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XXIV - A Fortunio Liceti in Padova
XXIII XXV

(Arcetri, 15 settembre 1640)

Molto Ill.re e Eccl.mo Sig.r e P.ron Osse.mo

La gratissima di V. S. molto Ill.re ed Eccel.ma delli 7 stante, piena di termini cortesi e affettuosissimi, mi è stata resa questo giorno; e, non avendo io altro tempo di risponderli fuorchè poche ore che restano sino a notte, per non differire la risposta una settimana più in là, cerco di satisfare a questo obligo, benché succintamente, ma però con pure e semplici parole.

A quello che V. S. Eccel.ma insieme meco grandemente desidera, cioè che in dispute di scienze si osservino quei più cortesi e modesti termini che in materia sì veneranda, quale è la sacra filosofia, si convengono, li do parola di non mi separare pure un dito dal suo ingenuo e onorato stile; per il che fare userò li stessi titoli, attributi ed encomi di onorevolezza verso la persona sua, che ella verso di me ha umanamente adoperati; benché molto più a lei che a me, e molto più eccellenti, si converrebbero; ma la sua singolar cortesia non me ne ha lasciati di potere usarne maggiori.

Mi giunge grato il sentire che V. S. Eccel.ma insieme con molti altri, sì come ella dice, mi tenga per avverso alla peripatetica filosofia, perché questo mi dà occasione di liberarmi da cotal nota (che tale la stimo io) e di mostrare quale io internamente sono ammiratore di un tanto uomo, quale è Aristotile. Mi contenterò bene in questa strettezza di tempo accennare con brevità quello che penso con più tempo di poter più diffusamente e manifestamente dichiarare e confermare.

Io stimo (e credo che essa ancora stimi) che l’esser veramente Peripatetico, cioè filosofo Aristotelico, consista principalissimamente nel filosofare conforme alli Aristotelici insegnamenti procedendo con quei metodi e con quelle vere supposizioni e principii sopra i quali si fonda lo scientifico discorso, supponendo quelle generali notizie, il deviar dalle quali sarebbe grandissimo difetto. Tra queste supposizioni è tutto quello che Aristotele ci insegna nella sua Dialettica, attenente al farci cauti nello sfuggire le fallacie del discorso, indirizzandolo e addestrandolo a bene silogizzare e dedurre dalle premesse concessioni la necessaria conclusione; e tal dottrina riguarda alla forma del dirittamente argumentare. In quanto a questa parte, credo di avere appreso dalli innumerabili progressi matematici puri, non mai fallaci, tal sicurezza nel dimostrare, che, se non mai, almeno rarissime volte io sia nel mio argumentare cascato in equivoci. Sin qui dunque io sono Peripatetico.

Tra le sicure maniere per conseguire la verità è l’anteporre l’esperienze a qualsivoglia discorso, essendo noi sicuri che in esso, almanco copertamente, sarà contenuta la fallacia, non sendo possibile che una sensata esperienza sia contraria al vero: e questo è pure precetto stimatissimo da Aristotile, e di gran lunga anteposto al valore e alla forza dell’autorità di tutti gli uomini del mondo, la quale V. S. medesima ammette che non pure non doviamo cedere alle autorità di altri, ma doviamo negarla a noi medesimi qualunque volta incontriamo il senso mostrarci il contrario.

Or qui, Eccel.mo Sig.r, sia detto con buona pace di V. S. mi par d’esser giudicato per contrario al filosofar peripatetico da quelli che sinistramente si servono del sopradetto precetto, purissimo e sicurissimo, cioè che vogliono che il ben filosofare sia il ricevere e sostenere qual si voglia detto e proposizione scritta da Aristotele, alla cui assoluta autorità si sottopongono, e per mantenimento della quale si inducono a negare esperienze sensate, o a dare strane interpetrazioni a’ testi di Aristotele, per dichiarazione e limitazione de i quali bene spesso farebbero dire al medesimo filosofo altre cose non meno stravaganti, e sicuramente lontane dalla sua imaginazione. Non repugna che un grande artefice abbia sicurissimi e perfettissimi precetti nell’arte sua, e che talvolta nell’operare erri in qualche particolare; come, per esempio, che un musico o un pittore, possedendo i veri precetti dell’arte, faccia nella pratica qualche dissonanza, o inavvertentemente alcuno errore in prospettiva. Io dunque, perché so che tali artefici non pure possedevano i veri precetti, ma essi medesimi ne erano stati li inventori, vedendo qualche mancamento in alcuna delle loro opere, devo riceverlo per ben fatto e degno di esser sostenuto e imitato, in virtù dell’autorità di quelli? Qui certo non presterò io il mio assenso. Voglio aggiugnere per ora questo solo: che io mi rendo sicuro che se Aristotele tornasse al mondo, egli riceverebbe me tra i suoi seguaci, in virtù delle mie poche contradizioni, ma ben concludenti molto più che moltissimi altri che, per sostenere ogni suo detto per vero, vanno espiscando dai suoi testi concetti che mai non li sariano caduti in mente. E quando Aristotele vedesse le novità scoperte novamente in cielo, dove egli affermò quello essere inalterabile e immutabile, perché niuna alterazione vi si era sino allora veduta, indubitatamente egli, mutando oppinione, direbbe ora il contrario: ché ben si raccoglie, che, mentre ei dice il cielo esser inalterabile perché non vi si era veduto alterazione, direbbe ora essere alterabile, perché alterazioni vi si scorgono. Si fa l’ora tarda, e io entrerei in un pelago larghissimo, se io volessi produr tutto quello che in tale occasione mi è passato più volte per la mente; però mi riserverò ad altra occasione.

Quanto all’avermi V. S. Eccel.ma attribuito oppinioni non mie, ciò può essere accaduto che ella ne abbia prese alcune attribuitemi da altri, ma non già scritte da me: come, per esempio che, per detto del filosofo Lagalla, io tenga la luce esser corporea mentre che nel medesimo autore e nel medesimo luogo si scrive aver io sempre ingenuamente confessato di non saper che cosa sia la luce: e così il prender come risolutamente primarii miei pensieri alcuni riportati dal sig.r Mario Guiducci, potrebbe esser che io non ci avessi avuto parte, benché io mi reputi a onore che si creda tali concetti esser mia, stimandoli io veri e nobili.

Circa l’esser per avventura parso prolisso nel rispondere alle sue obiezioni, non lo ascrivo io a minimo neo, né pur ombra d’indignazione in V. S. Eccel.ma, sì come né anco in me mancamento, se non in quanto con minor tedio del lettore averei potuto esprimere i miei sensi; ma la mia natural durezza nel dichiararmi mi fa tal volta traboccare dove io non vorrei: oltreché, sia, per la nostra concertata filosofica e amichevole libertà, lecito di piacevolmente dire, quando ella paragonassi la multiplicità e lunghezza delle opposizioni che ella fa alla unica mia proposizione del candore lunare distesa in pochissimi versi paragonasse, dico, con la lunghezza delle mie risposte; forse ella non troverebbe la proporzione dei suoi detti a’ miei minore della proporzione dei versi della mia lettera ai versi che le sue instanze contengono. Ma queste son coserelle da non prenderle altro che per ischerzo.

Piacemi grandemente che ella applauda al mio pensiero, di ridur in altra testura le mie risposte, inviandole a lei medesima; dove averò campo di non mi lasciar vincere in usar termini di reverenza al suo nome, benché io sia certo di dover esser di lunga mano superato in dottrina dal suo elevato ingegno. Potrebbe bene accadere che il mio infortunio, di avere a servirmi delli occhi e della penna di altri, con troppo tedio dello scrittore, prolungasse qualche giorno di più quello che in altri tempi per me stesso averei spedito in pochi giorni, ed ella, per la prontezza e vivacità del suo ingegno, in poche ore. Viva felice e mi continui la sua buona grazia, da me per favorevole fortuna stimata e pregiata; e il Signor la prosperi.

D’Arcetri, li 15 di 7bre 1640.

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