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XXI. — Al signor De l’Isle Groslot
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XXI. — Al signor De l’Isle Groslot.1


Da Roma scrivono alli suoi ministri per tutte le città, che sieno avveduti che non si vegga libro alcuno contra Baronio: argomento che là vogliono fondare la loro monarchia temporale.

Non posso partirmi dalla credenza conceputa da me al primo sentire ch’ebbi dell’indisposizione di V. S., ch’essendo contratta frescamente per l’eccessivo rigore dell’inverno passato, dovesse esser corretta dalla natura nell’està seguente.

Quando ella fosse venuto qua, come fama era, non m’averei potuto contenere dal persuaderla che non volesse con medicamenti impedire l’opera della natura. Sentirei piacere indicibile quando nascesse occasione (con suo bene però) ch’io potessi vederla e servirla.

Resto nella mia speranza che il tentare questi bagni non sarà occasione tale, ma ella ricupererà la sanità senza quelli; non restando di aggiungere che, in ogni evento, non debba far gran fondamento sopra la virtù di questi bagni, che forse, come avviene a tutte le cose lontane, sono stimati più costì che qui.

Quando ella si transferisse qui, credo bene compatirebbe alle nostre miserie, più tosto perchè non abbiamo conseguito il fine delle nostre speranze, che perchè siamo in peggior stato. Le cose sono appunto come ella le lasciò, senza peggioramento e senza speranza di meglio.

Quel di che si può dolere, è che, non potendo le cose umane fermarsi nè essendovi speranza, che si megliorino, resta un quasi certo timore di male: però le cose future sono in mano di Dio, e delle temute non avviene la decima parte.

Le vanterie delli padri Gesuiti non hanno fino al presente fondamento, fuor delli loro disegni. Non si è trattato cosa alcuna;2 e, secondo il modo di trattare di qua, non è possibile che dal principio al fine passi meno d’un anno. Non ardisco dar titolo d’impossibile ad alcuna cosa; ma se le congetture ragionevoli hanno luogo, si può dare a questa. Se così credessi che di costà non fosse per venire male alcuno, duplicherei li momenti della mia credulità. Ma non posso negare che da cotesto luogo non temi se non altro, almeno che non sii imitata la volpe che perse la coda. Giudico che li Padri, come savi, abbino al presente maggior pensiero di conservare le cose loro in Germania, che racquistarle qua.

Che cose abbino concluso nella loro congregazione, non è stato possibile penetrare, salvo una, che pur non è buona; ciò è che hanno accresciuta l’autorità al generale loro: il che non è altro, salvo che unir loro più strettamente con la Corte romana e tra sè stessi.

Nelli mesi passati abbiamo patito qualche proposte noiose: adesso tutto è posto in profondissimo silenzio. Per le cose che passano altrove, le quali poco erano curate quando si credeva che si contenessero in Ungaria, ora se ne fa qualche conto, vedendosi uscire e minacciare lontano; e questo ci fa dormire noi più quietamente. Ancora che io sii in ozio, non nasce da negligenza. Ma perchè l’operar importuno potrebbe privar delli mezzi di operare alle opportunità, e nessuna cosa potrebbe più mettermi nelli pericoli da’ quali V. S. teme di me, quanto il fare qualsivoglia cosa di mio capo e senza participazione, e così porgere pretesto a chi lo desidera, che delle macchinazioni ne siino sempre più ordite contra la mia vita (e che queste si ordiscano, son certo, e da molti sono avvisato in particolare); faccio quello che posso mediocremente, senza turbare la quiete dell’animo; e il rimanente rimetto a Dio.

Non ci è cosa forse più necessaria, quanto manifestar al mondo la verità delle cose passate; poichè li nostri avversari, seguendo l’uso e l’esempio de’ suoi maggiori, già hanno fabbricate scritture false e stampate, ma tenute per mettere in luce dove li par necessario e a poco a poco.3 Nondimeno bisogna far qui con cauzione: credo però che il fine sarà conforme a quello che la necessità mostra. Ma di questo le scriverò un’altra volta al più lungo.

Monsignor Gillot mi fece grazia d’un esemplare della sua raccolta materia degli atti del Concilio; che mi fu molto grata, e vi trovo dentro molte cose notabili. Lo ringraziai con una mia lettera, dove anco li mandai copia d’alcune cose ch’io ho raccolto, come per assaggio delle molte che tengo in quel proposito. Prego V. S., quando vedrà quel signore, fargli li miei baciamani, e rinnovargli la memoria di me, che gli vivo devoto.

Ho ricevuto le ragioni della precedenza. Non ho ancora messo mano per leggerle, ma ne ringrazio V. S.; siccome le resto molto obbligato per l’avviso che mi dà di monsignor Leschassier, il quale mi riesce nella cognizione de’ canoni ecclesiastici il più dotto uomo c’abbia conosciuto. Egli m’ha scritto molto dottamente e saldamente: adesso mi manda un certo suo discorso sopra una imputazione datali, che mi pare molto erudito e fondato. Vero è che gli ho scritto con qualche libertà, e tanta, che a un Italiano non ardirei scriver così. All’avvenire mi valerò del consiglio di V. S., il quale conosco prudente e amichevole.

Li signori Malipiero, Fulgenzio e Molino4 gli rendono infiniti saluti. Il signor Molino sta in molta espettazione di vedere il Polibio del signor Casaubono, e frattanto è curioso di sapere che cosa il libro conterrà; se sarà semplicemente con note che servino per intelligenza dell’autore, a guisa che Lipsio sopra Tacito; o pure, se appresso conterrà discorsi militari e politici: e prega V. S. che si degni in grazia sua d’investigare sopra ciò, e scriver quattro parole. Fu scritto qui, che il signor Casaubono fosse per mettervi parte delle cose destinate al trattato De libertate ecclesiastica. Io non posso persuadermelo, poichè sarebbe un prestar occasione a qualche proibizione: se bene, dall’altro canto, sarebbe forse un dar ingresso a queste considerazioni appresso persone che mai le leggerebbono sotto il proprio titolo.

Tengo molto obbligo alla grazia del signor presidente di Thou, che conserva memoria di me. Prego V. S. renderli molte grazie per mio nome, e pregarlo della continuazione e offrirli la mia servitù. Nel rimanente rimango con molto desiderio di far cosa grata a V. S.; alla quale bacio umilmente la mano. Resi al signor Assellineau la lettera. Se a lui piacerà mandar per mio mezzo la risposta, sarà allegata a questa.

Di Venezia, il 27 maggio 1608.



  1. Fra le stampate in Ginevra (1673).
  2. Cioè, del loro ritorno negli Stati della Repubblica di Venezia, ond’erano stati espulsi nell’occasione dell’interdetto.
  3. Le scritture che si pubblicarono, d’una e d’altra parte, nell’occasione della famosa controversia tra Roma e la Repubblica di Venezia, formano di per sè stesse un assai lungo catalogo; ma sarà uno degli artifizi frateschi, non rivelati sin qui, questo dello stampar libri non per divulgarli, ma per disseminarli come di soppiatto, nei luoghi e tempi opportuni.
  4. Il senatore Domenico Molino, uno dei più dotti patrizi di Venezia e intimo amico di Fra Paolo.


Note

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