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(Firenze, 13 ottobre 1632)
Emin.mo e Rev.mo Sig.re e Pad.e Col.mo
Che il mio Dialogo, Em.mo e Rev.mo Sig.re, ultimamente pubblicato fusse per aver dei contradittori, fu previsto da me e da tutti gl’amici miei, perché così ne assicuravano gl’incontri dell’altre mie opere per avanti mandate alle stampe, e perché così pare che comunemente portino seco le dottrine le quali dalle comuni e inveterate opinioni punto punto si allontanano. Ma che l’odio di alcuni contra di me e le mie scritture, solo perché adombrano in parte lo splendor delle loro, dovesse esser potente a imprimer nelle menti santissime dei superiori, questo mio libro esser indegno della luce, mi giunse veramente inaspettato; perloché il comandamento che due mesi fa si dette qua allo stampatore e a me, di non lasciare uscir fuori tal mio libro, mi fu avviso assai grave. Tuttavia di gran sollevamento mi era la purità della mia coscienza, la quale mi persuadeva, non mi dovere esser difficile il manifestar l’innocenza mia: e ben desideravo e speravo che mi dovesse esser dato campo di poter sincerarmi; e mi confidavo nel medesimo tempo, che la mia umiltà, reverenza, summissione, e assolutissima autorità conceduta sopra tutti i miei concetti, fusse stata potente a rappresentare a i prudentissimi superiori la mia prontezza all’obbedire esser tale, che potesse rendergli sicuri che io ad ogni minimo cenno mi sarei mosso per venire non solo a Roma, ma in capo al mondo. Perloché non posso negare, l’intimazione fattami ultimamente d’ordine della Sacra Congregazione del S. Offizio, di dovermi presentare dentro al termine del presente mese avanti a quello eccelso Tribunale, essermi di grandissima afflizzione; mentre meco medesimo vo considerando, i frutti di tutti i miei studi e fatiche di tanti anni, le quali avevano per l’addietro portato per l’orecchie de i letterati con fama non in tutto oscura il mio nome, essermi ora convertiti in gravi note della mia reputazione, con dare attacco a i miei emoli d’insurger contro a gl’amici miei serrando lor la bocca non pure alle mie lodi ma alle scuse ancora, con l’opporgli l’avere io finalmente meritato d’esser citato al Tribunale del Santo Offizio: atto, che non si vede eseguire se non sopra i gravemente delinquenti. Questo in modo mi affligge, che mi fa detestare tutto ’l tempo già da me consumato in quella sorte di studii per i quali io ambiva e sperava di potermi alquanto separare dal trito e popolar sentiero de gli studiosi; e con l’indurmi pentimento d’avere esposto al mondo parte de i miei componimenti, m’invoglia a supprimere e condannare al fuoco quelli che mi restano in mano, saziando interamente la brama de i miei nimici, a i quali i miei pensieri son tanto molesti.
Questa, Em.o Sig.re, è quella afflizzione, la quale, continuando senza alcuna intermissione di rigirarmisi per la mente, con l’avermi aggiunto una continua vigilia al peso di 70 anni e a più altre mie corporali indisposizioni, mi rende sicuro, entrando in un viaggio per lunghezza e per straordinarii impedimenti e incomodi faticoso, che io non mi condurrei con la vita alla metà; onde, spinto dal comune natural desiderio della propria salute, ho preso resoluzione di ricorrere all’intercessione di V. Em. inanimito da quella ineffabile benignità che ciascheduno e io sopra tutti per più esperienze ho conosciuta in lei supplicandola che mi faccia grazia di rappresentare a cotesti prudentissimi Padri il mio compassionevole stato presente, non per sfuggire il render conto delle azzioni mie, perché è da me somamente bramato, sicuro di poterci fare non piccol guadagno, ma solo perché si compiaccino di agevolarmi il potergli obbedire e ’l sincerarmi. Non mancherà alla prudenza de i sapientissimi Padri modo di poter benignamente ottener l’intento loro: e a me per ora si rappresentano due maniere. L’una è che io sarò prontissimo a distendere in carta e rappresentare minutissimamente e sincerissimamente tutto ’l progresso delle cose dette, scritte e operate da me, dal primo giorno in qua che furon suscitati moti sopra ’l libro di Niccolò Copernico e sua rinovata opinione; nella quale scrittura io son più che sicuro di far talmente chiara e palese la sincerità della mia mente e il purissimo, zelantissimo e santissimo affetto verso S.ta Chiesa e il suo Rettore e ministri, che non sarà alcuno che, sendo ignudo di passione e di affetto alterato, non confessi essermi io portato tanto piamente e cattolicamente, che pietà maggiore non averebbe potuto dimostrare qualsivoglia dei Padri che del titoIo di santità vengono insigniti. Io ho appresso di me tutte le scritture che per tale occasione feci qui e in Roma, dalle quali (torno a replicarlo) ciascheduno comprenderà, non mi esser io mosso a implicarmi in questa impresa salvo che per zelo di S.ta Chiesa, e per sumministrare ai ministri di quella quelle notizie che i miei lunghi studii mi avevano arrecate, e di alcune delle quali forse poteva taluno esser bisognoso, come di materie oscure e separate dalle dottrine più frequentate; e ben son sicuro che agevolissimo mi sarà il far palese e chiaro, come del pormi a tale impresa mi furon gagliardo invito le determinazioni e santissimi precetti in tanti luoghi sparsi nei libri de i sacri dottori di S.ta Chiesa, e come finalmente l’ultima mia conferma in tal proponimento s’impresse in me nel sentire un brevissimo ma santissimo e ammirabil pronunziato, che, quasi ecco dello Spirito Santo, improvisamente uscì dalla bocca di persona eminentisima in dottrina e veneranda per santità di vita; pronunziato tale, che in sè contiene, sotto manco di dieci parole con arguta leggiadria accoppiate, quanto da lunghi discorsi disseminati ne i libri de i sacri dottori si raccoglie. Io per ora tacerò il detto ammirabile e l’autor di esso non mi parendo se non cautamente e convenientemente fatto il non interessar nissuno nel presente affare, dove solo la persona mia viene in considerazione.
Se mi succederà d’ottener tal grazia, oh quanto spero io che la mia innocenza debba esser conosciuta e abbracciata da cotesti prudentissimi e giustissimi Padri, e quanto abbiano a restar maravigliati di qualche stratagemma che fu usato da qualcuno, accecato e spinto a muover la prima pietra non per zelo di pietà, ma per odio non contro di questa o di quella opinione, ma contro alla persona mia. Io non mi potrei accomodare a creder che domanda che mi si rappresenta tanto ragionevole mi dovesse esser negata, e tanto più quanto il concederla non toglie il potermi costrigner nel modo già intrapreso. E chi vorrà negarmi tale udienza per scrittura, e gravarmi di fatica insuperabile dalla mia debolezza, per le cause già dette, mentre io l’assicuro che, sentite le ragioni mie, compassionerà ’l mio stato, e soverchio gastigo al mio demerito (se pur ve n’è ombra) gli parrà il travaglio portomi sin ora per l’altrui (per quanto temo) poco sincere affermazioni? E quando tal mia scrittura non sodisfacesse appieno a tutti i capi sopra i quali mi vien mossa imputazione e querela, potranno essermi proposte le particolari difficoltà, ché io non mancherò di rispondere quanto Iddio mi detterà. Ma dubito, Emin.mo e Rev.mo mio Sig.re, che possa essere che i miei oppositori non siano per venire (come si suol dire) di così buone gambe a mettere in carta quello che in voce e ad aures forse avranno contro di me pronunziato, come io mi offerisco a mettere in scrittura le mie difese.
Ma finalmente, quando non si voglino accettare mie giustificazioni in scritture, ma si voglia la viva voce, qui sono Inquisitore, Nunzio, Arcivescovo e altri ministri di S.ta Chiesa, ai quali sono prontissimo ch presentarmi ad ogni richiesta: e pur mi sembra verisimile che anco cause di maggiore affare si trattano avanti questi tribunali; né può parer verisimile che sotto a gl’occhi perspicacissimi e zelantissimi di quelli che veddero il mio libro, con liberissima autorità di levare, aggiugnere e mutare ad arbitrio loro, possa esser passato errore di tanto momento, senza esser veduto, che ecceda la facoltà d’esser corretto e gastigato da i superiori di questa città.
Questi, Em. S. sono i partiti che per salvezza della mia vita e per sodisfazione di cotesto eccelso e venerando Tribunale mi sovvengono. Prego la benignità sua che voglia rappresentargli, con scusare insieme se per mia ignoranza vi avessi commesso veruno errore. E per ultima conclusione, quando né la grave età, né le molte corporali indisposizioni, né afflizzion di mente, né la lunghezza di un viaggio per i presenti sospetti travagliosissimo, siano giudicate da cotesto sacro e eccelso Tribunale scuse bastanti ad impetrar dispensa o proroga alcuna, io mi porrò in viaggio, anteponendo l’ubbidire al vivere. E qui, Em.mo e Rev.mo Sig.re, con ogni umiltà inchinandomi, gli bacio la veste e prego il colmo di felicità.
Di Firenze, li 13 di Ottobre 1632.
Di V. Em.za Rev.ma
Um.mo e Obb.mo Servo
Galileo Galilei.