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XLVI. — Al signor Le l’Isle Groslot.1
Le lettere di V.S. delli 28 settembre sono restate in Lione 15 giorni di più, insieme con tutte le altre del signor ambasciatore e private e pubbliche; e arrivate qui solamente il 9 del presente, con mio dispiacere, sentendomi privato del gusto e frutto che ricevo da tutte le sue considerazioni.
Il pacchetto direttivo a monsieur Assellineau ha patito, per l’istessa causa, l’istessa dilazione: è però venuto ben condizionato, ed io gliel’ho consegnato. Il desiderio mio di penetrar qualche poco negli arcani delli Gesuiti non è una curiosità o vanità, ma il più utile, anzi necessario disegno, che io possa intraprendere in questo tempo. Preveggo, anzi più tosto veggo le insidie che ordiscono, e temo che noi stessi finalmente combatteremo per loro contro noi; onde conviene prepararci ad una guerra esterna e civile insieme, non senza speranza che la diligenza anticipata non sia per riuscir vana.
V.S. riprende ragionevolmente la nostra, dice ella pazienza, dico io negligenza, la quale ci condurrà allo stato ch’io dubito; e dubito ancora che ci riprenderebbe più, se la vedesse più da vicino. Non stimo tutti gli altri nemici un punto, rispetto a questi; perchè sono più in unione, più costanti e più arditi, insidiosi e arrabbiati. La corte non è tutta unita; ha ancora occupazione nelle proprie ambizioni e delizie: questi,2 vuoti d’ogni pensiero vano e buono, non danno luogo che alli maligni. Il nostro bene sarebbe che facessero qualche cosa aperta, che ci svegliasse; ma essi, savii, veggono che sarebbe operar a nostro favore.
Il salvocondotto di che ella parla, fu veduto e considerato e stimato come si doveva, e vari discorsi vi sono stati fatti sopra la deliberazione, presa (secondo il solito) a portar tempo innanzi. Il male è che questo si scorderà, e non si soprapponerà alle altre insolenze che quell’uomo fa alla giornata.
La partita di Fra Fulgenzio, in verità, non fu offesa pubblica, perchè egli non era servitor pubblico, non stipendiato, non pigliato particolarmente in protezione; se non solamente per la legge generale fatta, che tutti gli ecclesiastici che non hanno servato l’interdetto, fossero sotto la protezione del principe. Nemmeno a Fra Fulgenzio fu mai comunicata cosa alcuna secreta, nè mai dimandatoli parere suo: egli ha predicato, come fece, di sua volontà; onde non si vede perchè si possa dolerci della sua partita. Veramente non è ingiuria alla Repubblica, se non che ciò sia stato fatto per ingiuriarla, e che tuttavia si reputi che sia un’ingiuria fattale. Si è fatta in Roma gran dimostrazione per la sua andata: ora le cose sono raffreddate, o perchè lo scoprino pazzo, come egli è; o perchè da principio lo disegnassero, affinchè la cosa tornasse dove si vede che s’invia. Comune opinione è, che egli averà breve vita.
Hanno di nuovo comandato a quel prete Michiel Viti,3 che fu la scorta delli miei sicari, che parta da Roma; e in Ancona hanno fatto imprigionare la seconda volta il Parasio,4 uno di essi. Io non intendo questi misteri, ma vado con molta cauzione; più acciò restino essi defraudati del suo desiderio, che per stima ch’io faccia di me stesso.
Come V.S. dubita ch’io esageri danni da lei poco temuti, io li credo e li tengo per certi. La corte di Roma, e il suo capo, non si scordano che non abbiamo voluto conoscere la sua onnipotenza: il quale mancamento è il supremo che possa esser commesso contro loro; perchè sospirano così alla vendetta, come a rimettersi nel grado di prima; e per effettuare questo, non perdoneranno ad ogni opera e fatica. Però, sono certo non faranno niente.
Li Spagnuoli sanno benissimo che non è per loro il muovere in Italia, dove con pace acquistano quotidianamente senza pericolo, e con la guerra si esporrebbero a perdere tutto. Adesso che sappiamo le cose passate più certamente, li consigli loro s’intendono. Dio volesse che non ci facessero più danno con la pace, che con la guerra.
Non ci sono così noti li consigli vostri, e non possiamo in alcun modo intendere nè il gran favore prestato alli Gesuiti, nè la grand’opera per far seguire la tregua in Olanda. Io credo che mai nessuno ha bevuto nella Tracia tanto, e quasi credo sia evacuata tutta; e non per ignoranza, come molti, nè per debolezza di cervello, ma con deliberata volontà. Dio soprastà a tutti li consigli: io spero assai nella sua bontà, perchè chi è in errore qualunque, è ingannato.
Quanto al mio particolare, sapendo che non piace alla Maestà Divina l’uso dell’inopportunità, non resto di rendermi ogni giorno e più pronto e più atto, se l’occasione si presenterà, d’adoperarmi; e fo come l’artefice, che nel tempo non mette all’opera, si fornisce di materia: la quale se non venirà, l’ammassato potrà servir a qualche altro. D’alcune cose posso provvedermi da me; delle altre di che ho bisogno, ricorro alli benefattori, come a lei nella materia dei Gesuiti: in che è necessario che il gentiluomo scozzese, di cui V.S. mi parla, abbia molto penetrato, poichè a studio vi si è posto dentro. Riceverò con molta gratitudine qualche cosa di quelle, se V.S. ne potrà acquistar alcuna particella: come anco di quello c’ha scritto De modo agendi;5 quale stimo grandemente, solo per la risposta fattagli da loro, come quella che mette in vista un’unghia dell’animale.
Resto molto obbligato a V.S. per la cognizione che mi ha fatto avere di monsieur Castrino; del quale avendo già ricevuto due lettere, lo scopro compitissimo, e in somma capace dell’amicizia di V.S.: qualità principali per farmi riverire qualunque.
Ritornando alli Gesuiti, tengo per verissimo, come V.S. dice, che essi siano li disegnatori nelle mozioni di Germania; ma perchè non li vedo adoperarsi apertamente con la spada a lato, come facevano nelle cose di Francia, mi persuado che non sia il negozio al colmo dove disegnano tirarlo per adoperare, ma vi sia anzi più tosto un preludio indegno della prova di gladiatori valorosi e veterani.
Questi buoni Padri fabbricano un solenne collegio in una piccola e sgraziata terra, che si chiama Castiglione, nel territorio Mantovano, distante da Brescia e da Verona 20 miglia da ciascuna. Quel luogo non ha tanti abitatori quante stanze preparano; e essi ardiscono pubblicare, ma sotto mano, che sarà per scolari bresciani e veronesi. La fabbrica si fa con tanta celerità, come d’una cittadella sotto quale s’aspettasse l’assedio: il rimanente resterà a giudizio di V.S. Quello che sarà fatto qui, non posso prevedere. Le dirò solamente, che essendosi scoperto che alcuni Trivigiani dovevano andar al loro collegio a Parma, è stato comandato a tutti quelli che hanno beni, di non uscir dello Stato per causa di studio. Usciamo dall’ipocrisia.
Quanto ad Avignone, quello ch’io so è, che avendo l’ultimo conte di Provenza, di razza spagnuola, sole figlie femmine, maritò la primogenita a Luigi IX santo, e altre altrove. Alla morte, si trovò l’ultima da marito, alla quale lasciò la Provenza per testamento. San Luigi pretese nullità, e che lo Stato fosse di sua moglie e se ne impossessò; ma dopo, diede l’ultima figlia del conte a Carlo d’Angiò suo fratello, cessali la Provenza. Di questo matrimonio viene dopo più successioni Giovanna, che vendè Avignone. Il punto adunque sta se san Luigi cesse al fratello la sovranità di Provenza, approvando il testamento del suocero, e confessando la sua moglie non avervi ragione, e sè usurpatore; o pur se gli concesse per grazia o per transazione l’utile, riservatasi la sovranità.6 Di questo ne ho scritto a lei, perchè è cosa da sapersi non per scrittori, ma per gli atti di quel re, che si conservano (credo io) nella Camera dei conti di Parigi.
Quanto all’assemblea che sarà stata tenuta, m’immagino che sarà riuscita con qualche diminuzione di bene. Però, in questo tempo, quello guadagna che discapita poco. Mi sarà grato sapere la risoluzione, sia qualsivoglia.
Scrivo qualche cosa di nuovo a monsieur Castrino, che la comunicherà a V.S. Alla quale non voglio più essere noioso con la lungezza di questa, ma farò fine, baciandoli reverentemente la mano. Li signori Malipiero e Molino le rendono infiniti saluti, e monsieur7 Fulgenzio parimente.
Quando piacerà a V.S. inviare alcuna cosa per Bergamo, per far la cosa con più sicurezza, potrà coprire il pacchetto con una soprascritta Al Clarissimo signor Domenico Molino in Venezia, e sopra quello All’Illustrissimo signor Capitaneo di Bergamo, in Bergamo.
- Di Venezia. 11 dicembre 1608.
- ↑ Edita nella raccolta di Ginevra, pag. 85.
- ↑ Ognuno intende che parlasi sempre dei Gesuiti; e nessuna persona un po’ saggia dovrà prendere a gabbo queste parole del buon frate, fintantochè una setta così nemica di ogni civiltà abbia esistenza nel mondo.
- ↑ Correggiamo la prima stampa, che ha, molto erroneamente: Padre Maelviti. — Michiel Viti era un prete bergamasco, che dimorando in Venezia, aveva contratta qualche domestichezza con Fra Fulgenzio Micanzio, col pretesto di consultarlo sopra casi di coscienza ed altre materie di religione.
- ↑ Alessandro Parrasio anconetano, era bandito dagli Stati papali per aver tenuto mano ad assassini, e vivevasi ritirato in Venezia presso certi Gottardi suoi parenti, riparandosi col fare il maestro di scherma. È cosa, in verità, troppo onorevole per sciagurati di tal fatta, che i loro nomi si trovino registrati in queste Lettere.
- ↑ Vedasi la Lettera XXX, a pag. 101.
- ↑ Ogni più lieve cognizione della storia d’Italia di quei tempi bastava a correggere i gravi errori che erano corsi in questo paragrafo nella prima edizione; e tra gli altri: Giovanna che vendè Napoli; il testamento del successo; ec.
- ↑ Così qui detto per celia, e forse per contraffare un titolo usato da’ corrispondenti francesi.