Questo testo è completo. |
◄ | XVIII. A fra Serafino Rinaldi da Nocera | XX. A Gaspare Scioppio | ► |
XIX
A Cristoforo Pflug
Cristoforo Pflug che interessò lo Schopp per il Campanella, è da questo ammonito a lasciare una vergognosa tresca e recarsi subito in Germania a combattere la causa della fede ed a trattare la liberazione del filosofo che languiva nelle segrete de’ castelli napolitani.
Se ti ricordi. Cristofaro mio, io brevemente ti dimostrai ch’era stolto pensiero onorar piú la parte ch’il tutto, e piú gli effetti che le cause prime. Onde conobbimo che sendoci ragione e senno nella costruzion delle piante e degli animali, e gran manifesta ragion nell’uomo, forza era ch’il mondo, di cui queste son particelle, sia di conoscenza mirabile avvivato e governato; e che noi stavamo dentro a lui, come i vermi dentro il ventre umano, che non conoscono l’anima razionale che l’uomo governa, ma si pensano che sia un’insensata massa. Hai visto poi come il primo Senno onde tutte le conoscenze pendeno, tiene assai piú cura d’ogni cosella, che la nostra anima in noi, che pur li peli e gli escrementi usa con mirabil arte a diverse utilitá, secondo meglio poi dalla filosofia nostra, che portasti teco, averai considerato.
Talché il primo Senno tenerá piú conto degli uomini che dell’altre particelle del mondo, poiché senza dubbio son piú nobili e si serveno de’ bruti e piante, e mare ed aria, e del fuoco istesso, da cui procede l’anima brutale, come di cose vili e basse ad ogni lor uso. Dunque, è verissimo che questo Senno abbia dato legge a gli uomini dopo che prevaricâro quella che in natura innestò primamente, e finalmente sendo inaccessibile questa sapienza infinita si fece accessibile a noi, e come noi, uomo; e che negar questo è negar la providenza sua necessaria, e l’amor che porta ai suoi effetti piú ch’il padre a’ figli, o io alli miei libri senza comparazione; e che sendo egli in ogni cosa, non l’è viltá esser nell’uomo in un modo particolare e dirsi uomo, poiché in un certo modo Iuppiter est quodeumque vides, quodeumque movetur.
Poi hai visto che tiene necessariamente una scola in terra delle sue veritá; e che non può esser altra questa se non la chiesa romana, autorizata con successione certa di mille seicento anni, con miracoli, riscontri, testimonianze e martirio; e che nullo può dal possesso suo levarla, se non ha tanti miracoli, profezie, testimoni e martiri quanti fũro quelli co’ quali san Pietro tolse il pontificato a Cesare, e Cristo a Caifa, ed Elia ed Eliseo a’ sacerdoti di Ieroboamo, e Mosè a’ sacerdoti egizii etc. E come a Lutero ed a Calvino, mancando queste prove e non ci essendo altro che pugna di parole, come fûr in Arrio, Sabellio, Pelagio, o forza d’armi come in Macone. in Tamerlano, in Cinghi, in Alessandro, non deve darsi credito d’ambasciator divino; perché Dio autoriza con altissimi modi i suoi profeti che manda a ristorare i secoli. Dalle quali poche parole piú dette con litteratura umana che divina da me, per ch’allora io non aveva visto angeli e diavoli che mi facessero per evidenza cristiano, com’ero prima per fredda fede, tu con l’intelletto vivo mi prevenisti; e formasti in te Cristo vera sapienza ed andasti in Roma e riconoscesti la sua scola ed in quella ti aggregasti. Dal che mi è venuto a me non solo gloria in cielo ed in terra, ma speranza certa di libertá; ed hai suscitato Gaspare Scioppio, uomo di bontá e di senno segnalatissimo, a pigliar la mia protezione; e per te si son posti li principi di santa Chiesa in pensiero di aiutarmi.
Ora pensa, Flugio mio, quanto bene m’hai recato e quanto obligo ti porto, poi ch’hai fatto in meglior modo cosí che, non trattando per li principi di Germania il negozio mio, secondo tu promettesti e ’l conte Giovanni teco, vidi l’animo tuo grandissimo; ma gli effetti non rispondendo, mai non ho attribuito questo a simulazione o fellonia, ma ad impotenza. Ma Dio che non manca della sua grazia in quel che noi ben volemo e mal volemo, ha conciato il negozio per questo verso. Ma ora io ti dico che quanto hai fatto per tua salute eterna e mia temporale, tutto risulta a ruina tua e mia, e biasmo orribile ed indegno della nostra filosofia, anzi d’ogni bassa creatura. S’intende per Napoli e per Roma che io ho convertito uno dal calvinismo al puttanesmo, per non dir peggio; che tieni una mala femina, anzi ella tiene te incatenato, e che non sai partirti di Siena e dal suo seno, e che li parenti tuoi ed amici t’hanno per persona perduta, e gli eretici dicono che questo è il frutto del catolicismo, e li catolici dicon, di me. E tu sei cieco come si dice ch’è l’amore lascivo, e non vuoi veder il vitupèro e danno tuo e mio?
Pertanto io ti prego, supplico e scongiuro per la prima Possanza, per la prima Sapienza e per il primo Amore, un ente, autore e governator dell’universo, che in legger questa subito lasci questa femina, ancor che fosse dea, e te ne vadi a trovar Scioppio angelo mio, e fare quanto egli ti dirá; perché certamente «manus Domini est cum illo». Da lui averai tutte sorte di libri miei; ma per riconoscimento e sicurtá della vera fede vederai un libro di ciò a lui dedicato, quello leggerai e ’l Dialogo contra eretici: e con questi ed altri libri t’armerai in difesa della fede ed anderai in Germania, e sarai gloria di tutto questo secolo; e non far di manco, ch’io t’antevedo un flaggello da Dio peggio che non fu il mio. D’alcune cose che stai in dubbio, ti certificará il libro De sensu rerum: io vidi e vedo cose mirabili, e tu sai che le mie prove non vengon da troppo credulitá né d’inganno altrui né di sciocchezza. Sii savio e prudente, ché quando saremo insieme, il che fia presto, udirai e vederai cose che ti parerá una baia tutta la sapienza umana. Silenzio per mo’.
Io pur in quello libro di spiriti che mi facesti vedere, errai, burlandomi; ma oggi vedo in un altro modo. Aperi le porte dell’anima tua, che so che non son di pietra e di legname, ma d’oro facile e pieghevole; e s’in te ci è cura della salute tua e mia, fa’ come io ti dico. Sappi certo ch’io ti donai mal essempio burlando con quelle donzelle che m’invitavano dalle finestre a pazzie piú ch’io non volevo; e sempre mi pare che per quello tu stai, stai in errore; e ti dico certo che sarai la ruina mia inanti a Dio ed a quelli principi, se non obedisci al primo Senno. Io ben t’ho compassione, perché gli uomini savii e virili piú si lasciano vincere dall’amore che dal dolore: però spesso li dei dalli poeti son sottoposti a questo: ed Ercole servio ad Omfale; ed Annibale per una donzella perdé l’impresa di Roma, ed Alessandro fu legato dalle donne persiane, e Cesare d’altre assai; e di filosofi non mancano essempi. Virgilio che era facile ad amore, finge Enea avvilito appo Didone, ma con falsitá intollerabile, in vituperare donna tanto eccellente. E pur tutti quelli eroi fûr forti nelli affanni e vinsero. Pensa di David, di Sansone e di Salomone lo stesso; e pur la Sapienza eterna incarnata per amor d’altri ha fatto tanti miracoli e per li suoi dolori disse: «Deus, dereliquisti me». Vero è ch’«omnia vincit amor», o divino o umano; ma il divino li divini uomini, l’umano gli umani, e ’l misto i misti.
Questo error tuo facile sará a perdonarsi e scancellarsi con la gloria della vita sequente, s’alcun Mercurio ti verrá da Giove dicendo:
...pulchram uxorius urbem
exstruis? heu, ... rerum oblite tuarum etc.
Dunque allo individuo questo è un inganno; perché perde la propria sostanza e spiriti e sangue per darla altrui. Onde dicono i platonici: «subdola venus non providet natis sed nascituris»; e per tirarci a gettar la sostanza nostra, ci pose questo diletto fallace momentaneo che ne mette in una viltá, di piú, grande sí ch’il pensier nostro stia dentro un vaso di sangue mestruo e d’orina; ed a molti in peggiore, secondo il peccato loro merita, ut tradantur in reprobum sensum et reprobam voluptatem. Del che accorti i savi si procacciâro eternitá con le virtú e con accostarsi a Dio eterno, e si castrâro per il regno del cielo, stimando viltá l’eternarsi solo come fan le bestie e le piante, massime che spesso il figlio è dissimile al padre ed in luoco d’eternarlo lo disperde.
Ora tu, Flugio, sendo filosofo, che ne pretendi da femina vile? Ancor che per la prole questo facessi, saria assai poco e vil pensiero di par tuo: li figli di filosofi son tutti quasi stolidi ed ignoranti come sai nella nostra filosofia. Dunque non per questa via tu sai d’immortalarti: o vero non intendi che sia altro amore ch’una foia di gittar il seme dovunque cada, e questo è atto di bestia non d’uomo. Io mi pensavo che ’l tuo cervello sendo cosí docile non solo avanzasse il volgo in questo ma la natura stessa, e l’inganni suoi schifasse: e mo’ ti vedo non sopranaturale, non transumanato, ma né anco umanato, ma sottoumanato ed imbestiato. Oh infelice io, dunque tanto bestia io fui che seminai il seme del Senno primo in luoco ch’avesse a diventar loglio di frumento e bestialitá di sapienza! Deh non sia mai! M’hai promesso libertá; andavi smaniando per la stanza mia e parlando solo come spiritato per troppo desiderio d’aiutarmi; e non l’hai fatto. Or se quella fede e giuramenti, ch’hai dato a me, di pensar alla mia salute, valeno in te, or li dimostra; ch’io mi tenerò salvato e sodisfattissimo se tu lasci quella femina e t’accompagni col nostro Scioppio.
Non sai che la fede è lume d’ogni virtú, e che chiunque va senza lume non compare? Se tu fossi sapientissimo, fortissimo, ricchissimo, santissimo, e non servi la fede, pari disleale, falsario ed indegno di vita. Se tu fai poco conto non avermi serbata la fede data, di qual altra colpa tenerai riguardo? non ci sará amicizia né virtú né Dio per te. Io inanti Dio ed inanti gli uomini protesto che m’osservi la fede data a molti nota. Tu dici che non hai potuto; ed io ti dico che mo’ puoi, solo con lasciar quella femina, e mostrar alli principi miei ch’io ti predicai virtú e non vizii, e con andar in Germania a combatter per la fede e negoziar per me secondo promettesti. E se non vuoi fede, abbi pietá di me meschino, ch’amor lascivo non è senza pietá. Imagina che mi puoi salvare con questo atto onoratissimo. Umana cosa è peccare, e di grandi uomini in amore; ma non ravvedersi è cosa bestiale. Questi che hai sequito erranti, sequili ora penitenti. Di’ con David: «Miserere, Domine». Dunque, tutta la tua virtú e gloria e fama e amici e consolazioni, anzi Dio stesso hai tu sottoposto ad una buca di sporchezze? ad uno orinale? ad una sentina di fetore? O caro amico, mira per Dio il fine: che ne cavi da quel vil pertugio? Non vedi che la natura per avvilirci e farci far penitenza di nostri errori ci dona quell’ardor infame di sotterrarci in una puzzolenza e sottoponerci a vilissime feminelle? Se necessitá ti move, ci son le mogli per questo, e per manco male qualche fornicazione; ma darsi un filosofo in preda di tal viltá è macchia di tutta la filosofia.
Vedi Scioppio anima divina: pensi tu che Venere non lo tenta? Tutti siamo di carne: ma questa è la piú gran vittoria vincere il nemico interno. Non solo a me porti macchie e roina: ma a lui ch’in Roma ti laudò ed ausò con tanti signori, ed ogge credo che non ha faccia di mirar in quelli, perché tutti l’imbrattasti. O amico crudel ed ingrato, se non vuoi mirar l’onor tuo, mira quel degli amici; mira la opinion tua che puzza appresso tanti principi, e nella casa tua nobile poni magagna, scherno e vergogna. Ho scritto a Scioppio che ti faccia vedere tutti i libri del mastro, poiché «mastro» mi chiami: ed or vedrò se con veritá o per burla lo dici; e saperai cose che ti transumanaranno. Però, anima bella, non ti vituperare; a te io mando tutte quelle cose, leggile, ché forse rimediarai a te ed a me: non perder l’ereditá del mastro, anzi del Senno primo a cui io faccio li scolari e non a me, come tu ben sai. Guuárdati dal suo flaggello.
Se subito non obedisci, guárdati ch’io vedo ed antevedo assai di lontano; e li guai miei mi fecero piú acuto, né posso dirti tutto: credimi, credimi; se non, guai a te. Io spero che sendo d’ingegno eroico ed amorevole, almanco per darmi contentezza, lo farai, e forse io ho detto piú che non si deve ad anima tanto facile ad ogni virtú e dottrina; ma l’amor mi sporta. Tu sai ch’io piú credo a gli uomini in sapere ch’in amore; e che sendo parte dello spirito mio in te, non posso non fervidamente amarti; il che tu non puoi far tanto con me; ché li beneficii tuoi fûr esterni e non ci è tanto del tuo nel vaso mio. Dunque, lasciami dire il vero allo spirito mio in te, forsi sendo sopito si sveglierá come seme di primavera al sole, e frutterá salute a te ed a me, e gloria commune a tutto il cristianesmo. Tu sai di portare il senno dove non ci è per varios casus. ...
[Napoli, a’ primi di luglio 1607].