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LI. — A Giacomo Leschassier
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LI. — A Giacomo Leschassier.1


Le strettezze del tempo in cui trovomi pel tardo arrivo delle lettere in questa settimana, mi obbligarono a rispondere alle sue carissime con assai più brevi parole di quel che avrei desiderato. Rendo anzi tutto grazie infinite a V.S. eccellentissima, perchè abbia risoluto le quistioni che Le misi innanzi.

È testè morto il commendatario dell’abbazia di Santa Maria di Vangadizza, diocesano d’Adria e dell’ordine Camaldolense. Ha in entrate presso a 12,000 ducati; vanta giurisdizione e dominio diretto su quasi tutti i fondi del Polesine di Rovigo, ed è piantata presso al confine di Ferrara. La Repubblica domanda che si dia al convitto dei monaci; il pontefice ha deliberato d’incommendarla, giusta il consueto, al cardinal Borghese. Che sia per accadere, lo ignoro. Il papa penso che non si smuoverà. Dalle circostanze piglieranno gli altri partito.

S’accese di questi giorni un’altra disputa col pontefice, nata per l’appresso cagione. S’era infiltrato in questa città l’inconveniente, che nelle principali feste di chiesa gli uffici vespertini si prorogassero fino al cuor della notte; e perciò le meretrici, favorite dalle tenebre, e i giovani lascivi non guardavano a reverenza del sacro luogo, e ne venivano spesso casi di scompiglio e di sangue. Per lo che, il magistrato che deve aver cura della pubblica tranquillità, divietò questi sacri esercizi in tempo di notte, e comandò che sul primo imbrunire si chiudessero i templi. E il papa a gridare che ciò è contrario alla libertà ecclesiastica, e che il magistrato è incappato nella scomunica; commendando, a vero dire, la materia dell’editto, ma riprovandolo solo per l’ardimento in che vengono i laici di comandare ai preti; e fino a lasciarsi scappar di bocca queste precise parole: — che vuol resistere alla proibizione, acciò che Fra Paolo non dica che, per tolleranza del pontefice, i secolari entrano su ciò in acquisto di dritto. — Oh la bella libertà! Rispetto a profanazioni di chiese, licenziategli a levare abusi, e non ci pensano: pigliatene briga da per voi, e vi legan le mani. Ma gridi a sua posta; il decreto starà. Mi resta ancora ad aver contezza di più particolari sulle costumanze vostre; ma le rimando al prossimo corriere.

Quanto a vicende politiche, dirò che Orbec, il più gran principe maomettano che ha dominio di là dalla Persia su quei popoli che, pei lor negri turbanti, chiamano Geselbi, venuto alle mani col re dei Persiani, ne sbaragliò talmente le truppe, da quasi distruggerle, propagando l’imperio su molte regioni. Quantunque ciò si veda bene dai Turchi, che grandi noie a’ confini riportavano dal Persiano, non però patiranno essi che sia affatto annientato, per non dare in vicino signore più dell’altro temibile, non foss’altro perchè risiede a Sarmarcanda, donde uscì Tamerlano, nome d’infausta ricordanza per gli Ottomani. Prego V.S. eccellentissima di salutar tanto a mio nome Gillot e Casaubono, e continuarmi l’antica sua benevolenza. Stia sana.

Venezia, 6 gennaio 1609.



  1. Edita in latino, tra le Opere di Fra Paolo, ediz. e tom. cit., pag. 46.


Note

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