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XL. — A Giacomo Leschassier.1


Con questo corriere ho ricevuto due lettere della S.V. eccellentissima, la prima delle quali del 22 ottobre, l’altra del 3 di questo mese; e in tanto ne faccio ricordo, in quanto voglio ch’Ella sappia che niuna delle sue andò smarrita. Laddove V.S. si esprime, vale a dire nella prima sua lettera, che dovrebbe condannarsi come pazzo il pontefice, se non si assumesse la potestà di regnare cui la nostra sofferenza gli permette, ha propriamente messo il dito sulla nostra piaga. In questa Italia, la maggior parte degli uomini si lamenta perchè il pontefice non ispiega tutto il suo potere: ora, di questi, taluni sono, per vero dire, mossi dalla superstizione, ma i più dalla propria utilità. Imperciocchè il pontefice elargisce in Italia tutti assolutamente i benefizi, che sono a Lui riservati secondo le regole della Cancelleria, le quali sono aumentate a segno, che nulla omai più rimane a’ conferenti ordinari. Per ciò che spetta ai principi della Spagna, che tengono il primo luogo e comandano al papa, costoro accrescono, per quanto possono, l’autorità di lui, perchè col suo mezzo mantengono con più agevolezza sotto il loro giogo una generosissima nazione. Il duca degli Allobrogi,2 vicino alla Francia, si serve spesso del gius francese; mentre gli altri Italiani per una gran parte ignorano ciò ch’egli vada facendo. I restanti principi dipendono dagli Spagnoli, e per soprassello hanno in famiglia cardinali e prelati, i quali operano nelle chiese a tutto lor placito. Per aver noi qui in Venezia osato di sottoporre a Dio la potestà pontificia, siamo riputati eretici e abbiamo la esecrazione sulle nostre teste. Veramente con molta accortezza V.S. eccellentissima ha pronunziato: «Sarebbero stolti i pontefici se non agguantassero quello che la pazienza vostra ha loro conceduto.» Non di meno; uno solo è l’infortunio che ci torna a vantaggio; ed è che i parenti ed i servi dei pontefici badano piuttosto ad accumularsi un ricco patrimonio, che ad estendere la potestà di quelli. Per ciò che concerne il Senato veneziano, V.S. non lo creda scelto da un gran regno, com’è il Senato di Parigi, ma da un piccolo numero di questa nobiltà. Vi sono certamente in esso dei personaggi d’ingegno e d’erudizione eccellente; ma qualche volta la parte maggiore vince la migliore: salvo quando tutti si accorgono che si tratta della libertà, perchè allora tutti dànno prova di sano giudizio. È così fatto l’ingegno umano, che non dalla ragione ma dalla consuetudine si lascia guidare; e si osservano religiosamente in un luogo alcune pratiche, le quali altrove, e non senza ragione, apparirebbero degne di riso. Così in Italia si reputa eresia se alcuno abbia osato di sottoporre ad alcuna regola la potestà del pontefice: e queste cose io le vo discorrendo non senza tristezza.

Di questi giorni ho scorso le dissertazioni di Filippo Berterio; il quale io reputo autore erudito ed accurato, ed anche, per mio giudizio, valente. V.S. me ne aveva lodato il primo libro: dell’altro non mi aveva dato un preciso ragguaglio. Per il fatto della erudizione io li apprezzo amendue; per il giudizio preferisco l’ultimo. Magnifica colle sue parole la potestà del pontefice nella Chiesa; ma la riduce al suo vero ordine colle ragioni e co’ passi degli autori che allega. A me è parso che quest’uomo abbia aperta la via alla verità colla massima prudenza, sotto pretesto di una contigiata falsità.

Adesso mi occupo del possesso in materia beneficiale, e per questa cagione ho letto Rebuffo3 nel primo tomo, Tract. ad Const. reg., e nel quarto De possess. benefic. Vi ho osservato ch’egli adduce quasi i medesimi argomenti che V.S. mi ha nelle sue lettere trascritti; se non che egli concede che, proferita la sentenza sul pieno possessorio, e compiutamente eseguita, e soddisfatte le spese e l’interesse, si possa in petitorio agire davanti ad un ecclesiastico. Dal che parmi scorgere che noi ogni giorno praticamente minoriamo la giurisdizione ecclesiastica, e che colle nostre costumanze siamo riusciti a far sì, che sia ora caduto in desuetudine ciò che a tempo del Rebuffo era usurpazione. Però, a fine di procurarmi una la compiuta cognizione delle vostre consuetudini, la prego a voler partitamente rispondere a queste poche interpellanze, le quali avvegnachè non presentino costì, sì come io penso, nulla di ambiguo, a me nondimeno non sono chiare abbastanza. Dimando in prima, se un monastero neghi alla chiesa parrocchiale le decime solite fino ad oggi, presso qual giudice la chiesa dovrebbe convenire il monastero? 2° Se un laico solito a presentare ad un benefizio pel gius di patronato, fosse impedito nel suo diritto dal conferente ordinario, il quale donasse il benefizio senza la fatta presentazione, il laico dinanzi a qual giudice dovrebbe convenire il conferente? 3° Se una chiesa pretendesse che una alienazione fatta ad un laico, osservate tutte le solennità prescritte dalla legge, fosse riuscita in enormissima lesione, dove dovrebbe convenire il laico per rescinderla? 4° Se una chiesa abbia rilasciato a un laico un fondo in enfiteusi, e pretenda che egli ne sia decaduto per una data causa, dove potrebb’ella convenire il laico enfiteuta? Questo caso, sebbene paia coincidere coll’antecedente, l’ho posto separatamente, perchè in Italia di frequente nascono grandi contese a cagione delle enfiteusi fra l’una e l’altra giurisdizione. Io la prego, quando voglia scusare la mia importunità, a dirmene a tutto suo comodo due parole.

Per quanto concerne la richiesta che mi fa sul legato Mellino, il moderno imperatore era in cattivo concetto presso i Romani e presso gli Spagnuoli, perchè ricusava di accondiscendere ad essi sulla sostituzione del re de’ Romani e sulla cooperazione di lui stesso in certe altre cose per l’ampliamento della religione romana. Per questa cagione il pontefice, il re di Spagna e altri principi della casa d’Austria convennero di obbligarlo colla forza ad adempiere il tutto; e che Mattia si valesse degli Ungheri, i quali per la inerzia di Cesare eransi resi padroni di sè stessi. Ciò venne adempito; e i congiurati credettero che Mattia avesse sottoposti gli Ungheri, mentre Mattia era soggetto ad essi, e spedirono Mellino a dare perfetto assesto colla pienezza della potestà alle convenzioni. Egli trovò per vero Cesare di..., non però Mattia padrone del campo, ma gli stessi Ungheri.4 Per tal motivo tornò indietro, e opportunamente; perciocchè quello che seguì poi, ha provato che egli non avrebbe potuto più oltre trattare in quei paesi nè con frutto nè con dignità.

Or ecco qual è lo stato delle cose. Gli Ungheri tengono in Polonia i comizi del regno, e sono per elegger re Mattia, imponendogli queste condizioni: cioè, che prima sia eletto dai comizi il Palatino, il quale sostenga le veci del re in sua assenza, e tutto amministri e regoli senza che vi sia il bisogno di recarsi per qualsiasi cagione dinanzi al re assente: che tutte le fortezze siano custodite dagli Ungheri ed occupate da guarnigioni di quella nazione: che gli ecclesiastici siano tolti via all’atto dall’amministrazione degli affari politici: che i Gesuiti non vengano ammessi in alcuna parte del regno: che sia concesso agli Austriaci il libero arbitrio e il pubblico esercizio in fatto di religione; e se da alcuno fosse violata la libertà degli Austriaci, venga permesso agli Ungheri di appoggiarli colle armi: in fine, che la corona reale e le altre insegne del regno (a ciò in Ungheria si bada col massimo scrupolo) siano custoditi dagli Ungheri stessi, nè possano dal re esser portate fuori del regno, come altra volta avvenne. Mattia accetterà senza dubbio queste condizioni, e sarà creato re di nome.

Il comitato del Tirolo si regge sotto l’arciduca Massimiliano fratello di Cesare, e ivi gl’interessi di Roma sono in vigore. Finalmente, tutta Italia, o (dirò con più esattezza) il dominio della Repubblica è circondato dalla casa Austriaca; onde accade che questi principi minacceranno anco a noi qualche male, specialmente se verificherassi la tregua in Batavia: il che mentre la ragione ci distoglierebbe dal credere, tende a persuadercelo ciò che macchina il Cristianissimo. Del quale tuttavia, come principe assai prudente, stimiamo essere i consigli secreti al pari che salutiferi.

Pienissimamente V.S. mi ha soddisfatto sul Concilio di Reims, e sugli altri articoli pei quali io l’aveva interpellata. Ho dall’ultime sue lettere imparato molte cose che possono esser qui di vantaggio. Io le pratico appuntino, e desidero averne molte in pronto per giovarmi di una forma che possa più agevolmente accomodarsi alla materia. Non potrò mai renderle grazie abbastanza. Prego Dio che co’ suoi doni la ricompensi di quanto io le devo. Con che ponendo fine a questa lettera, cordialissimamente auguro alla S.V., e a’ miei signori Gillot e Casaubono, salute.

Venezia, 25 novembre 1608.



  1. Edita: come sopra.
  2. Cioè, il duca di Savoia.
  3. Giureconsulto francese di Montpellier e professore di legge in Parigi.
  4. Il testo latino ha: Ille reperit quidem Cæsarem di..., non tamen Mathiam rerum potientem, verum Ungaros ipsos.


Note

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