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CXXV. — A Giacomo Leschassier.1
Per l’ultimo corriere che precedette questo, la certificai del ricevimento delle Lettere d’Ivone; come pure della risposta alla mia domanda intorno la donazione fatta alla Chiesa senza alcun onere: e di tutto ciò la ringraziai, se non come dovevasi, almeno come potei.
Non v’è causa da temere per le lettere ch’Ella consegna all’ambasciatore della Repubblica, ovvero a’ suoi famigliari. Fin qui, difatti, mi pervennero tutte sicuramente. Osservo sempre il suo sigillo, come le altre cose a me note; e le trovo tutte intatte. Talora i corrieri tardano, soprattutto d’inverno; nè v’ha da maravagliarsi se qualche volta le vengono un po’ stentate le mie risposte; chè, in verità, sono trattenuto da molte occupazioni, delle quali tuttavia nessuna preferisco a questo ufficio di scriverle, perchè non potrei trascurarlo senza colpa d’ingratitudine. Se talora mi preme l’angustia del tempo, scrivo lettere più brevi, come la precedente; la quale dettai talmente a fretta, che non mi fu dato nemmeno di rileggerla. Ora ho la sua delli 13 gennaio, avendone tuttavia ricevute in quel giorno da altri in data de’ 26. Questo fa che talvolta le risposte sembrino tardive.
In quanto, nella sua lettera. Ella considera che il pontefice, colla donazione dei beneficii, si fa signore della terza parte dei beni; io già questo veniva predicando ai nostri, insegnando ad essi il modo col quale accrescerebbero il dominio della Repubblica; come accadrebbe per altrettanto e metà più, non per dilatazione di luogo (il che porta debolezza), ma per augumento di forze. Perocchè, non pure il pontefice è signore di tutti i beni, ma eziandio della terza parte degli uomini, se numeri quelli che posseggono, che sperano e che a necessità di tal sorta si trovano obbligati. Non mancano persone che approvino queste cose, ma l’esecuzione richiede la sua opportunità. All’uomo più dell’odio, nuocciono le blandizie della meretrice. Tant’è: le opinioni veraci ed utili si debbono rafforzare ed estendere coi buoni scritti.
Io pensai sempre fra me stesso: tutti quelli che vogliono darci precetti politici, scrivono commenti sopra Tacito; vera peste dell’aristocrazia. Se il signor Casaubono che scrive sopra Polibio, il quale tratta della aristocrazia romana, recasse in mezzo precetti idonei a tal regime, ed espressi colla sua dolce e fluida eloquenza, farebbe cosa a noi tanto proficua, quanto ai romaneschi contraria: come se, intorno all’affare del quale trattiamo, egli facesse opportunamente osservare, che a nessuno Stato può giovar che un principe straniero doni i beneficii in esso costituiti, nè che sia padrone dei religiosi i quali vivono sotto le sue leggi. Del rimanente, per quanto si possa, e serbato appunto il diritto di mettere in possesso, ci sforziamo di non cedere ai romaneschi ogni cosa. Eglino ci pregiudicano tanto col sofisma del possesso spirituale, quanto, con altro arcano diritto, non soffrono che si susciti alcuna lite sopra le cose beneficiali. I nostri prendono ciò pel buon ordine della disciplina, benchè io ammonisca che questo appunto è un arcano, e che sotto il miele si nasconde il veleno; ed ho sempre in bocca, che quella massima della cosa spirituale non è altro che un possesso temporale; e ciò mi sforzo di confermare coll’autorità degli scrittori, dei quali ho a mano pochissimi, tranne i francesi; nè questi stessi conchiudono ciò in possessorio adipiscendæ come Guido Papa,2 il quale nelle Decisioni sembra il principe per ciò che spetta al difendere codeste massime, e nelle Questioni nega ai magistrati laici la potestà di sentenziare in causis acquirendae. Ma io difendo talmente la verità, che spero di persuaderla al fine a tutti quanti.
In quanto la S.V. approva il fatto nella esecuzione della sentenza capitale contro a preti senza degradazione, quando il vescovo ricusi di compiere un tale ufficio, mi è caro il veder lodata la mia opinione da uomo tale qual’Ella è: ma io voglio spiegarle in diritto la causa del rifiuto. Obiettò non esser cosa conveniente a un vescovo nobile e primario, nè aversi alcun vescovo volgare al quale commettesse quell’uffizio. Ora raffreni la collera, s’Ella può.
I vostri vescovi i quali sostengono il Concilio Tridentino, perchè dà molto ai vescovi, che cosa si cerchino non sanno. Così pare a chi legge; ma non a chi abbia veduto in fatti in qual modo la cosa si metta in pratica. Ora, in Italia, i vescovi sono costretti di rapportarsi per tutte le cose a Roma, e attendere di là la decisione e le sentenze. Laonde, avendo il papa proibito a tutti la interpretazione del Concilio e serbatala alla Congregazione romana, questa con tal pretesto ha tirato a Roma tutto quanto il reggimento; e ciò non solo dall’Italia, ma dalla Spagna, dove le recherà maraviglia che un vescovo non possa ammettere nemmeno una monaca a far professione senza licenza di Roma. Oltrechè, non vogliono i romaneschi che di una dichiarazione in un dato caso emanata, altri faccia uso in alcun altro, affinchè tutti gli affari mettano sempre capo a Roma. Il tempo mi mancherebbe s’io qui volessi ogni cosa narrarle. In una parola, i vostri arcidiaconi possono ben più dei nostri vescovi. E poichè trattasi del Concilio di Trento, aggiungerò essermi riferito, che i Gesuiti si adoperano perchè i loro addetti giurino costà nelle parole di quello e a quello sottoscrivano: il che desidero sapere se sia vero.
Lessi di questi giorni la Storia Belgica del Meteren.3 Questo autore, sotto l’anno 1596, nell’ultimo libro, tratta dei Comizi, e dice che nel Parlamento di Parigi furono decretati tredici articoli, i quali va pure divisando. Io non gli presto fede interamente, perchè nelle cose italiche e nelle giuridiche è pieno di menzogne. La prego a significarmi s’egli abbia o no detto il vero; imperocchè nella legge salica v’ha il settimo articolo, che dichiara non potersi dalla religione cristiana cavare il modo da far sì che il re sia costretto ad essere cattolico: v’ha l’undecimo, il quale ordina che non debbano punirsi gli eretici, nè obbligarsi colla forza acciò si facciano cattolici: v’ha il duodecimo, col quale si comanda che si preghi pubblicamente nella Chiesa per gli scomunicati, sì vivi che morti.
Troppo a lungo l’ho trattenuta; nè proseguirò altrimenti, dopo averla pregata di voler perdonarmi la mia importunità. Dio la mantenga tale per lunghissimo tempo, qual’io desidero ad uomo sì esimio, e da me soprattutti onoratissimo.
- Di Venezia, li 16 febbraio 1610.
- ↑ Stampata in latino, tra le Opere ec., pag. 71.
- ↑ Benchè così ordinariamente si chiami questo giureconsulto francese del secolo XV, meglio sarebbesi nominato Guido del Papa, stantechè Guido Papae chiamisi egli stesso nelle sue opere. Tra queste è la più celebre quella che porta il titolo di Decisiones Gratianopolitanæ.
- ↑ Emmanuele Van Meteren fu autore di una Storia dei Paesi Bassi, stampata la prima volta nel 1597, e più volte poi tradotta dall’originale latino e ristampata.