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CXI. — A Francesco Priuli.1
Continuando il mio umile uffizio di far riverenza a V.E. con ogni corriero, le dirò in primo luogo, che un mio amico mi scrive da un luogo assai prossimo a Giuliers, che le cose delli due principi vanno sminuendo sensibilmente, e aumentandosi quelle di Leopoldo; e mi dice il suo giudizio, che pensa quello Stato dover rimanere infine a lui, senza che si sfoderi spada: mi aggiunge in appresso un discorso di altri, quale egli ha per chimerico, che quell’arciduca, quando avesse un tale Stato, potrebbe aspirare all’imperio più d’ogni altro di sua casa, per esser solo tra tutti loro amato dall’imperatore.
Di Francia intendo, che essendo partiti tutti gli ambasciatori dei pretendenti in Giuliers, chi per andare in Inghilterra, chi in Ispagna e chi per ritorno; hanno portato dalla maestà cristianissima consigli buoni, più che altro. Nessuna altra cosa può far che quella controversia termini in guerra, salvo che se gli Stati avessero sospetta la vicinanza di chi resterà possessore: però non è credibile che soli soli rompano la tregua. Di là, cioè di Francia, intendo una cosa molto piacevole; che un padre Gesuita, chiamato Cardon, ha fatto stampare un libro in Lione, inscritto de rebus Salamonis, e l’ha dedicato al re, e fattovi stampar innanzi un’imagine di sua maestà armata a cavallo.2 Quel libro, il padre Cotone ha presentato al re alla tavola, in presenza di tutta la nobiltà; dicendo che l’autore ne aveva mandato duemila esemplari ad ambedue le Indie, acciocchè il suo nome o la sua virtù, con l’effigie, cavalcasse l’Atlantico e l’Equinoziale, ed il suo valore fosse conosciuto alle Indie. Solevano i padri Gesuiti donare il paradiso; ora sono donatori della fama in questo secolo. Una cosa mi fa stupire: il re ha eretto una nuova cattedra nella Università di Parigi per leggere le Controversie della religione, e data alli Gesuiti. Il Parlamento resiste a verificare le lettere regie, ma senza dubbio in fine cederà. Non so perchè, quel re, quale altre volte cercava di mettere in silenzio le dissensioni, ora vogli donar fomento. Mi pare che non potrà passare la esecuzione di questo senza disgusti notabili in progresso fra le parti.
Da noi non abbiamo cosa nuova, se non che il nuovo abate della Vangadizza3 anderà a Roma: ha già per questo visitato il nunzio e gli altri ambasciatori, e ricevute le visite rendutegli da loro in casa del padre.
A Roma la corte sta in grande aspettazione di promozione di cardinali; quale è poco verisimile. L’ambasciatore degli Stati partì ieri mattina, soddisfatto pienamente. Sabbato fu destinato alli suoi signori, per corrispondergli, il cavalier Tommaso Contarini; dopo di che, vi furono qualche difficoltà promosse da alcuni, se si doveva far elezione di persona di tanta qualità. Questo signore vi va tanto volentieri, che non si può di più.
V.E. scrivendomi che il giovine duca di Baviera, sebben ama li Gesuiti, ama però molto li Cappuccini, mi muove a stretto desiderio di sapere se questo nasca perchè sii soggetto obbligato ad avere un idolo; ovvero se sii un uomo savio, che ritirandosi dal più nocivo, si appigli al meno, per non parer, lasciando tutti, che vegli abbandonare la paterna pietà, e la stretta congiunzione colla religione cattolica.
Quello ch’è giunto alle orecchie di V.E., come l’illustrissimo Contarini abbia ricevuto quanto scrisse di lui, è cosa vera, ma non intera; imperciocchè quel signore per una parte ha sentito dispiacere; per l’altra non così. Gli è piaciuto in quanto la narrazione è reale ed incitativa agli altri a far bene; non gli è piaciuto, in quanto possi avergli concitato qualche invidia. In questo particolare io avvertirò bene V.E. di una cosa; che non ha diminuito niente perciò l’affezione verso lei; e di tanto l’assicuro. Ma per quel che si aspetta al generale delle lettere di V.E., io le dirò con verità di aver sentito da molti a dire, che ora solamente appare che vi sii ambasciator della Repubblica in Praga. Non posso trattenermi di dire riverentemente, che l’uomo non può sottoponersi a maggior afflizione, quanto pensando a dar soddisfazione a tutti. Essendo gli uomini tanto diversi, com’è possibile che un’azione riscontri nella stessa forma a tutti? È cosa certa, che quanti audienti, tanti concetti. V.E. ha da Dio tal dono, che non debbe seguir altro giudizio che il suo proprio, aspettando che la Maestà sua divina favorisca le sue azioni; chè così facendo, farà il servizio della patria, e darà soddisfazione all’universale: alla malignità sarà impossibile. Ho fatto qui il predicatore, per obbligarmi se intenderò qualche cosa, a scriverglielo liberamente; come le avrei scritto delle cose del Contarini, quando non mi fosse parso che il signor Domenico Molino, scrivendo in questo particolare, avesse eccesso nel troppo. Di che avendone parlato con esso lui, non restò di confessarmelo; ma lo scuso con la libertà della sua natura, ch’è di far l’officio d’amico piuttosto con aumento, che con diminuzione. Per fine di questa, perchè V.E. vuol farmi grazia che riceva sempre sue lettere, la pregherò, massime in stretti tempi, a non replicare le cose che scrive al signor Domenico; perchè le mie saranno sue, e le sue mie. E le bacio riverentemente la mano.
- Venezia. 11 dicembre 1609.
- ↑ Stampata tra le Opere ec., pag. 138.
- ↑ È uno degli infiniti mezzi di che i Gesuiti si valsero per lusingare la vanità, trascinar nell’amore delle inezie e in tutto corrompere l’uman genere. Basta vedere alcuni tra le migliaia de’ libri corredati di tali futilissime e soprattutto barocchissime immagini o tavole, in quello e nel seguente secolo. Del frate adulatore di questo nome non ci è riuscito il trovare notizie; sì bene di un Orazio Cardon, originario di Lucca e libraio, che, per ispeciali benemerenze, fu fatto nobile da Enrico IV, nel 1605.
- ↑ L’abbazia di Vangadizza era stata, per transazione, conferita al patrizio veneto Matteo Priuli, riservandosi però una pensione di cinque mila ducati a favore del cardinal Borghese, nipote del papa. Vedi la Lettera XCIII, pag. 305.