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CXIV. — A Giacomo Leschassier
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CXIV. — A Giacomo Leschassier.1


Colpa la stagione invernale, assai tardi mi giunsero le lettere della S.V. de’ 2 novembre; e ricevei quelle del 16 di questo mese nel giorno stesso che il corriere era sul partire per costà; onde mancavami il tempo sufficiente per rispondere. Al tempo medesimo ricevei l’ultima parte delle osservazioni di Jureto2 sull’Epistole d’Ivone, che mi parvero non solo adatte a rifletter luce sull’autore, ma (ciò che stimo più), a metterci in vista le condizioni della Chiesa a quel tempo. Ma ai romaneschi andranno poco a versi, come quelle che contraddicono alla Storia di Baronio, il quale si predica e crede un quinto evangelista.

Non si meravigli se già dissi che nelle materie beneficiarie non s’agitava quasi alcuna lite. Imperocchè ogni lite accendevasi un tempo per due principali cause: la prima, pel mandato dei provvedimenti; la seconda, perchè la Dataría concedeva benefizi a ogni richiedente che ne affermasse la vacanza, e il papa e l’officiale della Dataría non pigliavano parte alle contese dei pretendenti, le quali erano rimesse ai giudici ordinari o commissari. Oggi sono tolte l’espettative, e la Dataría non dà i benefizi vacanti se non a quello che fornisce i legittimi documenti sulla vacanza. Ben dice V.S., che qui ci dànno artificii e non riforma: non mai chiude la curia una via all’abuso, senza che un’altra non ne apra a traforar le stesse o diverse mercanzie a Roma. Oggigiorno, per le riserve ed altre arcane arti, si reca alle mani in Italia tutti quanti i benefizi, valendosi di quegli amminicoli di che una volta non abbisognavano. Se nei regolamenti cancellereschi ella osserverà quali e quanti sieno i beneficii riservati al papa, e poi sottrarrà dai non riservati i vacanti in besse aut semisse anni, notando eziandio che o renunzia o permuta di sorta non può farsi che a Roma, come resultato ne resterà un bel nulla. Presso agli ordinari non si fanno permute; giacchè Pio V, in una costituzione pubblicata sotto pretesto di abusi, proibì ad essi di ammetterle, senza che la Sede apostolica ne dettasse innanzi le necessarie norme, le quali tuttora si fanno desiderare. Nè hanno balía i vescovi sulle renunzie per un altro statuto di Pio V, il quale vietò loro il conferimento del benefizio al nominato, o anche sol designato dal resignante; come anche laddove sospettassero di cotal sua volontà. Di qui viene che niuno lascia i benefizi nelle mani dell’ordinario. Aggiungasi che quasi in ogni renunzia interviene la pensione, la quale non può imporsi senza del papa. Non rimangono che i benefizi vacanti per morte; ma, stante il decreto del Sinodo Tridentino che concerne il concorso, non potendo i vescovi conferirli a lor talento, fanno capo anche questi alla Sede apostolica in via impetratoria per il prescelto da loro. V’hanno ancora altri stratagemmi, mediante i quali fra cinquecento benefizi (non parlo iperbolicamente) neppur uno si conferisce dall’ordinario. Quindi ognuno che uccella a’ benefizi, ha gli occhi volti a Roma: la curia, poi, non vuol sapere di liti, perocchè ad esse porrebbero mano i magistrati secolari, ed essa ne li vuole al tutto dilungati. Tale è il suo scaltrimento, a cui si lasciano prendere gl’ignari per buona fede e i meticulosi di tutto buon grado.

Ma qui mi viene a mano una controversia più momentosa. Per pigliarsi il diritto del possesso, inventarono una distinzione: dissero che questo era di due specie; spirituale, cioè, e temporale; e che quello dovesse darsi dall’esecutore ecclesiastico, questo dal secolar magistrato. A rincontro, io nego risolutamente, affermando vana e ingannevole la distinzione; e sostengo che non esiste possesso spirituale, ma che il possessorio della cosa spirituale è un che di temporale; e quantunque il vescovo o il parroco niente avessero di temporale, non potrebbero nullameno prender possesso se non dalle mani del principe. Fanno essi vedere per antiche formole, che mai si dette dai magistrati il possesso di chiese, monasteri, canonicati, ec. È incredibile a dirsi quanto danno si arrechi per tale sofisma alla civile potestà. V’ebbero di tali che, sotto pretesto di quel possesso spirituale preso dall’incaricato ecclesiastico, per dieci anni furono padroni dei benefizi; e con tutto ciò, sarebbe stato certamente escluso il principe dal diritto d’immettere nel possesso. Se questo io potrò mostrare, reputerò d’aver fatto molto per gettare a terra una cotal distinzione.

Io penso che voi abbiate occhi di lince, poichè di là dai monti vedete le magagne che noi presenti non iscorgiamo. Saviamente ammonite che da nulla più dobbiamo guardarci, che dalle riforme romanesche: strano è però che di costà sia la gente di tanto acuta vista, e noi, per lo contrario, sì ciechi! Ma intanto non posso meravigliarmi abbastanza della bonomia del vostro clero, il quale dimanda al re l’attuazione del Concilio di Trento e la restituzione delle elezioni: cose, io dico, che tra sè cozzano stranamente. Se accettano la Sinodo di Trento, dovranno anche accogliere le riserve, che distruggono affatto l’elezioni. È una vera compassione il vedere come cotesta chierisía cerchi da sè medesima un padrone. Ripensando sovente meco stesso alla ragione per cui il nostro clero volonteroso si addatta al giogo, e non fa forza per riscuotersi, quest’una m’occorse: esso non ama la verace libertà, ma la licenza della vita, la quale non si concederebbe dai principi nè dai popoli, se non fosse appoggiata alla protezione del pontefice; e il vostro clero, io mi penso, chiede il Concilio di Trento per isbarazzarsi del re; giacchè, quando siesi dato in balía della romana curia, essa dimora ben lontano: e l’uomo è così fatto, che spera sempre miglior ventura dai nuovi padroni.

Qui ci si è offerta la quistione, se un magistrato secolare che per delitto capitale condanna a morte un chierico in sacris, sia tenuto ad adoperarsi acciò sia attualmente degradato; e se, a ciò rifiutandosi il vescovo, debba tenere in sospeso la pena. La prego a dirmi come si costumi tra voi, allorchè i chierici sono destinati a morte per sentenza del giudice secolare. La degradazione è, secondo le decretali e il pontificale, l’attuazione di un decreto del giudice ecclesiastico, ch’esso emette in virtù di processo nel suo fôro; ma se dopo la sentenza di morte emessa dal giudice secolare segua la degradazione, chi avrebbe dato effetto alla sua sentenza?

Mentre scrivevo, mi giunse opportuna la sua lettera del 17 novembre, insieme col fascicolo dell’altra parte delle Osservazioni sopra Ivone: di che doppiamente la ringrazio. Rispetto ai benefizi chiesastici, scrivo spesso a lei, perchè dalle sue scritture cavo sempre argomenti che ci tornano o possono tornarci utili, mentr’ella ci viene spiegando le usanze di costà e manifestando sopr’esse il suo parere. Ella dà proprio nel segno, quando espone le tre ragioni per cui si difendono le riserve: l’autorità, cioè, del Sinodo di Trento; il consenso del clero; e la ignoranza del vero giure canonico. Il re inglese, che tanto sforzossi a darci di sprone, servì forse a’ suoi ma non ai nostri interessi. Mentre egli vuol dar ragione della sua fede e decifrare l’Apocalisse, scosse ciò che s’ha per base delle credenze: di qui le dicerie ch’egli si attentasse a guastar la fede; non a tenerci nell’avviso contro la tirannide. Oh quanto avrebbe fatto meglio se fosse entrato soltanto in politica, contentandosi a difendere il giuramento! La S.V. ha osservato che il papa non ha giusta ragione di lamentarsi; ed è ben vero, se stiamo al parer suo, al mio, o di qualsivoglia altro che creda ai santi Pietro e Paolo: ma sono eresie coteste pel Bellarmino, che tiene per articolo di fede che il pontefice possa scomunicare e sciogliere i sudditi dal giuramento; ed afferma caparbiamente con tutti i nostri, che agli scomunicati, finchè mantengonsi tali, non si può rendere omaggio di soggezione senza peccato!

Ciò ch’ella rammenta di un’alleanza da stringersi fra i principi per salvare, con forze unite, il supremo potere dato da Dio, non è attuabile. In prima, tutti i protestanti hanno in uggia cotesto patto. Fra i cattolici, in Germania non si possono contare che gli Austriaci e i Bavari; soltanto il re nella Francia; e resta a considerare l’Italia. Dicono primieramente dei Bavari, che il vecchio è vero mancipio dei Gesuiti; il giovane abborre i Gesuiti, ma adora, siccome numi, i Cappuccini. Vano è trattare con gente nata al servaggio. Quanto all’Austria, Spagna e Germania, tanta è l’alleanza di quelle principesche famiglie con la Sede romana e coi Gesuiti, e corre sì stretta tra loro la comunione dei consigli, che non si può rompere ne indebolire. Ciò che conferisce all’aumento dell’una, torna proficuo alle altre: nè pensano che l’autorità del papa può ad esse tornar dannosa, come avvenne a Carlo Magno, per gran disgrazia della sua posterità e di tutto l’Occidente. Il papa è per loro un istrumento tanto più utile, quanto è più forte. Del re francese non dico altro, salvo che per benefizio dei Parlamenti rimane al sicuro; quantunque la civil guerra di fresco cessata, insegni a che pericoli vada soggetto: i quali egli ben poteva causare, ma per ragione a me ignota ma che pur credo buona, non volle farlo. I principi d’Italia avean già caro di farsi chiamare vicari del papa; e gli Spagnoli a cui servono, fomentavano queste disposizioni. Ora principiano a svegliarsi; ma non tengono gli occhi affatto aperti nè gli terranno, fino a che la curia non li metta in ardenza a suon di staffile. Molti bramerebbero di ridurre a dovere romaneschi e Gesuiti, e lor mossero guerra, ma di mere chiacchiere; nella quale, come più protervi, sempre quelli prevarranno.

Chi venne con esso loro alle mani, ne assaltò la dominazione fino agli ultimi confini. Scipione soltanto seppe il segreto del domare i Cartaginesi, relegando gli armati ed i validi in altri paesi, per opprimere in patria i deboli, che invano da ogni parte chiamavano aiuto. Non sono formidabili quelle malattie che assalgono le parti estreme del corpo, ma quelle che investono il cuore. Guerreggiano nelle non proprie provincie coll’altrui sangue, coll’altrui danaro: chi gli attacchi in casa, o vincitore o vinto, sempre ha il disopra; e se una volta sola fossero astretti a servirsi delle loro forze, per avventura sarebbero spacciati. L’Italia in calma è la costoro salvezza: per quali arcani avvedimenti possa tal quiete alterarsi, io non basto a prognosticarlo. Per parte degli Spagnoli nessuna paura: hanno essi tanti possedimenti in Italia, che per guerra le loro sostanze, anzichè crescere, si diminuirebbero; e di certo non mirano a cangiamenti di sorta. Prova ne somministra quel che scrisse (or fanno tre anni) il re, in lettere rotonde, ai suoi ministri: si guardassero bene, ed a qualunque costo, dal venire alle armi: a loro stessi, benchè dagli avversari provocata, avrebbe egli imputato la guerra. Così gl’italiani principi si stanno tanto inchiodati alla pace, da odiare persino il nome contrario; e gli esterni solo per aperta forza possono traforarsi in Italia. Se non fosse che a Dio appaiono chiari i consigli che a noi sono nascosti nelle tenebre, io presagirei eterna la potenza dei romaneschi.

Ma io la intrattengo con tante bazzecole, senza pensare il tempo che rubo alle sue serie occupazioni. Però pongo fine allo scrivere, ma non all’amarla, osservarla e venerarla, quanto è mestieri e dovere. Dimenticavo dirle del Molino, ch’egli è tale ammiratore della sua dottrina e schiettezza, da non trovarsi per avventura l’eguale in tutta Francia. Non accade che usi con lui troppi convenevoli e scuse, non avendo che a comandargli, dove le bisogni l’opera sua. Lo stesso bramo che adoperi verso di me. La egregia V.S. serbisi sana, e mi continui l’usata benevolenza; mentre mi è grato di riverirla.

Venezia, 22 dicembre 1609.

Non scrive il Molino pel presente corriere: lo farà per quello avvenire.



  1. Stampata tra le Opere, ec., in latino, pag. 65.
  2. Francesco Juret, canonico di Langres, nativo di Dijon, fu autore di varie opere, e morì nel 1626.


Note

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