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VI. A Paolo V
V. Al padre Alberto Tragagliola da Firenzuola VII. Al cardinale Odoardo Farnese

VI

A Paolo V

È un lungo appello con cui chiede di esser tratto a Roma e di esservi giudicato dal Baronio e dal Bellarmino: e per mostrare che la sua causa non può esser terminata a Napoli, non solo rianda i fatti di Calabria con tutte le sue orribili conseguenze, ma esamina anche la sua condizione giuridica, dando per giunta la spiegazione delle promesse, delle finzioni e degli inganni a cui era ricorso; ed a cui appone un importante poscritto per l’interdetto di Venezia destinata, secondo lui, a soccombere.

Beatissimo Padre,

È naturale anche ai bruti deboli servirsi dell’industria contra li possenti, che però «ingenium mites, vim meruere truces». Ond’io tutte le stratagemme che in questa causa ho usato, ammaestrato da essempi di savi e da san Geronimo (allegato 22, q. 2), non per fuggir la giustizia ma la violenza, risoluto al martirio, le finisco in questa appellazione ch’ho fatta a Vostra Beatitudine, e per questa faccio: protestando che col Santo Officio io non uso amfibologia, perché da quello non ho provato mai giustizia finta, la quale è crudele, ex Gregorio, ma vera sempre, la qual è compassionevole: essendo il contrario, m’offero alla pena.

Dunque le revelazioni ch’io proposi alli reverendissimi nunzio e di Caserta, e li miracoli per prova di quelle, son verissime, non finte per mio scampo; ed han di far tal fructo ch’ognun sottoporrá volentieri alla fede santa ed a Vostra Beatitudine la testa, né il demonio può contrafarli come quelli di Moisè, né son per prova dell’innocenza mia, che fui scelerato imprudente, ma della veritá evangelica e revelazion presente a cui ho servito nella colpa mia: e se io fossi Simon mago, Vostra Beatitudine è Simon Pietro. Né si può trattar questo gran negozio, se non in presenza di Vostra Beatitudine. Perché io non posso essere piú che Ieremia o gli apostoli o Nostro Signore chi pur con tutta la santa vita e miracoli, mirati odiosamente da emoli, fúr afflitti e morti, anche in presenza lor santificando e miracolizando.

Però sendo io odiatissimo in questo luogo, non posso in conscienza assentire a giudizio alcuno né di ribellione né d’eresia che contra me si pretende, poiché il principe è tanto irato contra me che non mi vuol ascoltar una parola sola; avendo sette anni ascoltati li possenti nemici, Carlo Spinelli, il principe della Roccella suo nepote, il baron di Cagliato, il baron della Bagnara, il consiglier Sciarava fabro del processo, e li revelanti falsi, fatti cavalieri, come gli altri soprascritti premiati, e gli aderenti loro che son quasi tutto il regno: né ci è uomo che possa parlar per me, ch’è subito tenuto per sospetto. E questi si vendon per difensori della Maestá reggia e divina, da me secondo loro offesa. Or chi può opponersi, benché non fosse com’io sepolto, a tanta influenza, se non lo Spirito santo, che sta in Vostra Beatitudine che «est haeres universorum etc.», «rex regum etc.», «princeps regum terrae», «index vivorum et mortuorum»? A cui fu detto: «quis es tu ut timeas ab homine mortali»? in Isaia — quando però vuol caminar con lo spirito, e non con la prudenza della carne «cui est annexus spiritus timoris» — ed altrove: «portae inferi non praevalebunt etc.».

Sola Vostra Beatitudine in questa causa straordinaria, nella quale sempre quasi errâro li giudici inferiori e spesso li supremi, può fuor di timore e d’ira e di voglia venduta esaminar questo argomento: come tutti profeti, apostoli e nostro signore Cristo, anzi li filosofi buoni e savii di tutte nazioni — come nota Platone, ed io ne fei un trattato, — morirò nelli magni articoli del secolo sotto questo titolo d’eretici e ribelli, per zelo di stato di principi e sacerdoti «qui terrena sapiunt: morte moriatur Ieremias: quare prophetavit contra domum hanc etc.», «et fugit ad chaldaeos» (nunc ad turcas), «et rebellat contro te Amos, o rex Ieroboam»; e di Michea: «odi eum quia non prophetat mihi bona»; e di tanti altri: «benedixit Deo et regi», e «contradicit Caesori» e «blasphemat etc.», «et daemonium habet etc.». Talché può aver l’occhio ch’io non sia come un di questi, almen come Socrate, Anassagora, Pitagora, Seneca o Lucano, morti con tali titoli; poiché ho esaminato il Vangelio con le leggi di tutte genti con filosofica curiositá, per assicurarmi in questo tempo turbulento, dove «omnes profitentur verbis se nosse Deum, factis autem negant». Però non s’ammiri Vostra Beatitudine che li signori giudici non pónno qui veder il vero: dove «me offerunt cruciatum et clamoribus praedamnatum», come dice san Leone, «ut non auderet Pilatus inter tot praciudicia illum absolvere».

Ho una gran costellazion di piú contro; e dove regna il senso e non la ragione, senza dubbio le stelle vincono, ex divo Thoma, 3, Contra gentiles. Però solo Vostra Beatitudine, ch’è vicario della prima Ragione, può giudicarmi. La gelosia di stato è piú ansiosa e scrupulosa che la donnesca, ch’ogni mosca fa parer cavallo, e come dice san Crisostomo: «illa regum ira sola inextinguibilis est quam regni zelus accendit»: e poi: «zelus sapere nescit, et ira non habet consilium». E questo zelo ed ira sogliono nelli regi eccitar quelli che cercano aggrandirsi, mostrando esser zelanti guardiani dell’innamorata del regno del lor signore; e son creduti subbito da gelosi ch’almen per levarsi quel germe di gelosia, benché falsa, opprimono chiunque è nominato. Questo zelo spinse Erode e li regi ebrei e gentili ad uccidere li profeti ed apostoli ed innocenti, e persequir Cristo e li filosofi chi parlan solo di mutanza di stato o di republica, o di scienza migliore che l’ordinaria onde vivono li profeti e letterati venduti. E nelli regni cristiani furo occisi molti buoni e perseguitati anche da savii principi per tal causa, come Tomaso, Anseilmo, Crisostomo, Atanasio, Stanislao, Lamberto, Laodislao ed altri. E solo in Roma, dopo che l’ebbero i papi, non trovo mártiri.

Ond’io seguo la ragion naturale appellando. Pur quando san Tomaso cantuariense fuggendo Pira del re inglese venne a Roma, trovò il sommo pontefice e li cardinali tanto mal informati contra lui che ci volle un pezzo a vedersi la sua innocenza, ed era pur santo arcivescovo. Or io m’imagino quanto mal informata è di me la corte romana, dove mai è comparso chi parlasse o scrivesse per me; e gli ufficiali reggii mandâro — e scrissero e vennero — don Gioanni Sances che mi fece aver l’orrendo tormento della veglia nel ritorno. Però pensi Vostra Beatitudine che può esser in Roma error grande contra me, afflitto di tanta potenza: ed è necessario ch’io venga a Roma «ut agnoscas ovem tuam». Dunque io non consentirò a giudicio alcuno, ché per san Tomaso non son obligato ad obedienza indiscreta «ubi non sunt aequa iura»; e morirò martire per difender li canoni: ch’indefenso in man della parte «nemo debet iudicari», In Clementinis [decretalibus], De sententia et re indicata canon pastoralls; e De foro competenti: il clerico non deve dir causa in carcere secolare di nemico etc. elicitive etc.

Se non ho canoni, questo è de iure naturae, contra il qual non posso esser astretto; poiché io vedo tanta sete del mio sangue, ch’avendo io proposto al viceré dopo cinque mesi di stento — ch’il capitano chi mi tiene in fossa, è amico delli nemici e non mi lassa respirare, né che possa al viceré avvisare, né veder aria né chiesa né sacerdoti, e poi va dicendo ch’io non voglio esser cristiano — di far cose mirabili ch’importano piú che tre regni, come questo, in servizio del re — e piú farei per Vostra Beatitudine, li quali capi mi protesto vengano a lei con l’appendici — e con aver parola dal cielo, pur non mi vuol ascoltar il principe né cavar di questa fossa orrenda né darmi da scrivere quelle cose né di defendermi. Ma voleno ch’io parli quando essi vogliono, quel ch’essi vogliono, quanto vogliono ed a chi vogliono e come etc.; e voglion combatter meco con sbirri, fosse, maniglie, ferra, corde, tormenti e boia, oscuritá e fame, le quali armi io non ho contra loro; né voglion combatter con la ragione in cui d’ogni cento do a loro cinquanta e la mano, e cosi mi obligo.

Tutto il mondo sa che l’eresia fu trovata dalli frati per fuggir la furia secolare, venendo alle forze del Santo Officio, a cui non ci volean dare, dicendo che ribellavano il regno per il papa; onde fu bisogno mostrarci nemici al papa, benché poi li secolari con subintrodutti testimoni augumentâro questo titolo, ut ex processu haeresis patet et ex defensionibus fratris Dionysii et Ioannis Baptistae et aliorum, e dalle fedi di confessori. E tutto il mondo sa che questa rebellione è come quella d’Amos contra cui scrissero li sacerdoti ed officiali: «rebellat Amos, o rex Ieroboam»: e questa fu da officiali gelosi e scommunicati figurata sopra le profezie mie e ciarle di fra Dionisio che volea uscir in campagna per uccider chi uccise suo zio. E questi officiali mo’, o per non parere d’avere errato, o per sostentar la bugia al re e per tener li premii ch’han ricevuto, occultano ogni cosa, e cercano per giudici «executores saevitiae non arbitros causae», come gli ebrei, dice san Leone. Ma nullo argomento è maggior di questo, che sendo io infame demonio tenuto nel foro romano, e senza aiuto umano, poverissimo ed afflittissimo, ed essi all incontro santi e figli di Vostra Beatitudine e potentissimi, si sconfidano litigar meco nel detto foro mio ed incitano il re e ’l viceré con altri pretesti a non darmi a Vostra Beatitudine per coprir la veritá, «quia male agens odit lucem», e per coprir le grazie che Dio m’ha dato: alle quali son prudenti a non credere, ma maligni a non voler vedere esperienza.

Or com’io posso consentir a questo giudicio? Vostra Beatitudine facciami venire a Roma; e s’io mento circa l’innocenza o revelazioni o miracoli ed altre prove filosofiche chi per redimer la vessazione invano donai a loro, potrá poi rimandarmi a loro: forsi con questa condizion mi daranno. E qui vedrá s’io dico il vero di me e di loro; e questo sará servizio del re, ché non solo i popoli son sospetti di sedizione, ma esso anche di tirannia per questa causa: e gli è mal informato, e li sará utile veder il vero. Che giova a lui occider un fraticello? ma ben giova che io faccia tante cose stupende in sua gloria; e perdonarmi il voluto, non fatto eccesso, ma solo per bocca di emoli interpretato. Il re rimette le cose al viceré, come s’io fossi diavolo, giá ch’ha premiato li rivelanti e li processanti: e tutti questi m’attoscano la volontá del viceré ed usano ogni arte perch’io non possi indolcirla con qualche parola di ragione; e per mostrarsi zelanti, fan come quelli chi son pagati a piangere i morti, che gridano piú che li figli e moglie che si doglion da vero. Cosi fan questi chi guadagnano le piazze morte; e ’l viceré chi non so s’è istorico o filosofo che possa esaminar questi gridi, per non parere manco zelante del re che quelli, non mi voi parlare, come il re Ioachimo chi temea di parlar a Geremia per li satrapi.

Hanno appiccato nel molo uomini d’altra causa sotto pretesto di ribellione — «ut cum iniquis deputatus est», — per figurarla al re; e sotto verbo reggio fecer confessar Maurizio mille bugie, ed altri con tormenti e promesse false: e tutti morendo si ritrattâro. Io ho fatto finger il negozio di turchi per non morire; ed essi lo augumentano formando il processo di nuovo, e piú volte sempre vario, ché li revelanti diceano e sdiceano a modo di Sciarava, ignorante e scommunicato fiscale; ed ora informano monsignor nunzio come essi vogliono, ed io non posso parlarli se non come essi vogliono; e diran ch’è finita la causa, che mi condanni senza ascoltarmi. E quando mi citâro, mi protestai che volea io difensarmi di propria bocca almen, che non mi lasciâro articolare; e ’l nunzio passato non mi fe’ chiamare, ché penso non ci l’han detto, né potea; e la mia confessione è cautelata come quella del capitolo Dilecti filii cistercenses, De accusatione, che mi credea dichiararla al Santo Officio, a cui va, trattando di mutamento di secoli per profezia di rinovazion di republica; ed essi accorti di questo non lasciaranno, come fecero allora, ch’io mi dichiari e difenda. Che debbo fare? S’io mi scuso, è peggio, ché mi aggiungon catene e guai: «erunt duo in codem lecto: unus assumetur», — ch’è fra Dionisio di can fatto lupo per gridi di mali pastori. — «alias relinquetur».

Dopo sei mesi, dicendo che mi volea accusare, ottenni con arte di parlare alli reverendissimi nunzio e vescovo di Caserta. Alli quali m’accusai come — per mancanza dello spirito che trovai tra’ cristiani molto difformi dell’antichitá e profession nostra — mi rivolsi ad esaminar la fede con la filosofia pitagorica, stoica, epicurea, peripatetica, platonica, telesiana e di tutte sètte antiche e moderne, e con la legge delle genti antiche e d’ebrei, turchi, persiani, mori, chinesi, cataini, giaponesi, bracmani, peruani, messicani, abissini, tartari: e com’ho con tutte le scienze, finalmente, umane e divine assicurato me stesso e gli altri che la pura legge della natura è quella di Cristo, a cui solo li sacramenti son aggiunti per aiutar la natura a ben operare con la grazia di chi l’ha dati, e che son pur simboli naturali e credibili: e vidi come Dio lasciò tante sètte caminare, e la mancanza dello spirito in noi, e lo scompiglio della natura e suo fine. Onde son fatto possente a difensar con tutto il mondo il cristianesmo. Ché fui sentinella fin mo’ dell’opere di Dio: e come la divina Maestá disegna in questo tempo far una greggia ed un pastore, e ’l giudicio dell’errore di tante nazioni e quel che soprastá al cristianesmo, e li sintomi celesti e terrestri del mondo morituro per fuoco contra li filosofi con san Pietro ed Eraclito; la difficoltá del mondo nuovo e dell’incarnazione ed altri articuli difficultosi, l’esamina delle profezie e miracoli veri e falsi d’ogni sètta. E com’io ed altri fummo ingannati dal diavolo, aspettando scienza e libertá da lui, credendoci che fosse angelo e poi Dio, secondo si fingeva; e come, dopo lunga dieta, Dio benigno condescese al mio desiderio, che mai non fu maligno, se fu erroneo; e presentai memoriale di questa, e molti capi di cose faciende ad utile del cristianesmo.

Nondimeno monsignor nunzio rispose ch’io era poco umile. Non so se l’ha fatto per provarmi; perché ben so ch’è scritto nella Sapienza: «qui intuetur illam, permanebit confidens»; e che l’umiltá è magnanima e non vile: ed io certo so che mai non ho bramato dignitá né onori, ed a tutti vilissimi servizii ho posto mani. «Sed neque me ipsum iudico». Monsignor di Caserta fece conseguenza ch’avendo io vagato per tante sètte, e cercato li miracoli veri e falsi e le profezie e la novitá del secolo, com’egli lesse nel mio processo in Roma, non avevo cattivato «me ad ossequium Christi»; e che mo’ voglio far miracoli falsi per scampare o allungar la vita. Ben fanno a non creder subbito; ma negarmi l’esperienza o scriver a Vostra Beatitudine che non la voglia vedere, è un negar lo spirito di Dio che «ubi vult spirat». e seguir lo spirito degli uomini: «venite, cogitemus adversus Ieremiam et non attendamus ad universos sermones eius: quia non peribit lex a sacerdote etc.».

Ed io rispondo a Vostra Beatitudine, a cui penso che abbia cosi pure scritto: che gli animi fertili di gran virtú (dice sant’Agostino) soglion mostrar alcuni vizii per li quali si conosce che cultivati dalla disciplina son atti a gran frutti, ed a quali e di quali virtú. Così occidendo Mosè l’egizio praeter ordinem iuris, e san Pietro percotendo Malto, mostravan dover esser gran principi di giustizia; e san Paolo, «aemulalor paternarum traditionum» contra la chiesa, mostrava l’ardor che potea ricever dallo Spirito santo ad esser folgore di quella poi — e se stesso potea metter Agostino, — come un monte pien d’ogliastri mostra esser atto all’olive, e la terra di felci alle viti. Però io concedo che sono stato troppo curioso ad esaminar la legge cristiana, e posso aver errato com’ogni artefice nell’arte sua — ché ’l sartore molti drappi guasta prima che sappia ben far le vesti, e il medico molti infermi uccide prima che sia valente; — ma io stando fermo nella fede della prima Causa, mai non m’ostinai in opinione alcuna, perché, se così era, mi n’andava certo fuor d’Italia e della relligione; ma Dio mi tenne mano sopra, perché mi son mosso di buon zelo.

Vedendo ch’ogni sètta difende la sua opinione a dritto e torto, ed ognuna si vanta aver miracoli e martiri in sua difesa, e che oggi li cristiani han li doni dello Spirito santo gelati che par che non oprino, e che si difende Cristo non come Dio ma come un altro settario, e che bisogna creder o andar prigione, né ci è chi sappia risolver l’argomenti di questa eclisse di spirito che ci è tra noi, che ne far parer simili all’altre genti; e vedendo che l’ostinazione fa parer falsi li scotisti alli tomisti e li tomisti alli scotisti, e ch’ogni principe si guida per prudenza di stato, e così la gente tutta «ambulat secundum carnem, ergo non potest piacere Deo» — dice san Paolo: «vos autem in carne non estis sed spiritu, et qui spiritum Christi non habet, hic non est eius; et si spiritus est in vobis, corpus mortuum est propter peccatum, et spiritus vivit etc.», ed io trovo lo spirito morto e ’l corpo vivo anche in quelli che pareno santi; — però mi spinsi ad esaminar l’Evangelio con l’altre sètte e scienze, senza ostinarmi in nulla per non prender errore.

E Dio benigno, per via de flagelli e di studii. m’ha fatto oculato testimonio della sua veritá; e per grazia sua giuro che son saldissimo in fede, e che li vizii miei fûr piú buono che mal segno, e che non so s’altri meglio ch’io può difensar il cristianesmo, benché nella Istoria l’illustrissimo Baronio e nelle Controversie l’illustrissimo Bellarminio sian gran colonne, li quali desiderarci mi fosser giudici, ma non in Napoli. Dove sendo per me attoscato il fonte della giustizia da miei nemici, qualunque fiume si meschia, può pigliar quella qualitá, e però non voglio beverli; ed appello a Vostra Beatitudine, che, secondo vedo, questi giudici anche ecclesiastici piú tosto mi vorrebben trovar nocente che innocente, perché — parlo secondo il voler carnale, non razionale — non si fidano, né pònno difensarmi la innocenza, se in me la trovano, come Nicodemo non difese Cristo. Ma sendo colpevole, senza briga pònno starsi e gratificarsi con questi signori.

E certo io ho bisogno d’un Ambrosio o Atanasio per far testa ad imperatori e regi, e tanto spirito oggi non trovo; e sono scusabili per molte cause, e, per dirla, non han alcuna autoritá se non di farmi male, perché son legati al farmi bene. Non mi han potuto dar da scrivere; ché questa per altra via scrivo con arte indicibile, se la posso a lor presentare o mandare a Vostra Beatitudine. Né mi pôn dare avvocato ch’io li parli, come ho chiesto; e se ’l daranno, una volta mi parlerá a lor modo, e via etc.; né ch’abbia a mangiar piú che diciassette tornesi, né che mi ne venga da fuori; né confessore altri ch’uno spagnuolo dato dalli nemici a sconfortarmi come la moglie di Iob, e non lo vedo se non ogni anno; né andar a chiesa; né mutarmi di questa fossa orrenda. Mostrò il capitano a monsignor nunzio, senza me, il carcere di fuori, nel modo ch’ogni sepoltura par buona di fuori: e li fecero creder, senza entrare, che sia buona, e che non vada in giú come va, ventidue gradi, e che non stillano acqua le mura, e ’l suolo sempre bagnato, ch’entra spesso la pioggia — e sta pur sopra altre acque, — e sempre ci è puzza e scuro; e monsignore, per non aver da referire il contrario al viceré, il qual li disse che ’l carcere era buono — perché pur il viceré è ingannato in questo dall’empio capitano, — e non entrò né mandò, e disse ch’è buono.

Or se vincon li nemici in questi manifesti mendacii ed ammazzano le genti d’altra causa per ribelli, come non vinceranno in quello ch’è occulto a monsignore? e se queste picciole cose non pònno li giudici, come potran difensar la innocenza mia o la ragion ch’io averei d’esser perdonato? Ma sono scusabili, che né anco Pilato viceré potea difender quella di Cristo, né re Sedechia Ieremia, né David vendicar Abner ed Amasa contra Loab; perché dove li satrapi piglian autoritá per ragion di stato, come in questo negozio mio, non ci è rimedio: mi calunniarono ragioni, profezie, miracoli ed ogni veritá esposta al senso. Fui per morir più volte, né mi donano medicine; e per un secreto di magia naturale e per regole ch’io uso, sendo medico, son vivo con l’aiuto di Dio, ma tanto debole e d’infirmitá pieno ch’ogni picciol tormento m’uccideria.

Però appello ut supra: la grandezza di questi negozi cerca la presenza di Vostra Beatitudine a cui son mandati. Ella per segno nacque con la difficoltá d’Ercole o di Cesare a cose grandi importanti a questo tempo; e se repugna allo spirito, Dio li mandará successore. Ed alla persona di Vostra Beatitudine ho cose particolari d’avvisare per suo bene e del publico; e s’io mento ci è fuoco e forca per me; ché questo è più spedito modo d’occidermi che la finta ribellione ed eresia. E così m’obligo, ché non parlo per allungar o fuggir morte ma per veritá e ben del publico. Io non posso qui confessar le mie peccata, perché «non sunt aequa iura, et procul esto ab homine potestatem habente occidendi et non vivificandi», come questi giudici, dice il Savio. E s’io fossi eresiarca, potrei meritar perdono in terra per l’util che posso fare, avendolo in cielo; però in buona teologia non posso risponder in questo giudicio. Né la mia morte può smorzare la sètta che dicono io aver fatto; ma li fatti nobili che propongo, «et excellens in arte non debeo mori de iure gentium, et facta infecta esse non possunt», dice Platone: «ideo punitur reus non quia peccavit, sed ne amplius peccet ipse vel alius suo exemplo». Ed io per li guai di sette anni ho purgato, e farò ch’altri s’emendi e non pecchi; ed ho parola del cielo a tutta santa Chiesa, ed a Vostra Beatitudine in particolare, né posso scriverle senza sua licenza, «Agnosce quae dico, nam non est Deus dissensioni etc. nec timoris etc.». Dio le doni prudenza e prosperitá a beneficio universale. Amen.

 [Neapoli,] die 13 augusti 1606.

Al Santo Officio in questo luogo io non voglio respondere; però, piacendole, Vostra Beatitudine non doni questa carta al Santo Officio, s’io non parlo a lei.

Fra Tomaso Campanella,
spia delle opere dell’Altissimo.



Dopo questo ebbi la nuova di Venezia, e scrivo la carta seguente, dicendo ch’assai piú ho da dire, e che li veneziani facendo risposte e libri saran la propria ruina, ché schifando il giuogo del padre — poiché san Marco è appellato da san Pietro «filius meus» — incorreran nel giuogo del signore del turco, re d’Egitto, dove fu martirizzato san Marco. Ripigliarei assai sensi mistici della Scrittura, s’io potessi, del fin loro; e dell’astrologia vera, non soperstiziosa ma di quella che è notata nella Sapienza. A l’ottavo dopo aver parlato della filosofia logica ed istorica e morale, figlie della prima Sapienza, dice: «et si multitudinem scientiae desiderat quis, scit praeterita et de futuris aestimat, scit versutias sermonum et dissolutiones argumentorum, monstra quoque et signa antequam fiunt, et eventus temporum et saeculorum»; e parla propterea anche dell’acquisita, perché «omnis scientia a domino Deo est». Ma non posso.

Dico che non si faccia guerra grammaticale, risposte di libri, ché questa solo serve per chi ci vuol credere; ed essendo spento lo spirito, la littera si tira da ognuno dove vuole: e questo è allongar la lite, il che è specie di vittoria a chi mantiene il torto. E questo si vede in Germania: oportet hoc non dimittere, ma aliud facere; guerra spirituale, mostrar la veritá del Vangelo con la vita buona; e che la ragione di stato li riduce a perdere lo stato — come a Caifa, che se non dicea: «expedit ut moriatur», ricevendo Cristo, l’onor di Roma saria oggi in Giudea — e tutti alemanni ed inglesi; anzi Ieroboam che per ragion di stato fe’ li vitelli aurei, non confidendo tener il regno che Dio l’avea dato, se il popolo andava ad adorar in Ierusaletnme, e perdette lo stato nelli posteri, fidando piú nella prudenza sua che in Dio che ci l’avea dato; ed oso dir di Giuda macabeo, che sempre prosperò sin che non fece tregua con romani, ché bastava il zelo della legge divina ad aggrandirlo sempre.

Dunque, tutte le persone sante d’ogni paese Vostra Beatitudine chiami a Roma, ché qua in Napoli ci è la beata Orsola; e quello ch’a loro è inspirato, Vostra Beatitudine veda ed esequisca, e l’interroghi ogni poco. Io prometto e m’obligo mostrar con miracoli tanto stupendi la veritá dell’Evangelio, che non solo li cristiani, ma l’infedeli tremeranno e vorranno star sotto la sedia apostolica. Ma se Dio ha giurato contra noi, come contra Eli, non ci è rimedio, se non d’allungare la profezia — non si sa s’è comminatoria o predestinatoria se non dopo l’evento. Io son certo che non burlo e che li santi non burlâro, e di piú gli astrologhi Cardano, Paolo, Scaligero ed Arquato che parlâr di questo tempo: e tali segni io vedo in cielo ed in terra che stupirá il mondo tutto, quando li scolpirò, piú che li caldei di quel di Iosuè e di Ezechia. Ma non ci è santo né poeta né istorico né predicante né statuale d’ogni nazione che non parli di questo tempo; ma noi «qui dies Domini ut fur in nocte comprehendet», non vedemo: però «qui non sumus noctis nec tenebrarum, vigilemus et sobrii simus». Io li mostrerò perché s’ingannâro li padri antichi; e com’ora non ci è inganno, se non alli stulti.

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