse tutto, la sua volontà come il resto. Posata la lettera aperta sul fascio di rododendri che teneva in grembo, li raccolse nelle mani tremanti, se li strinse sul viso come per odorarli, volle nascondere anche agli spiriti dell’aria il bacio avido sulle parole di fuoco. Era vinta, era sua, era la donna della sua anima e de’ suoi sensi, che avrebbe vissuto di amore con lui, poveramente; che si sarebbe chiusa con lui in quel nido montano, fuori del mondo che lo avrebbe consolato di tutte le amarezze passate, che lo avrebbe confermato nella sua idea di fare il bene, di non pensare all’Inconoscibile, di accettare anche il sonno eterno. Lagrime le facevano groppo alla gola. Spaventata, si ripose ancora in grembo i rododendri e la lettera, cercò di non pensare a niente, di smarrirsi nella contemplazione di un garofano selvaggio che tremava nel vento come tremavano le mani di lei. Quando le parve di essere ritornata signora di sè, riprese a leggere:
«Sarà perchè nella solitudine la fantasia prende il dominio dello spirito, sarà perchè la poesia malinconica e dolce del luogo ammollisce il cuore, non lo so; so che spasimo, so che passo ore e ore a guardare, non il suo ritratto perchè non lo possiedo, ma un pezzo di carta dov’ella un giorno, pregata da me, scrisse il titolo di un libro. Guardo guardo, poi chiudo gli occhi, quelle tre parole indifferenti mi diventano, sotto le palpebre, il suo viso radiante ingegno, fantasia e fuoco. Mi chino, bevo il profumo ch’ella usa e che la carta serba ancora, che mi fa dolere il petto come la divina musica di “Aveu” di Schumann, che, suonata da lei, mi fece dolere in un modo tanto dolce fino alle braccia e ai polsi. Veda, cara mamma Fedele, come Le dico filialmente tutto. Questa mattina bevevo senza freno il viso, lo sguardo, il profumo. Non potendone più, riposi il mio tesoro, corsi a guardare, pochi minuti fuori del paese, fra le creste delle grandi rocce al cui piede è Dasio, una punta di dolomia che somiglia a un’altra punta di dolomia che io vedevo dal salone della Montanina, attraverso le vetrate della galleria superiore, ascoltando «Aveu». Oh come come mi parlava quella piccola punta inclinata nel cielo! Questa non le somiglia poi tanto, ma io la torco, la sforzo; e se sapesse quante volte nei pochi giorni da che sono qui m’impietrai anch’io a contemplarla!
«E questo questo devo dirle, sopra tutto. Non ho più quel rifugio, quell’asilo di sdegno e di disprezzo nel quale ho cercato fino a ieri una difesa contro l’amore. Non mi sento più il diritto di disprezzare chi mi ha giudicato male non conoscendomi. Il mio solo diritto, diritto e dovere insieme, è di salvare la mia dignità se avessimo a incontrarci ancora nella vita.»
Qui Lelia, leggendo, sorrise. E subito baciò impetuosamente la lettera, quasi a chieder perdono del sorriso. Proseguì a leggere:
«Domani scenderò ad Albogasio per prendere gli ultimi accordi col sindaco circa la tumulazione in quel cimitero della salma di Benedetto, il cui trasporto è, credo, imminente. Ho scritto a Roma che faccio volontieri queste pratiche in omaggio alla memoria di un amico diletto ma che non mi sento di parlare sulla bara come i miei amici vorrebbero. Anche la mia fede in un Cattolicismo immortale sarà in quella bara. Se parlassi, direi che piango sopra l’uomo che me l’ha ispirata e sopra di essa.
«E adesso, addio. Mi scriva della Sua salute. Ove credessi di valer meglio dei medici che ha vicini, verrei a curarla. Ma non lo credo. Essi sono esperti e io, novizio, vado a curare la moglie del sagrestano. Addio ancora!
Il Suo figliuol prodigo
(contento delle ghiande).»
Sotto la firma era scritto:
«Non ingannarti, questa rovina di un’anima è opera tua, tua, tua! Sento che Iddio riedificherà. Voglia Egli, nella Sua misericordia e sapienza, servirsi di te. Ricorda allora la tua povera amica e prega per lei.
Fedele.»
Lelia non si fermò su queste righe, ricorse alle parole appassionate, le rilesse più e più volte, le baciò, le ribaciò. Finalmente si ripose la lettera in seno, col respiro profondo di chi riposa sulla meta dopo un disperato sforzo dei muscoli. La gioia le si dilatò dalla vita del cuore alla vita dei sensi. Godette il vento freddo che le batteva il viso, godette la scena selvaggia e grande delle montagne di faccia, dalle fronti ardenti nel sol cadente, del caos di macigni ruinosi per le ombre inferiori. Godette l’ondulare dei rododendri presso a lei. Godette di sentirsi vivere, si alzò diritta in piedi, aperse e stese le braccia quasi ad abbracciare il mondo che fosse diventato suo. Tremò che qualcuno l’avesse veduta in quell’atto, si guardò in giro, palpitando. Nessuno, nessuno! Si chinò a raccogliere i rododendri cadutile dal grembo, e, ricompostone il fascio, prese a discendere, avida della sua camera e anche avida dell’acuto piacere che le darebbe il senso del suo segreto in presenza d’altri. Discese rapida, con un passo elastico, baldanzoso, di donna felice.
All’entrata della villa incontrò Teresina che ammirò molto le rose delle Alpi. Queste furono le sue parole, ma in fatto la cameriera era sbalordita della nuova luce negli occhi della signorina. Le riferì che la siora Bettina si era evidentemente impermalita di essere stata piantata in asso per donna Fedele. «Ah sì?» fece Lelia «Mi rincresce. Cosa voleva?» Salì nella sua camera senz’attendere risposta, ne chiuse l’uscio a chiave, lesse ancora, beata. Ripose i rododendri sulla spalliera del letto, ma capovolti, coi fiori pendenti sul guanciale, che le sfiorassero i capelli, che potesse, alzando il viso, baciare. Ne tolse uno, discese nella sala da pranzo, lo pose in un calice di cristallo per tenerlo davanti a sè sulla mensa cui avrebbe seduto sola. Passò nel salone, si mise al piano, suonò «Aveu» con un divino impeto, pensando che il piano, se avesse un’anima, a sentirsi sviscerare così, capirebbe; pensando che forse, là nel suo romitaggio lontano, egli sentirebbe qualche vibrare in sè. Le vennero in mente, con un colpo di gioia, versi adattati alla musica di «Aveu» da un amico del signor Marcello:
«Ah solo un demonio e un angelo il san Che pugnan, crudeli, nel fragil mio cuor. |
Uno solo rispondeva al suo sentimento, ma come vi rispondeva!
Or sappi che brucio, che moro di te |
Suonò il pezzo due, tre volte per quel verso, per quel solo verso. Poi si alzò dal piano, andò cercando per la sala il posto da cui si discerne la punta di dolomia. Ritornò al piano, ne strappò da capo i rotti accenti della passione delirante.
«Gèsu!» pensò Teresina preparando la tavola per il pranzo. «Cossa gala po?»