< Lettere (Sarpi) < Vol. I
Questo testo è completo.
XCVII. — Al signor De l’Isle Groslot
Vol. I - 96 Vol. I - 98

XCVII. — Al signor De l’Isle Groslot.1


Scrissi per la passata a V.S. l’accomodamento successo nella cosa di Vangadizza:2 adesso siamo senza controversia alcuna con la corte romana, se forse non surgesse una nuova; perchè è stato giudicato e condennato del conseglio de’ Dieci l’abbate Marc’Antonio Cornaro, per aver con una barca armata assaltato nel canal della Giudecca una gondola, dove era un mercante con la moglie, e fattolo saltar in acqua e levato la donna. Però io son di parere, che la corte si contenterà di tacere, e che così sarà tanto più apparente qual fosse la forma dell’accordo già fatto: ma quel che più di tutto rileva, io tengo quasi per fermo, che non debba nascere con questo pontefice altra controversia. Di chi sia opera questa concordia, lo potrà V.S. congetturare considerando li effetti che ne seguono e ne seguiranno.

Ella giudica benissimo che noi siamo guidati dalli rispetti delle cose presenti; ma forse voi ne avete la causa notissima, non tanto per mezzo di persuasione, ma anco con qualche modi violenti. Questa quiete potrebbe essere una via a moti maggiori; ma la natura nostra è di pensare più al presente che al futuro. Li consigli degli uomini sono troppo sciocchi per poter pervenire dove credono: Dio effettua la sua volontà anco per vie contrarie: là io mi rassegno, e penso voler metter l’animo mio in pace e tranquillità.

Delli Boemi, non intendiamo che l’imperatore abbia a restringerli, anzi a levar loro le cose concesse, doppo ch’essi hanno disarmato. Della Carniola e Stiria non intendiamo cosa veruna: li moti sono stati leggerissimi, e credo terminati in quiete totale per l’opera diligente de’ padri Gesuiti, che si sono adoperati per mantener la costanza nel suo principe. Io vado divinando, che anco le cose di Cleves termineranno in pace, per l’opera del re Cristianissimo, al quale il mondo è debitore della tranquillità che gode.

Il libro del re d’Inghilterra sarebbe stato letto qui con eccessiva curiosità, se ne fosse venuto qualche esemplare. Pochissimi se ne sono veduti: ora la curiosità comincia a mancare.

La raccolta delle mie memorie che V.S. sa, è ridotta ad aumento grande, ritenendomi li rispetti che può congietturare, a tenerla appresso di me; e non potendo star ozioso tra tanto, sono disceso sino alle formali parole. Ma tuttavia seguono e crescono li rispetti medesimi, che mi rendono l’animo molto sospeso. Io vorrei poterli comunicare con V.S., e a questo effetto pensavo mandarli una cifra per questo spaccio; ma il tempo non mi basta per comporla per il corriero seguente, e discenderò un poco alli particolari con esso lei, e per mezzo suo col signor di Thou, per tentare se pur si può fare cosa buona. Noi Italiani vogliamo fare le cose nostre tanto sicure, che perciò perdiamo molte buone occasioni: onde fa bisogno accompagnarsi con qualche persone veementi, che scusano un poco la nostra superflua cauzione.

Per ora non sarò più lungo. Il signor Castrino le darà le nuove rimanenti; e io, facendo fine, le bacio la mano, col padre Fulgenzio. Dal signor Molino credo ch’ella riceverà lettere per questo stesso spaccio, con una ode del nostro Menino, il quale è come un castoro tra le acque di Venezia e la terra di Roma.3

Di Venezia, il 13 ottobre 1609.



  1. Dalla raccolta di Ginevra ec., pag. 199.
  2. Il Sarpi avea composte, nel 1609, sopra quella controversia ben cinque scritture officiali o Consulti, i quali si conservavano e forse ancora si conservano nei veneti Archivi. Vedi Griselini, Memorie aneddote ec., pag. 101.
  3. Puntura acuta abbastanza contro il povero professore, poetante politico e già pretendente alla porpora (Vedi nota 1, pag. 200); per essere il castoro, come tutti sanno, animale anfibio.


Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.