< Lettere (Campanella)
Questo testo è completo.
XCII. Al medesimo
XCI. A monsignor Niccolò Claudio Fabri di Peiresc XCIII. A monsignor Francesco Ingoli

XCII

Al medesimo

É lieto di esser stato liberato dalla «gelosia della sua grazia»; gli fa poi sapere che il fratello, signor di Valavès, non ha voluto il pecorello e le medaglie, delle quali egli, per timore gli fossero chieste, non ha parlato con coloro che avrebbero potuto informarne il fratello del re [Monsú] ed il Richelieu; mostra ancora che, disputando, non toglie ad altri la loro opinione, essendo venuto in Francia sopra a tutto per non rinunziare alla libertá; in ultimo, cerca di chiarire come il Naudé si dolga di lui senza ragione.

          Illustrissimo e reverendissimo
               signore e padrone colendissimo,

La ultima di Vostra Signoria illustrissima e reverendissima mi fu di sommo contento, avendomi levato dal core la gelosia della sua grazia, della quale né in me né in lei potevo averne sospetto, ma negli eventi esteriori e fortuiti impercettibili. È venuto l’illustrissimo signor suo fratello: mi disse l’arcivescovo d’Aix che non lo posso trovare perché sta sempre in negozio. Venne da me Sua Signoria illustrissima e mi recò tanta consolazione quanta forsi s’io vedessi Vostra Signoria: e la presenza maestosa e ’l trattar cortese e modestissimo e ’l portamento grave ben mostravano quel che egli è. Li recai subito il pecorello e li parlai delle medaglie che son assai piú antique e piú rare che le romane, con insegne mirabili delle republiche nostrali, Cotrone, Regio, Locri, Ipponia, Turii, Brezia, Caulonia, Pandosia, con molto sdegno che si siano perdute in casa dell’ambasciatore, non so come. Con tutto ciò non volle Sua Signoria illustrissima pigliar il pecorello, dicendo: «Non importa»; e scongiurato mi rispose: «Sará tempo». Io sto per andar domane o in questa semana a’ bagni col signor abbate Del Thou; e però andai ieri a trovare questo signore suo fratello, non lo trovai e per dubbio non lo vedessi piú, se ben mi ha detto che ci rivederemo, metto il pecorello in mano del signor Deodato ed anche quelle medaglie, «reliquias danaum», ché, secondo l’ordine di Vostra Signoria illustrissima, lo sforzi a pigliarle, come credo lo fará cortesemente, avendo io avuto la grazia di Vostra Signoria illustrissima e l’assenso in questo.

Sappia che si può dir a Vostra Signoria illustrissima quel di Terenzio «ovem lupo commisisti», quando mi dice che lo faccia vedere e giudicare. Ond’io non ho osservato il suo precetto, perché subito sarebbe venuto alle orecchie di Monsú, il qual m’ha ricevuto in sua grazia con molti officii amorevolissimi e si diletta assai di medaglie e d’antiquitá; onde sarei stato necessitato farcilo vedere e dare — ed in vero ne sa bene, e l’istorie di queste cose anche, e di saper tutte l’erbe pur si diletta; — e perché volea questi di venir da me, secondo mi dissero i suoi aulici, io lo serrai. Né anche lo feci veder al signor Gaffarello, perché no ’l dicesse al Cardinal Duca chi fa una galleria di simili cose. Però Vostra Signoria mi perdoni se non l’ho obedito in questo.

Si è cominciata la stampa: prego il signor Cassendo mi favorisca di quel che li scrissi. So quanta stima fa Seneca della moralitá di Epicuro in piú luochi; e della fisiologia, quanto alla causa materiale, non ci è chi non si ne serva, anche color che negan gli atomi: e quando sará stampata la Metafisica, vedrá s’io scrivo per estinguere i studi altrui o per svegliarli, ed esaminar piú avanti. E quando scrissi a Vostra Signoria ch’io solo in questo libro scrivo contra gli altri — perché in ogni altra opera scrivo aforisticamente — per sveller le spine, volendo seminare, non dovevo cosí dire, benché questa metafora sia di san Pietro rispondente a Simon mago appo san Clemente romano; ma volevo dire che mi fu necessario mostrar per che ragioni non credo a chi scrisse avanti a me e mi fu bisogno filosofar piú avanti, e per che cosa non bastando le cause, andai su li principi, e sopra questi alle primalitá, vedendo che né gli atomi né gli elementi né le qualitá fisiche loro e congressi pònno render sufficiente ragione degli effetti della natura.

Son venuti alcuni da me con strane opinioni e simili a Paracelso; ed io non ho ripreso lo studio loro, ma rallegratomi che non stanno soggetti alle volgari opinioni; e per reprobazione non dissi altro che se da questi principi pònno mostrarmi perché la calamita tira il ferro, e lo scorpione uccide un uomo, e ’l chiodo si volta al sito in che è nato, e l’arte con che si fa l’occhio dagli elementi insensati ed irati, io sarò con loro — Lucrezio epicureo molto da me studiato e stimato non risponde con sodisfazione, — e li fo tornar pieni di dubbi non di riprensioni. Io qua venni per cercar libertá «quote sera tamen respexit inertem etc.», «candidior etc.»; non per tôrla ad altri.

Resto lieto che Vostra Signoria illustrissima si rallegra in me servo suo, e prego dio che la faccia venir con qualche occasione in Parigi per starci qualche mese; e communicar seco quanto io posso e so e vaglio, intra il ventre del mondo riposto come un verme

          nato a formar l’angelica farfalla
          che vola alla giustizia senza schermi,

come dice Dante.

Resto sempre al suo comando e le fo umilissima riverenza.

 Parigi, 22 agosto 1635.

Di V. S. illustrissima e reverendissima
servitore divotissimo ed umilissimo
Fra Tomaso Campanella.



Col signor Nodeo non ci fu altro se non che lui si prese dalla camera mia tutti l’originali degli opuscoli con dire che volea stamparli, e poi no ’l fece ed impedio me dal farlo: lo perdonai, giá che mi mandò l’opuscolo De titulis. Fece un Panegirico ad Urbano VIII, nomine academiarum pro liberatione Campanellae, tuto a me; né mai non volle darlo al contestabile Colonna che lo presentasse al papa, nè a me, e son tre anni: volea lui esser introdotto quando stava col cardinale, ed affrettò la mia partenza e gaudio di nemici, prima ch’indursi a farlo con tanti pretesti. Di piú, ha scritto la vita mia e non vol darla al padre Giacinto no[mine] etc.; item li dettai un libro De libris propriis col giudicio di tutti scrittori di tutte sorte di scienze, e non ha voluto che si veda. E si serve di quello in sue opere. Né ciò mi dispiace, ma il modo, perché li donai lo scritto De conflagratione Vesuvii e si n’ha servito. Io tengo tutto per baia ed a tutti do i miei libri; mi duole che me li tengono e del loro son avari, quando non dottrina ma sol aiuto cercavo: quando i spagnoli cercavan farmi odioso al papa, passò etc. ... lui rispose: «Non voglio dar le mie fatiche, che altri s’onori». Favilla rispose: «Vostra Signoria non ha parte in quelli, perché vi fûr dettati dal padre e da noi». Veda Vostra Signoria s’ho torto; e lui si lamenta con che ragioni. Con tutto ciò io li scrissi e scrivo amorosamente e le dico ex corde: che ciò nulla mi move. M’ammiro che lui scrive ciò a Vostra Signoria illustrissima.

All’illustrissimo e reverendissimo signore
     l’abbate Fabri, monsieur de Peresc,
          del parlamento reggio, padrone colendissimo,
 Aix.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.