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CXXXII. — A Giacomo Leschassier.1
Delle lettere di V.S. prendo tal piacere e profitto, che la loro mancanza mi sarebbe all’animo importabile cruccio; e quantunque non ci sia dato sempre valerci della opportuna occasione che fin qui ne ha porto l’illustrissimo signor Legato, tuttavia spero che se ne presenteranno continuamente delle altre. Ora sono in faccende col signor Castrino per trovare un modo pratico da servire almeno un anno. In questo mentre, col divin beneplacito, altre si presenteranno.
Al presente son tutto intorno alle materie beneficiali, e mi lusingo di metter riparo non solo a quegli sconci che si reputano degni di cura, ma forse ad altri ancora. Parmi che Covarruvias abbia inteso pel suo verso la cosa, parlandone però a quel modo che consentivano i tempi e costumi. Io odio sopra ogni credere quegli artefici spagnuoli. Perocchè, qual bisogno v’ha d’andar dicendo che alcuna cosa può imprendersi in ragion di fatto, non di diritto, o in maniera straordinaria, non ordinaria, come porta tutto il capo 35 di Covarruvias? Non è cosa più ragionevole e alla Repubblica più conveniente, che il necessario a farsi si stabilisca piuttosto per legal giudicato, che di privata autorità? Io sempre ho più pregiata la consuetudine francese; che mi pare più salda e non conducente a disordini. Fa, invero, alle pugna col giure delle genti una conclusione siffatta; che, cioè, quel ch’è necessario a farsi e nasce da un bisogno pubblico, per dritto non ci sia permesso di farlo, e pure si possa fare. Cotesti ragionamenti mi sembrano simili a quelli di coloro che cercano se, a salute dell’anima, sia lecito commettere un peccato: giacchè, se s’adopera a salvar l’anima, per ciò stesso non si fa peccato; e se peccasi, questo non riesce davvero a salvazione dell’anima.
Ebbi le sue osservazioni sulla degradazione, come ho detto in altre mie. La cosa va proprio com’Ella rappresenta; i chierici hanno sempre in serbo di nuovi sofismi per deludere l’autorità dei magistrati. Se ottenessero quello che chiedono in tal causa, starebbe senz’altro in loro arbitrio l’approvare o rifiutare le sentenze di quelli. A me ha recato assai molestia l’udire che i vostri preti esigono dagl’inferiori il giuramento di osservare il Concilio Tridentino; in quanto che temo da questi principii, che abbiano finalmente ad appiopparvela di viva forza. E se ci riescono, noi non avremo più modo a rintuzzar quella forza che gli vorrebbero dare in Italia, facendone la legge suprema. Ma che mostruosità è mai questa, che s’abbiano a imporre giuramenti ostili ai vescovi, al papa e ai regnanti? Qui apparisce un certo tal quale spregio delle divine cose. Da noi, la romana curia costringe i vescovi e gli abati a giurare sulle parole del pontefice; giuramento che è in voga per le feudalità: ma, del resto, innanzi a principi non emettono giuramenti. Che se potessimo (come ragion vorrebbe) reputare i prelati sciolti da quel giuramento, forsechè ne seguirebbe alcuna moderazione di quella romana strapotenza; giacchè se quello che a parole giurassero, in fatti non mantenessero in alcun modo, ciò tornerebbe a gravissimo scandalo dei popoli.
Rispetto a ciò ch’Ella scrive circa l’avvocato concistoriale, il quale prova le riserve da questo, che tutt’uno sia il concistoro di Dio e quello del papa, non le rechi maraviglia di sorta. Noi siamo ingombri fino agli occhi di simili libri. Oggimai tutte le quistioni si troncano per siffatte ipotesi: il papa è un secondo Dio, e può quello che Iddio stesso; d’ingiusta può tramutare in giusta una cosa; ogni diritto egli annida nell’alto petto: e cotali altre asserzioni, le quali se fossero conformi al vero, con ragione dovremmo noi soffrir taccia d’empietà, la quale pur ci è senza fondamento addossata, per aver sostenuta la ragionevolezza del restringere tra qualche limite questa tremenda e strabocchevole potenza.
Se le cose in Italia usciranno dallo stato odierno d’immobilità, bisogna aspettarsi che tutto fra breve si ricomponga in meglio. Scrissi al Menino in Padova,2 dove al presente dimora. A ragione V.S. gli vuol bene: com’Ella trovò schiettezza nelle sue lettere, così faccia conto essere in lui bontà d’indole e di costume. Amerei vederlo occupato nell’esame delle Pandette; è questo il suo cómpito naturale. L’incarico di decifrare il vecchio giure ecclesiastico, siccome riuscirebbe nuovo in Italia, così vorrebbe un uomo che più valesse per saldezza d’animo e coerenza di principii, che per eloquenza. A voi altri toccherebbe darci alcun che di simile a Cuiacio, Duareno, o (parlando più a proposito) al Leschassier: ma questo è meglio da desiderare che da sperarsi, se non ci soccorre la Divina Bontà, in cui sola devesi aver fiducia.
Qui ha preso forza la voce, che il re Cristianissimo faccia apparecchio di grandi forze militari: il che se, come penso, si confermerà, a molti cangiamenti andremo incontro; e neppure le cose ecclesiastiche ne andranno esenti, per quanti sforzi altri possa opporre. Il partito che prenderà il re verrà osteggiato dalla curia romana; la quale porrà mano ai fulmini. In tanta contraddizione di animi, non potrà lungamente mantenersi la concordia nel governo della Chiesa. Passi per congettura; ma quantunque la Francia non assaggi la guerra, pure eviterà quei rimescolamenti che sono frutto delle discordie. Faccia Dio che ogni evento partorisca a lui gloria; ed io lo prego perchè sempre protegga la S.V. eccellentissima, e mi dia forze a chiarirmele non disutile servitore. E stia sana.
- Venezia, 30 marzo 1610.
- ↑ Stampata, come sopra; pag. 76.
- ↑ Professore di leggi e autore, non troppo coraggioso, di caustiche scritturelle, di cui parlasi nel tom. I, pag. 78 e in altri luoghi. Ma peggio che in questa, lo vedremo trattato nella seg. Lettera CXXXVI.