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LXI. Del viver trà molti contrarij.
Lettera LX Lettera LXII

Del viver trà molti contrarij.


Q
UEL gran Poeta, honor della Grecia, e splendor del Mondo, non concedeva, ch’altri potesse lamentarsi, e piarger le sue sventure, più d’un giorno; ond’io giudico, che in quei tempi non fosse alcuno, che mi pareggiasse d’infelicità; che, se alcuno ci fosse stato, come prudente, e come giusto, non sol havrebbe conceduto, che si potesse pianger un giorno: ma un’anno, un Lustro, & un Secolo intero: Misera me qual doglia fu mai, ch’alla mia s’agguagliasse? quando fu negata pietade ad un giusto pregar, com’è ’l mio? qual pena provar si può maggiore, che ’l servir à persona (perdonatemi) discortese, e ’ngrata, come voi siete? Se voi portate nel cuore un freddissimo ghiaccio, almeno mi fosse dato in sorte, che non portaste ne gli occhi un’ardentissimo fuoco, alquale come cera mi struggo; ma s’io son per voi cera al fuoco, perche non siete voi per me, neve al Sole? vi prometto crudele, che mi fate star dubbiosa, se voi siete sordo, o pur, se udite; ma se voi siete sordo, come godete del mesto suono delle mie querele? e se non siete sordo, come non sentite i miei preghi? e se gli sentite, come non vi fanno pietoso? ma sia, che vuole intorno à questo. Sò pure, che non siete cieco, e sallo anche il mio cuore, ch’è stato più d’una volta ferito da gli strali, ch’escono de gli occhi vostri, onde non essendo cieco, sò, che vedrete almen

questa carta (havend’io ritrovato buon mezo, e sicuro da farvela capitar nelle mani) e vedendola, sarà possibile, che non vi venga voglia di leggerla? e leggendola, sarete voi così inhumano, che negherete pietade, non men alle morte, che alle vive parole? Deh cuor mio, in qual barbaro paese si costuma di dar morte à chi ama? Io non hò mai udito ch’altri per ben amare, habbia ricevuto dall’amato la morte; ho ben udito l’un nemico all’altro, haver donata la vita, quando ’l perditore l’ha dimandata in dono. S’io desiderassi di viver per offendervi, havereste ragion d’uccidermi; ma desiderandola io per potervi servire, parmi, c’habbiate il torto à negarlami; hor fate quel, che vi pare, ch’io v’assicuro, che non tanto siete per goder voi dell’alterezza vostra, e del mio male, quant’io son per godere, vedendo esservi cara la mia miseria. Rimanete felice Signore, non dirò mio, perche voi troppo fiero, volete esser più tosto d’ogn’altra, che mio; ma Signore (di cui sono, e sarò mentre, ch’io viva humilissima serva; e s’Amore vi perdoni il fallo, che commettete, non volendo amarmi) contentatevi, poiche havrete lette queste righe di perdonarmi la noia, c’havrete havuta in leggendole.

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